Un’antica leggenda indiana racconta che una volta i guerrieri di una tribù, rinchiusi dai bianchi in una riserva, dapprima cercarono in ogni modo di aprirsi un varco e di rompere i muri della segregazione; poi, quando videro che tutti i loro sforzi erano vani, litigarono fra di loro e si scannarono a vicenda. Rimasero in vita solo pochi testimoni della terribile lotta fratricida, come volle il dio Coyote, un pericoloso trickster, il quale condannò i superstiti alla pena dei solitari: una masturbazione smodata e priva di piacere.
Ho ripensato a questa leggenda stamani, quando ho appreso la fine ingloriosa della rivista-blog “Nazione Indiana”. Le pose da serafini di Carla Benedetti e Antonio Moresco, i piagnistei di Raul Montanari, le schermaglie di Gianni Biondillo, la laconicità del peraltro logorroico Tiziano Scarpa celano infatti una lotta all’ultimo sangue, nella quale la posta in gioco è quella solita di ogni lotta: il potere. “Nazione Indiana” doveva essere – nelle buonissime intenzioni dei fondatori – lo spazio virtuale dei vasi comunicanti, della radicalità irriducibile, del rapporto con l’altro. E invece “Nazione Indiana” è stato il contenitore dell’esperienza esemplare della modernità, un luogo di confino entro il quale i saperi più avanzati trovavano la loro sterile concentrazione e distillazione, dove la radicalità era il pretesto del più marcato conformismo alle tecniche dominanti e il rapporto con l’altro ridotto al rapporto con se stessi, il trionfo dell’uguale. “Nazione Indiana” icona della società attuale.
Ora Coyote ha deciso di buttare per aria il tavolo, di mischiare le carte. La punizione scende implacabile su trionfatori e perdenti, su carnefici e vittime. Del resto, perché preoccuparsi? Ognuno degli Indiani ha il suo posto di potere al quale ritornare, dove preparare un nuovo laboratorio per la riproduzione esatta dei meccanismi repressivi e restaurativi della nostra società, e una nuova, fascinosa vetrina. Un’altra riserva indiana nascerà fra non molto, a immagine e somiglianza di quella appena defunta, solo tecnologicamente più avanzata e, pertanto, più pretestuosa della prima. Intanto, però, come nell’antica leggenda, Coyote ha assegnato la sua pena.
Per questo, il presente De profundis non ha altra ragione che salutare la fine di un’altra, non ultima, occasione mancata.