Indurirci lentamente, poco per volta, come una pietra preziosa – e rimanere infine quietamente immoti per la gioia dell’eternità”.
F. Nietzsche, Aurora
Salvatore Toma, poeta salentino (Maglie 1951-1987), emerge nel panorama della poesia nazionale come una voce significativa ed originale dopo la pubblicazione nel 1999 presso Einaudi a cura di Maria Corti del suo Canzoniere della morte. Il suo suicidio a trentacinque anni verga con impeto le parole che leggiamo nel suo Canzoniere e ne fa un testo incompiuto; amaramente incompiuto.
Leggere Toma permette un accostamento naturale alla poesia dell’anima. Appaiono azzerati filtri metodologici e paletti metrici, in una immersione immediata, muta, in uno spazio interiore dalle pareti variegate di angoscia della morte e ricerca dell’altra vita; di sentimento della natura e natura del sentimento.
Mi appare naturale coniugare il senso della vita perduto nella parola espressa dalla poesia di Cesare Pavese con il suo ‘scenderemo nel gorgo, muti’ e lo spirito di Salvatore Toma che sembra giungere a noi da quel gorgo con la forza di una parola riacquistata e mai più persa.
Leggere Toma è come dare ad una voce un’eco che a ritroso dalla terra che lo ha consunto si fa dimensione dello spirito. È come capire che “l’immortalità della morte” ha bisogno di criteri paralleli di giudizio rispetto allo gnosticismo dei percorsi quotidiani, svianti, frenetici rimbalzi di pietra che scheggiano il lucido del mare.
Quando sarò morto
che non vi venga in mente
di mettere manifesti:
morto serenamente
o dopo lunga sofferenza
o peggio ancora in grazia di dio.
Io sono morto
per la vostra presenza.
Rieccomi a voi, sembra dire; guardate me com’io vi guardavo allora, sapendo di osservarvi vivi:
… Così io sono morto
cento anni fa
e ancora oggi mi compiaccio
di quella morte perfetta.
Presso mezzogiorno
mi sono scavata la fossa
nel mio bosco di quercia,
ci ho messo una croce
e ci ho scritto sopra
oltre il mio nome
una buona dose di vita vissuta.
Poi sono uscito per strada
a guardare la gente
con occhi diversi.
V’è nei versi di Toma una spirale di buio percorsa a ritroso, come se la morte gli dovesse compiere la vita; egli scava in una memoria di giorni esasperati, vissuti per se stessi e poi riposti a fare tempo; pagine e pagine che diventano nella sua mente spietatamente lucida, da apparire impazzita,
un passato che mi dilania
questo essere stati senza possibilità di ripetersi
di dirgli una parola.
È un tema straordinariamente attuale, quello “della morte che ritorna”, in una società che sempre più sembra suggerirci fughe nel passato ed in cui sembra mancare il tempo che sedimenti il quotidiano vissuto; il tempo che si faccia memoria, prima di domani.
E forse il messaggio, per questo moderno disagio a pensare alla ineffabilità della vita ed al senso vero della “sua causa” appare troppo violento; troppo lucido per essere recepito.
Il vivere di Toma in stretta sinergia con la natura, in una sorta di pansensismo tutto salentino, rende il profilo del suo essere naturalmente più luminoso e fa dell’amore per “l’assenza” uno stile di vita, un’impronta chiara, definita sulla terra umana:
Come un aereo solare
senza rumore
se non fra le ali
il canto di un vento luminoso
circondava il lanario
il vecchio casolare
desolato in collina
tra le spine e i papaveri.
Assorto
stavo lì a guardarlo roteare a spirale
lento come sospeso
a caccia del rondone.
Si spostava
ogni tanto
anche più in là
fra gli ulivi e il raro verde.
Un silenzio di fiaba
avvolgeva la collina.
