Il fascino della nebbia; non vedere il paesaggio oltre una certa misura; contagio della nebbia ai pensieri: confusione.
“Quaderno a cancelli” di Carlo Levi è l’ultimo libro che il “Giove buono” ha scritto. Anno 1973. Un libro di cui nessuno parla. A leggerlo non si capisce molto: tutto è come sognato, tutto è come un assurdo e implacabile parlare tra sé e sé.
È un libro, questo, di nebbia: fatto di nebbia.
A un certo punto Carlo Levi immagina una folla in movimento – una folla medievale, di cenciosi, di ricchi. Sono tutti diretti a una stessa meta. Dove va la folla sognata da Carlo Levi? Al Congresso di Moncalieri, dice lui. Secondo me, invece, vanno tutti a morire.
L’umanità incamminata verso la stessa meta.
Dice Levi: il bambino che chiude gli occhi, e gioca a scomparire, ha capito la verità. Il segreto è chiudere gli occhi e scomparire. Possiamo pure giocare a morire, parrebbe.
Siamo fatti di sogni e anche il sogno dimenticato al risveglio ha un senso nella storia del mondo. Anche la polvere che si accumula nelle librerie. Questo lo dice Borges. Ha tutto senso, quindi. Anche i sogni che Carlo Levi fa quando perde la vista e scrive aggrovigliando le parole sul suo “quaderno a cancelli”.
Quando si dice: a cosa serve questa cosa?, in realtà si dice una cattiveria, un’inutile bugia. A cosa serve la vita e la morte? E il caffè? E le nuvole? E l’erba maligna? Perciò la nebbia, la confusione, la polvere, la stessa poesia sono cose vere del mondo, che hanno un senso nella storia del mondo.
La poesia non morirà mai. Solo il dominio smetterà di fare danni, di sporcare le cose e gli infiniti sensi del mondo.
L’uomo non deve svelare il senso, ma vivere dentro alle cose.
L’uomo compie il destino, non lo decifra.
Carlo Levi, realista mitico, alla fine dei suoi giorni ha creduto ai sogni, ha accettato la nebbia.
Viviamo in una civiltà che ci chiede passaggi logici, costruzioni, progressioni, miglioramenti e sistemi. Tutti scrivono contro i sistemi per costruirne di nuovi. Magari il sistema dell’antisistema. Invece la vita non va verso un fine logico. Non esiste un nesso tra le cose. La mente dell’uomo è una compulsione di cose disconnesse: emozioni; idee nebbiose; vuoti.
Ma soprattutto nebbia, crepuscolo, profonda commozione di fronte alle cose che accadono e poi desiderio di perdersi in esse senza apostrofarle.
La nebbia, la poetica della nebbia, non è l’anestesia della televisione. È l’ebbrezza del sonnambulo, di chi si affida alla vita e ne è guidato. Non si può guidare la vita. Il cielo stellato è come un braccio meccanico che proietta la nostra vita sullo schermo di chissà quale spettatore. Noi godiamo a fare le comparse, perché ha senso questo piccolo ruolo. Tutto ha senso.
L’uomo che si chiude è un uomo che non ha paura. Il silenzio non è vero che crea solo silenzio. Il silenzio crea un legame dalla parte opposta della comunicazione: è come bucare una parete dalla parte opposta. Il silenzio fa rumore.
Carlo Levi ha amato l’umanità, di un amore mitico. Ha reso grandi i piccoli gesti degli uomini. Li ha resi giganti. Lui è passato e ha fatto gigantografie, ha reso grandioso il piccolo. Tu stai chinato a terra con la faccia immersa nelle piccole cose della vita e lui ti issa in alto come un santo. Poi ha accettato la malattia, e l’amore è diventato cancello, la forza confusione, il tempo nebbia. Il tempo è fatto di nebbia. Lì si capisce che s’impara a morire: quando s’inseguono i sogni, quando si dà senso anche ai sogni dimenticati al risveglio.
Lì, in quel preciso istante, incomincia l’avventura.
Non è vero che dobbiamo capire, non è vero che dobbiamo solo amare.
C’è qualcosa di più grande, in tutta questa avventura, che l’amare e il capire.
E la cosa più grande è essere spettatori commossi, teneri e burberi. E contrastare il male, innanzitutto non dandogli asilo dentro di noi. Se gli uomini divenissero spettatori commossi – se gli uomini sentissero la tremenda sacralità del vivere – le cose andrebbero diversamente.
Certe volte tocca diventare partigiani armati; sonnambuli armati, felici di difendere il bene. Lottare per il bene è lottare in difesa dell’assurda meraviglia della vita. I partigiani sono sonnambuli armati e offesi.
C’è una foto che mi ha colpito molto: Carlo Levi a Matera nel 1973, qualche giorno prima di morire. È vecchio, circondato da tante persone – che lo trattano come un loro ambasciatore. Lo scortano sulle scale. Carlo Levi sa, forse, di essere vicino alla morte. La gente sente che lui è il “cantore” della loro dignità ferita. Ma questo non importa. Quello che importa è che quelle persone avrebbero affidato a quell’uomo vecchio tutte le loro nebbie – non avrebbero avuto paura a confessare la nebbia della loro mente.
È quest’atto di fiducia a rendere sacro il vincolo tra gli uomini. Non il rappresentarli politicamente.
Tutto cambia in continuazione e, in queste condizioni, il dialogo stesso è messo in discussione. Com’è possibile discutere se già si sa che il corso della vita muterà i pensieri? Però anche il silenzio cambia, e i pensieri che sosteniamo in esso. Quindi il dialogo è un atto strano, dove facciamo pratica di mutamento e di nebbia.
La nebbia è uno strano calore. Una protezione, anche. Ho imparato a convivere con la confusione, non ne faccio più uno stato di emergenza. La mia confusione perenne è un pensiero forte, perché vi affronto tutto in tutti i modi possibili. Io credo agli strappi, alle cose che vanno avanti e poi improvvisamente all’indietro.
Mi piace parlare, per quanto riguarda la mia vita, di poetica della nebbia.