Dottrina dell’estremo principiante. È il titolo dell’ultimo libro poetico di Luzi. Un addio, che non è una separazione, un congedo, ma un’affermazione di presenza, e insieme di umile sapienza. Questa presenza, questa umile e rigorosa sapienza, è il dono del poeta mentre la persona fisica scompare. Ho abbracciato Luzi l’ultima volta il giorno che festeggiavamo, numerosissimi, il suo novantesimo compleanno a Palazzo Vecchio. I promessi incontri a Siena e a Pienza non ci saranno più. Ci sarà il ricordo delle conversazioni sui poeti amati da lui e da me, Leopardi, Baudelaire, ma anche Hölderlin, Mallarmé, Rilke, ci sarà il ricordo delle sue osservazioni su un quadro, su uno scorcio di cielo, su un libro.
Un lungo cammino, quello di Luzi. Un cammino con tante stazioni, che sono titoli di libri: La barca, Avvento Notturno, Quaderno Gotico, Dal fondo delle campagne, Nel fuoco della controversia e via via risalendo fino al Canto Salutare, al Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini e oltre, fino alle Poesie ritrovate e al recente Dottrina dell’estremo principiante.
Sin dai primi versi nella poesia di Luzi c’è una tensione creaturale. Si tratta di una creaturalità non ferma sul singolo soggetto umano: una creaturalità che tanto più si umanizza quanto più accoglie e ospita i viventi, tutti i viventi, le piante, gli animali, le voci del vento, il paesaggio. Un pensiero della physis, allo stesso tempo creaturale ed empedocleo, francescano e lucreziano, dispiega il suo ventaglio di forme. E questa natura è sofferenza, ferita, ma anche luce, gioia della presenza, dell’esserci come cosa, respiro, corpo, pensiero.
Questa presenza è poi la terra, lo stare sulla terra, l’abitare la terra: presenza dei viventi sulla terra come presenza comune. Essere sulla terra con il sole, con i tramonti, con le albe, con il volo di uccelli, con il vento. Essere sulla terra in una solitudine riempita da voci, da altre presenze. La poesia è il suono, la lingua, di queste presenze. L’appartenere alla terra non nega mai un’altra appartenenza: è il richiamo dell’altrove, che appare nella forma di una celestialità talvolta allusa, talvolta direttamente indicata. Si sta sulla terra insieme con gli elementi naturali, con il senso della loro energia, della loro prossimità. Ma anche insieme con un enigma, con un infinito indicibile, con un orizzonte che è oltre la finitudine, pur essendo suo assillo. È questa la lezione di Leopardi intimamente fatta propria da Luzi e sui cui termini tante volte ci siamo lui ed io confrontati.
La poesia di Luzi ha come materia e respiro il tempo. Transito, attesa, mutazione, oppure perdita, sospensione, ricordo. Non sono semplici figure della temporalità, ma stanze di una assidua meditazione. Una meditazione che si curva verso il suo vuoto, verso il suo enigma. È qui, in questa apertura verso l’enigma, l’elemento religioso della poesia di Luzi. Non allegoria, o giudizio, o profezia, ma linguaggio come luogo di conoscenza del limite, ma anche luogo di un irrisolto domandare che si spinge verso l’insondabile e per questo oscilla tra turbamento e letizia. Forma e conoscenza, musica del verso e interrogazione, ritmo e dubbio, nella poesia di Luzi sono congiunti. Con in più un movimento drammaturgico, un dialogare di voci raccolte intorno alla voce interiore. La passione per il teatro si fa forma nella poesia. Poesia meditativa, quella di Luzi, poesia religiosa, anche. E intrattiene una relazione con le esperienze della poesia metafisica, da Donne a Hopkins a Celan.
Si potrebbe dire che, come per Leopardi, anche per Luzi la poesia è fiore nel deserto. Il fiore è la terra, il senso della terra, la luce, il suono della natura, la voce delle creature, del loro domandare. Il deserto è il buio della mente, il tempo cancellato, ma popolato di figure e di parvenze, il limite. Si tratta di un deserto i cui miraggi, i cui silenzi, si trasformano in parole. Parole che cercano la luce che le fonda, il principio che le fa vibrare. Si rileggano i versi dedicati al paesaggio desertico delle crete, alle linee delle colline che si aprono tra Siena e la Val d’Orcia. O i versi che inseguono i pensieri e la luce e i colori di Simone Martini. Forme della spoliazione in cui il senso trascorre, lambendo lo sguardo e allontanandosi. Si rileggano i versi dedicati al “grande codice della natura” nel libro Per il battesimo dei nostri frammenti. La poesia cerca un varco in questo chiudersi delle cose nell’enigma. E questo sapere della poesia, questo voler sapere, ha forme ben diverse dal sapere della filosofia, anche se la stessa ansia del conoscere anima l’uno e l’altro. La poesia cerca un varco: il punto dove la sabbia della clessidra trapassa, qui è il punto d’osservazione. Il punto del fuoco, dove si mostra il mutamento, la metamorfosi che la poesia racconta. La metamorfosi che anzi è essenza stessa della poesia. La parola – sia essa anima, acqua, fiume, suono, azzurro, vela, albero, mutamento – la parola non è portatrice di un senso altro, metafora di un senso nascosto, è essa stessa presenza, che indica l’esistenza semplice, la vita in quanto tale, respiro, desiderio, declino.
Tutto nella poesia di Luzi sale verso la lingua, che è custodia del tempo interiore, e anche soglia che difende dal vuoto assoluto.
Il timbro proprio della poesia di Luzi, la sua singolarità nella poesia del nostro Novecento, è proprio in questo sguardo sull’esistenza allo stesso tempo intimo e verticale, attento al vivente, alle forme della vita, e teso verso l’interrogazione dell’estremo, del buio, del limite, del vuoto di senso. È una versione altissima della meditazione sul tempo, e sulle sue figure, sulle sue voci, sul suo fluire e perdersi, che da Agostino in poi tante volte la cultura occidentale ha declinato. Luzi ha fatto della lingua un corpo di pensieri e di voci e di ritmi col quale attraversare il visibile, alla ricerca di un suo sfondamento. Dal visibile verso l’invisibile: la via è accidentata e forse impossibile. Ma l’invisibile lascia le sue parvenze, i suoi richiami, i suoi lampi nel linguaggio. Luzi ha colto in maniera limpida e insieme interrogativa questi segnali. La sua poesia resta con noi, col nostro domandare nel cuore del visibile, sulla soglia dell’invisibile.
[Pubblicato in Liberazione il primo marzo 2005]