L’opera del dilettante è innocua e pura; quella del maestro è distruttiva e purificante”.
Walter Benjamin
Le immagini che illustreranno i prossimi testi pubblicati in questo sito sono di Luigi Latino e Pantaleo Musarò. Gianluca Virgilio ha visitato la loro mostra a Galatina, per la quale ha scritto la seguente presentazione.
Galatina, luglio 2004
Le piazze delle nostre città contengono scenografie illusorie, dove il potere mostra se stesso negli antichi palazzi rimessi a nuovo e dà luogo a uno spettacolo che a sera i giochi di luce variano nello spazio trasformato in un ingannevole trabocchetto. L’agorà, il luogo di tutti, diventa il luogo dove tutti obbediscono alla performance del potere, alimentandone la forza con la loro stessa presenza. La piazza è il luogo dove l’opulenza occidentale celebra i suoi fasti nell’ultimo negozio alla moda, nella banca iperprotetta e negli altri simboli della globalizzazione. Può accadere però che questa algida messa in scena trovi la sua più radicale confutazione nella stessa piazza, quando, per qualche caso fortuito, una parte di essa sia rimasta esclusa dalla consueta rappresentazione del potere. Gli uomini, allora, si appropriano di quello spazio superstite e hanno finalmente la possibilità di inscenare un altro tipo di rappresentazione, che contiene non solo una più vera interpretazione della realtà in cui viviamo, ma anche un messaggio di speranza per il futuro.
E’ sera. Da Piazza Alighieri in Galatina, nel cuore del Salento, varcando un vecchio portone, entro in un fatiscente ampio locale dalle volte altissime, come una grande navata di una chiesa sconsacrata e semidiruta. Dappertutto calcinacci ammassati, tubi di plastica in bella vista, materiali di risulta abbandonati nei diversi canti da una mano incurante e distruttrice. In mezzo, per il comodo dei visitatori, una passerella di panno verde, stinto dai passi dei medesimi, conduce nel profondo del vano, verso visioni diverse da quelle appena abbandonate alle mie spalle.
Qui, dove un tempo hanno trovato riparo carrozze e cavalli e dove poi il consorzio agrario aveva allogato i suoi ammassamenti, qui sembra essere passato l’angelo della storia, il distruttore di Paul Klee rievocato da Benjamin. Tutt’intorno non v’è che distruzione e, se non fosse che visibilmente le arcate sono rette da colonne possenti, il visitatore esiterebbe ad entrare, per paura che tutto crolli. Tutt’intorno, sulle grezze pareti di questo grande contenitore, che presto sarà un fast food o un negozio di abbigliamento o qualcosa del genere, due artisti, Luigi Latino (classe 1954) e Pantaleo Musarò (classe 1960), hanno sistemato le loro opere pittoriche, i loro conti con l’angelo distruttore.
La loro collaborazione nasce da una annosa solitudine che li ha fatti pervenire ad esiti artistici molto simili, tant’è che non è dato distinguere l’opera dell’uno da quella dell’altro; il discorso si snoda comune non solo per volontà degli artisti ma per una sua interna necessità che li ha indotti a scegliere questo spazio in un angolo incustodito della piazza: un locale ancora da ristrutturare.
I quadri che vado considerando uno ad uno, accompagnato dalle suggestioni musicali di Ermanno Corrado, si sovrappongono alla distruzione degli uomini, ne sono per così dire il controcanto e la spiegazione più convincente; spiegazione e critica della storia, non intesa come sapere specialistico ad usum degli uomini, ma come prodotto drammatico della scelleratezza degli uomini, della loro follia.
I materiali utilizzati sono volutamente poveri: acrilico, colla, bulloni, cortecce di eucalipto su legno (Latino) e tela (Musarò); con questi materiali i due artisti salentini, messa da parte ogni tentazione realistica, si cimentano nell’espressione astratta delle proprie visioni, nel tentativo non solo di costruire un percorso alternativo rispetto a quello che il potere impone, quanto di rinvenire le ragioni di tanta distruzione e di sovrapporre ad essa le superstiti possibilità vitali di una ragione pittorica che in ogni modo tenta di reagire all’esistente.
Mi sembra di individuare, in questo discorso comune, due visioni contigue e tuttavia differenti. Latino propone un viaggio attraverso le passioni, l’odio, la gelosia, la brama del potere e individua nella critica della ricchezza odierna la principale forma di liberazione da ogni oppressione; Musarò è attento ai danni causati dall’informazione, dalla guerra, dalla fine del sacro, dalla frantumazione della personalità umana. Ma le visioni si confondono l’una nell’altra, si integrano a vicenda, si fanno – come ho detto – discorso comune, comune critica della nostra incosciente vita quotidiana, di noi tutti, che siamo disattenti di fronte all’incalzare dell’angelo distruttore. Esso, difatti, semina disgrazie e lutti condottovi dalla mano distruttrice dell’uomo che sulla tela, per contrasto, diventa una mano che chiede aiuto, invoca la solidarietà degli uomini, la loro pietà. La critica della ricchezza è, di fatto, tutt’uno con la condanna della guerra e con la condanna degli odierni sistemi oppressivi che chiudono l’uomo entro campi di concentramento insospettati o lo conducono a perdere ogni speranza nel proprio futuro. Dominano i colori cupi, sebbene si parta da una rappresentazione del caos primigenio ricco di potenzialità cromatiche. Ben altri sviluppi, sembra di capire, avrebbe potuto avere la storia dell’uomo, se non ci si fosse persi dietro la ricerca smodata di una ricchezza che ci ricompensa con morti, lutti e distruzioni di ogni genere. Per questo, forse, i colori hanno perso molte delle loro tonalità, assestandosi su quelle del grigio e del nero. L’argento e l’oro diventano simboli neppure troppo criptici di questa inutile, dannosa gara verso il nulla.
“Io mi vergogno” si legge su un volto piangente, che più che un volto sembra una maschera, pressoché unica ambigua concessione alla rappresentazione della realtà. A cosa rimanda quel volto, quella maschera, a quale enigma umano? Non si deve pensare che l’esito ultimo di questa ricerca formale stia tutto in una recriminazione sia pure accorata sul misero destino dell’uomo. Non è questo il messaggio ultimo che si evince dalla mostra che ho appena visitato. Lo capisco uscendo da quel vecchio portone, fuori, nella strada illuminata dalle luci che ora dirigono i miei passi verso i percorsi obbligati della scenografia pubblica. Il messaggio è che noi sappiamo, possiamo immaginare uno spazio non finto, nel quale muoverci a passi lenti e ponderati, cercando di avvicinarci lentamente alla verità della nostra fragile condizione di uomini che rischiano l’autodistruzione per difetto di consapevolezza. Sappiamo, sì, e potremmo operare diversamente: e allora, perché non facciamo nulla, perché non ci arrestiamo un momento a considerare verso quale destino ci stiamo inesorabilmente movendo? Le domande che porto con me uscendo in piazza Alighieri mi certificano che la mostra ha lasciato un suo segno nel mio modo di vedere le cose; mi suggeriscono che solo da questa consapevolezza è possibile ripartire per un’eventuale prossima edificazione di un mondo migliore. Se l’arte astratta è foriera di messaggio, questo è il messaggio che Latino e Musarò hanno inteso consegnare ai visitatori non distratti; e non è poco.
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