Non possono prescindere i versi di Toma da questo afflato con la natura, materia e spirito coniugati nello sguardo:
… Eppure ancora riesco a gustare
la luce del vento
le sue fitte d’argento
cangianti tra i rami
mentre sfocia nel sole
ancora so leggere le stelle
la dolce tremenda luna serale
le primizie invadenti delle stagioni.
E allora che fare ?
Una cosa sola mi sciupa la morte:
sarei dovuto morire
prima di procreare.
Sarebbe semplice pensare ad una umana depressione, un baratro senza luce che attanaglia Toma in modo inesorabile; ma quale morte più luminosa della sua possiamo cogliere tra le voci poetiche? È parola trasformata la sua: eco d’una tensione psichica che si trasforma in energia lirica:
Vento leggero che parli
con voci di foglie
che apri i germogli
e li fai trepidare
nella primavera.
Vento che asciughi
i panni, bianchi
come visi di bambini,
e a volte con dolcezza
il sudore della fronte,
fa che la mia morte
sia liscia, serena
come il tuo respiro.
Ci voleva la sensibilità, la caparbietà di Maria Corti, filologa, archeologa della parola, perché i versi del magliese Salvatore Toma avessero dignità nazionale. Così quel percorso che ha portato alla luce dai sotterranei dell’anima la poesia del Toma per sua propria mano, si è compiuto nella sua interezza con la pubblicazione per la Einaudi del volume, riconducendo dai sotterranei della conoscenza un affresco umano universale.
Mi affascina la possibilità del ritorno di una voce, quasi di una presenza; così ciò che il Toma non può ridarsi, rigiunge a noi: è il suo tempo che ritorna ed il lettore lo coglie.
Citando F. Nietzsche (Aurora, pensieri sui pregiudizi morali, pag 3, ADELPHI ):
“in questo libro troviamo all’opera un “essere sotterraneo”, uno che perfora, scava, scalza di sottoterra… Non sembra forse che una fede gli sia di guida e una consolazione lo compensi? Vuol forse avere la sua propria lunga tenebra, il suo mondo incomprensibile, occulto, enigmatico, perché avrà anche il suo mattino, la sua liberazione, la sua aurora?… Certamente tornerà indietro: non chiedetegli che cosa cerca la sotto, ve lo dirà lui stesso, questo apparente Trofonio ed essere sotterraneo, quando sarà “ridiventato uomo”. Si disimpara completamente a tacere, quando si è stati così a lungo, come lui, una talpa…”.
Nella tessitura della sua poesia si annienta quindi la visione d’una vita di sola solitudine come senso di deriva esistenziale. Così mi piace contrapporre la Emily Dickinson [da Tutte le poesie, Mondatori-Meridiani] di
C’era una solitudine dello spazio
una solitudine del mare
una solitudine della morte ma
sono tutte compagnia
paragonata a quell’altro spazio più nel fondo,
quella privatezza polare :
un’anima sola con se stessa
finita infinità.
in cui la parola piega il “d’intorno”, il contorno, la natura su l’autrice stessa “finita infinità”, ai versi del Toma
Alla deriva
c’è soprattutto il mare
il mare vero
l’annientante malinconia
delle alghe morte
alla deriva
ci sono sogni della sera
le ultime voci
dei fondali profondi.
non posso esser vivo
e ricordare i morti
non voglio esser vivo
se devo ricordare i morti
da vivo non si vive
se ci accompagnano i morti
e l’ossessione della loro
esistenza.
Alla deriva
c’è invece il mare
il mare infinito
alla deriva
c’è finalmente la vita
filtrata digerita
c’è la leggerezza
del corpo vuoto.
Qui vi è la parola che piega l’autore al “d’intorno”. Alla solitudine dell’uomo si contrappone la solitudine della natura.
Leggo in tutto un messaggio positivo che nella buia lettura della vita cela la visione centrale dello spirito, della natura immortale ed in essa dell’uomo, in tutta la sua caducità.