Dall’alba fino a Siena
Le dita rosa dell’alba spingevano in su il buio.
Striscia luminosissima e strinta, poi sempre più larga e chiara. Si piegava veloce e spandeva in arco nitido. Finché, dietro una collina bassa, il sole sbucò improvviso sulla campagna.
Gino sorrise. Da ore al buio, sbarrando l’anima in attesa della luce, cominciava quasi a pensare che non sarebbe più arrivato, il sole.
E eccolo lì, già quasi tutto fuori, come se il mondo cacasse all’in su un uovo di luce. Ancora un pezzettino unito all’orizzonte per qualche istante e poi eccolo in alto, il cielo sopra e sotto e intorno.
Gino sospirò. La notte sveglio, a pensare a tutto quello che gli era successo. La paura di restare triste, sporco, marchiato.
Ma ora, con l’alba, prese una decisione. I buchi s’erano chiusi. Il filo secco girava libero negli occhielli cicatrizzati. Con un temperino li tagliò e li sfilò facilmente, sollievo grande e immediato. E a lui non lo obbligava nessuno a vivere triste il resto della vita.
Guardò Sara e Franz ronfare della grossa sotto una betulla scarna. Il ciuco brucava fra le stoppie. Il carro appoggiato sulle stanghe, piccolo e stracolmo.
Tutto dorato e leggero, nel mattino.
Gino si scavò in testa, cercando di sentirsi contento. C’era qualcosa che gorgogliava e scorreva fra i meandri del cervello. Nascosto, ma chissà, magari un giorno gli sarebbe anche riuscito di tirarlo fuori.
E camminò accanto al carro, aiutò a spingere in salita e a frenare in discesa. Sotto il caldo di una giornata calda e la pallaccia infocata alta che sembrava non volesse più scendere e lasciare in pace il mondo.
Gino era stanco, non aveva dormito quasi nulla.
Arrivarono a una fattoria e lì si stravaccarono tutti quanti sull’aia, che non c’avevano più la forza di muovere un passo.
Il contadino arrivò bestemmiando per scacciarli, che ci facevano seduti lì?
Ma Franz, con le buone e qualche lira lo convinse a ospitarli per la notte e a dargli una pappa al pomodoro per cena.
Zitti a spalare in bocca il pane mollo. Nemmeno Franz disse una parola.
Sara pensava a qualcosa lontano, forse un posto.
I contadini tutti da una parte del tavolo e loro dall’altra. Se non ci fosse stata una mosca a ronzare non avrebbero sentito suono.
Gino c’era e non c’era, in quella scena noiosa. Vedeva la gente intorno chiusa e scorbutica e stanca e a lui non gliene importava poco e nulla da quanto era sfinito.
Dormirono su dei pagliericci sudici, pregando di non prendersi le pulci.
E si svegliarono tardi non perché fosse bello riposare ma perché il vino cattivo del contadino li aveva fatti dormire male e torpidi tutta la notte.
Parecchio a stiracchiarsi, guardarsi intorno, grattarsi. Sciacquarsi la faccia con l’acqua del pozzo, tiepida anche quella, maledetto caldo.
Poi a voltarsi intorno, rimettere sul carro le carabattole sparse. Vedere se si rimediava qualcosa per colazione… no, nemmeno a pensarci. Il contadino affilava una roncola davanti a casa e c’aveva una faccia che pareva volesse squartarci qualcuno, appena finito.
Il ciuco faceva pena, tanto trascinava le gambe e Gino lo attaccò a malincuore alle stanghe. Gli portò un secchio d’acqua e poi era pronto. Si mise a aspettare accanto al carro. Franz finì di mettere sopra un paio di stracci e poi fu pronto anche lui.
Aspettarono.
Franz si guardò intorno, poi guardò Gino.
Aspettarono.
“Sara!”.
Franz col vocione possente fece alzare le orecchie al ciuco e la testa al contadino, che però non smise di affilare.
“Hai visto Sara?”.
Gino scosse la testa e per la prima volta ci fece caso: non la vedeva dalla sera prima, la Sara.
