Un monologo il cui contenuto si riduce a una sfilata di oggetti – questo è il romanzo contemporaneo”.
E. M. Cioran, Quaderni 1957-1972
Il libro di Alessandro Baricco dal titolo Omero, Iliade, Feltrinelli 2004, ha la grande ambizione di riproporre in forma attualizzata il poema omerico della guerra di Troia. Come dice lo stesso Baricco nelle pagine introduttive, il suo scopo è di “recuperare quella storia riportandola nell’orbita delle narrazioni a noi contemporanee” (p. 8).
Nessun dubbio filologico, dunque, nessuna pretesa storicistica. L’Iliade è un racconto privo, ormai da gran tempo, di copyright, e Baricco ha tutto il diritto di manipolarlo a suo modo facendone una “narrazione a noi contemporanea”. Il filologo e lo storico la smettano di storcere il naso, e se non hanno voglia di fare un tuffo nella “contemporaneità”, ritornino pure ai loro studi ammuffiti. Questo libro è fatto per il lettore comune, non per quella strana genìa.
Sennonché, il lettore comune si convince ben presto che è proprio lui il destinatario dell’opera e che tutta la fatica di Baricco è volta a raggiungerlo direttamente con la proposizione di un racconto che, essendo “contemporaneo”, nel mentre narra la storia di Ettore e Achille, proprio di lui parla, di un lettore talmente “contemporaneo” che potrebbe figurare tra i protagonisti della storia! Si sa, in limine ha buona ragion d’essere una captatio. Del resto, a riprova di ciò, basti leggere a p. 8 la definizione dell’Iliade come di una “umanissima storia”, ovvero storia di tutti gli uomini, antichi moderni e “contemporanei”, senza troppe filologiche sottigliezze.
La premessa, dunque, è questa: lettore, l’opera parla di te.
Leggo dalle avvertenze iniziali: “Se quindi si tolgono gli dei da quel testo [l’Iliade], quel che resta non è tanto un mondo orfano e inspiegabile, quanto un’umanissima storia in cui gli uomini vivono il loro destino come potrebbero leggere un linguaggio cifrato di cui conoscono, quasi integralmente, il codice.” (p. 8)
A parte l'”umanissima storia”, mi colpisce il paragone finale, dove Baricco parla del rapporto tra gli uomini dell’Iliade e il loro destino, paragonato a un linguaggio cifrato di cui basta conoscere il codice per impadronirsene “quasi integralmente”. Uno sconfinato ottimismo pervade queste parole, appena incrinato dalla riserva finale, quasi un inciso da dimenticare presto. Quel che conta è che l’uomo, l’uomo di tutti i tempi, può essere padrone del proprio destino come è padrone del proprio linguaggio. È evidente che qui siamo davanti ad una lucida enunciazione di poetica, che potremmo definire manageriale o imprenditoriale, nella quale il destino e il linguaggio diventano parole intercambiabili, entrambe riconducendosi a chi ne detiene tutti i diritti di proprietà.
Quanta distanza da quel fatidico
Cantami o Diva del Pelide Achille
L’ira funesta…
dove era la Diva a cantare per bocca del poeta, mero strumento, come ci hanno insegnato tanto tempo fa. Noi studenti pensavamo con stupore al poeta muto, incapace di parlare da sé, senza intervento divino. E al miracolo che si compiva sotto i nostri occhi, quando la Diva…
Così pure, perché Achille non sfoderasse la sua spada contro quell’arrogante di Agamennone, era necessario l’intervento di Atena, mentre per Baricco Achille riesce a “dominare il suo furore e a fermare le mani sull’elsa argentata” (p. 16).
Baricco come Achille, entrambi dominatori, l’uno del linguaggio (che c’entrano gli dei?), l’altro del suo self-control.
Il problema è che a volte il gioco proprio non riesce. Si legga, a p. 14, quanto avviene dopo il brusco allontanamento di Crise da parte di Agamennone: il campo acheo è colpito da una strage. Ma insomma, Baricco, mi vuoi spiegare chi è che per nove lunghi giorni scaglia “molte frecce” contro gli Achei? Vogliamo almeno fare qualche ipotesi? Perché a me certo non basta sapere che all’improvviso “morte e dolore piombarono sugli Achei”, voglio sapere se fu peste, colera, o se c’era un dio da qualche parte che scagliava le sue frecce. Baricco non lo dice, avendo preventivamente ucciso Apollo e tutta la stirpe degli dei.
Devo fare altri esempi? No, basta, mi fermo qui. Non è detto che l’aver comprato un libro e l’aver speso un po’ di euro sia una ragione sufficiente per leggerlo fino all’ultima pagina!
Si è già capito perché Baricco ha ucciso gli dei dell’Olimpo, fino a che punto si può arrivare condotti per mano dall’inguaribile ottimismo dei nostri imprenditori delle lettere. Il deicidio plurimo di Baricco, si badi, non è frutto di una cultura atea, sacrilega o blasfema, bensì della precisa decisione di tagliare il superfluo, i cosiddetti “rami secchi”, ciò che fa solo perdere tempo e denaro, distogliendo l’attenzione dall’essenziale, dalla produzione seriale delle storie da leggere, da consumare in fretta. L’industriale elimina gli esuberi, lo scrittore-imprenditore elimina gli dei. Egli non ha tempo da perdere con inutili storie di dei che rallentano la produzione e la fruizione letteraria. Così, bando alle ciance e lasciamo parlare i protagonisti. I quali, a dire il vero, parlano tutti uguale: come chi? Come Baricco, naturalmente. Ma ci pensate: la bella Criseide che parla come Tersite?
La lingua, allora, è davvero un fatto “umano” e “contemporaneo”, ragion per cui basta conoscere l’alfabeto per scrivere il romanzo dell’uomo di oggi, dell’uomo di sempre. Baricco permettendo…