Franz bofonchiò e si mosse per cercarla. Gino lo vide sparire dietro la casa, dentro e fuori le stalle, dentro e fuori la porta della cucina. Poi, stando in mezzo all’aia, allargare le mani guardando Gino a dire che non sapeva più dove cercare.
Gino allora si mosse nei paraggi. Magari aveva avuto un bisogno.
Nell’orto e dietro i cespugli di un campo a maggese. Dietro i meli, i noci, un fico largo quanto una botte. Nulla.
Quando tornò al carro ci trovò Franz con le spalle a scivolo e le mani quasi ai ginocchi. Guardò Gino e si guardò i piedi polverosi.
“È andata. Inutile cercarla”.
“Andata?”.
Gino non si capacitava. Faceva parte di loro, la Sara. C’erano il carro e Franz e lui, la campagna, il caldo e la Sara…
“Ma… lei… come, andata?”.
Franz agitò i palmi delle mani in aria.
“Andata, andata! Via! Lontano!”.
E guardò Gino con una faccia che era meglio non dire più nulla.
Franz prese la cavezza e ci dette uno strattone che al ciuco gli s’allungò il collo un palmo.
Gino si mise a seguire, buono buono.
Zitti per ore, nemmeno fosse stato un trasporto.
Mosche su merde stitiche in mezzo alla strada e cielo latte rancido. Gli alberi fermi nell’aria ferma. Un passerotto di tanto in tanto a raccar semini fra l’erba secca.
Gino si sentiva rattrappito e solo. Davanti al ciuco Franz camminava curvo e ogni tanto scuoteva la testa.
Gino si fece coraggio, dopo parecchie ore, e avanzò fino a lui. Porse la mano in avanti per prendere la cavezza.
“Lo faccio un po’ io, ora”.
Franz gli porse la corda sudata e unticcia e sgranchì la spalla.
Rimasero a camminare accanto zitti e a testa bassa. Ma ogni tanto Franz sospirava e Gino sapeva che aveva bisogno di sfogarsi.
“Peccato, che è andata via… “.
Franz scosse le spalle.
“Era fatta così. Lo dovevo sapere che non durava… “.
Poi si mise a guardare lontano e gli venne la strozza in gola.
“Tutto quel tempo perso… tutte le prove… “.
E poi rimasero di nuovo muti. Meglio non esagerare con gli sfoghi.
Nemmeno a sera c’era un po’ di refrigerio. L’afa si era raggrumata in una nebbia collosa che spiaccicava i colori e i respiri. Giù, rasoterra, a Gino gli sarebbe venuto quasi da strisciare tanto era stanco di quel caldo.
Stavano avvicinandosi a Siena, ora. La terra rossa dei campi arati e seminati. Le vigne in riga, legate in fila sui pali. Olivi opachi di polvere e sete. Tutta la campagna a aspettare l’acqua.
Gino e Franz a camminare in valle, sudati e sporchi. S’erano pure beccati i pidocchi, in quella fattoria maledetta, e grattavano le teste gialle con tanta rabbia da farsi sanguinare il cranio.
Camminavano serpeggiando sulla polvere bianca di una stradicciola. Lumi lontani, di casolari a mezza collina.
Un mulo piantato su un poggio, sotto l’unico albero, a cercare il fresco che non c’era. Nemmeno al tramonto, con la palla maligna quasi a metà e rosso opaco intorno. Ancora il torso sudava e la lingua si attaccava al palato secco.
Il ciuco cominciò a impuntarsi e loro a spingere e bastonare. Non erano arrivati da nessuna parte. Non avevano mangiato dalla sera prima e avevano bevuto solo una volta a una fonte. E lì non c’era più niente in vista, nemmeno un cane.
Il ciuco camminò ancora pochi metri, poi decise che non ne poteva più e si sedette col culo secco in terra. Povero ciuco.
“Basta, non è il caso di sfinirlo”.
Franz calciò un sasso e liberò il ciuco dalle stanghe. Quello si rialzò a fatica e si mise a brucare sul ciglio bruciato della strada.
Franz trovò un masso e si sedette coi gomiti sui ginocchi, poi guardò Gino e tirò in su i palmi delle mani.
Guarda come siamo ridotti, voleva dire e Gino lo pensò come se avesse sentito le parole.
Allargò le braccia sospirando e facendo finta di guardarsi intorno alla ricerca di qualcosa. Ma sapeva che c’era solo campi e campi tutt’intorno e niente per mangiare, bere, dormire.
Il ciuco era davvero sfinito e si distese sulle stoppie.
Franz e Gino si guardarono.
In quel momento a tutti e due gli volarono i capelli sulla faccia. Una refola. Tiepida.
Rimasero fermi e muti, in attesa.
Un altro colpo di vento, più lungo e forte e fresco. Gli mosse i vestiti, si infilò fin sulla pelle sudata e gli fece venire i bordoni.
La polvere bianca della strada cominciò a sollevarsi sempre più e dopo poco prese a mulinellare insieme a pagliuzze e insetti morti. Gino si sedette accanto a Franz, riparandosi la faccia con le mani. Ma dovette rialzarsi sbito perché la roba sul carro cominciò a sbatacchiare e svolazzare e lui dovette trovare dei sassi per fermarla.
Sopra di loro bolliva dei rumori gutturali e sordi.
Fu buio ad un tratto, e alzando gli occhi Gino vide che il cielo era tutto nero di nuvoloni. Sopra, in qualche alto strato, brillavano le scariche di lampi lontani.
Ma qualche secondo dopo arrivarono le prime saette, lunghe lunghe a tagliuzzare il cielo fino sui campi. Poi il boato fragoroso dei tuoni. Franz si alzò e lottò contro il vento per arrivare fino al ciuco che s’era messo in piedi e pesticciava nervoso. Legò la cavezza a un masso e ci si sedette sopra. Poi si alzò il bavero della giacca. Gino gli vedeva la faccia un momento sì uno no, nei bagliori bianchi e violenti dei fulmini. La faccia gonfia di stanchezza, fastidio e preoccupazione. In attesa. La pioggia sarebbe arrivata presto. E chissà che temporale, con tutto quello scatenìo di elementi.
Gino tirò su la testa e due gocce ghiacce gli batterono sul naso. Fece in tempo a metterci una mano sopra che arrivò un altro tuono e uno scroscio all’improvviso, pareva gli avessero rovesciato un catino in testa.
Gino guardò Franz, che era rimasto a bocca aperta, con l’acqua che gli rivolava sui baffi e i sopraccigli, giù dai capelli lunghi e i lobi degli orecchi.
Si mossero insieme, carponi sotto il peso della pioggia, a cercar riparo dietro il carro.
Con le mani sulla testa e la schiena contro vento, l’acqua che li sferzava dappertutto e tanto valeva che si mettessero nudi in piedi in mezzo alla strada, tanto erano già fradici.
Gino si accorse a un certo punto che Franz accanto a lui tremava… no, sussultava… che gli stava succedendo ?
Lo guardò preoccupato; non gli vedeva la faccia, nemmeno alla luce dei lampi, perché Franz la teneva fra le braccia, appoggiata ai ginocchi.
Gino si mise a scrollarlo. C’aveva paura che non stesse bene.
Franz allora si aprì come un guscio, si voltò a guardarlo e Gino vide che rideva. Tremando tutto, col collo gonfio, rideva e rideva e se non fosse stato per il rumore dello scroscio che copriva tutto avrebbe tuonato il suo vocione forte.
A Gino gli venne su una cosa strana dalla pancia. Tutta la stanchezza, e non aver nulla da mangiare, e agli zoppi grucciate! Via, come non bastasse il temporale addosso. Dopo che non aveva piovuto per chissà quanto…
Si mise a ridere anche lui. A fiotti, a colpi, a botte di riso disperato che uscivano di colpo dalla pancia, il petto, la gola.
Sotto il cielo nero, fra l’infinite gocce ghiacce, Franz e Gino risero e risero, non si sa nemmeno per quanto.