Liberalizzazione
Investo una parte di esistenza nel futuro.
Al presente destino la risorsa più consistente.
Il passato rievocato è svalutato come una mercedes.
Sulle oscillazioni generazionali compero opzioni,
che il liberomercato si è tanto affannato in cerca…
Ho le idee chiare quanto un vetro appannato
da corpi avvinghiati in vapori emozionali senza pari.
Parodizzo senza sosta il lato meno amato di me,
che usare l’Io non me la sento, in questo momento.
Forse un giorno si alzeranno in piedi gli umiliati e offesi
e una fanfara suonerà motivi che scoppiettare faranno
l’animo di chi ingiustamente ritenuto inutile
socialmente risorgerà… poi le chiarine annunceranno
il risolto conflitto di indefessi lavoratori.
Ozio ozio ozio chiedo un po’ d’ozio ai miei sensi
in perenne costernazione…
Temono che il tempo non mi basterà a mostrarmi
gli effetti lisergiconaturali insiti in questo percorso
a nome vita…
Tempo denaro tempo e denaro il tempo è denaro
senso da spendere non ne ho; ripassa domani,
mia dolce ossessione.
Pensiero d’importazione
Non ho un pensiero mio, se posso
così eludere la sottintesa domanda
a detta asserzione. Veniamo da un mondo
che serve il passato remoto, per dirlo;
ma è come se fossimo da sempre qui,
dove non si riesce a capire il motivo
di tanta affrettata frenetica adinamica
scelta di affannare la propria fine invece
di una cosa quieta.
Johnnash diceva faccio una dieta cerebrale
per non incappare nel demone della visione.
La sua, di schizofrenia, una malattia
dell’iperdecifrare convinto che dietro ogni
cosa è appostato un codice, uno schema.
La mia, di schizofrenia, una condizione
di chi per troppo attaccata affezione
al senso del logico sviluppo di ciò
che in termini (meta)fisici chiamiamo
evento, scopre a un punto certo
che tutto scorre per i cazzi suoi,
presenti o non presenti noi, coi nostri
pigli di scienziati decadenti.
È finita l’era delle parate di regime
estetizzante. Sul terreno giacciono
straziate le vittime del salto laterale
dell’ostacolo. E vorrei – come tutti del resto –
poter annunciare la ripulitura dei nessi
catodici per dare avvio a un pensiero
proprio, originale.
Sconto purtroppo una tara postadolescenziale:
lo studio della filosofia occidentale.
Il reduce immaginario
Le luci spente non dovevi farlo
lo spettro in agguato suona le corde
con un plettro di viscere seccate…
Ora è tutto un rincorrere
lampi spazi usciate ventate
scogli impattati da queste cazzo d’onde
una confusione verbale (mentale?)
ho bisogno ho bisogno di spiazzarmi
ma non abbocco alle mie finte, quindi
paralizzami luce che vieni a mancare
fammi azzannare il tarlo che marcia
sui miei sentieri fammelo sbranare
che dilaniare un tarlo che cosa da sballo
penserai se pensare ancora fosse
simulacro almeno dedicherei
due sinapsi indipendenti alla memoria
di ciò che un tempo scambiavo per gloria.
Lo spettro in agguato suona le corde,
l’atmosfera è concorde nel decretare
il riposo del guerriero; se almeno
avessi combattuto sul velluto
elencherei i miei vanti le mie medaglie
i miei allori i miei furori incanalati
allo scempio del nemico che dico
che scrivo non mi è chiaro con questo
spettro in agguato a suonare le corde
con spente le luci buio mi riconduci
a quando il terrore era nel passo incerto
la cantonata una testata nelle tenebre
chiamai quell’episodio e se mi rodo
è perché la sento quest’aria forzata
di pace quando invece è il momento,
lo sento, d’imbracciare l’agone.
Scenario
allora gli echi risuoneranno senza enfasi
per le strade non ci saranno volti
né atteggiamenti opportuni…
finiranno le scorte di zucchero e farina
per una guerra combattuta prima
che qualcuno si accorga della dichiarazione…
verranno epoche di distrazione attenta
a non esercitare influssi ritardati
dallo scoppio di nuove oppressioni…
soppianteranno ragioni esercizi rituali
riproducenti paralleli oltremondi
contenitori di un rimiscelato senso…
più tardi si doteranno di un loro mandato
uomini incerti saltellanti sulle barriere
di un divieto non ancora accennato…
e torneranno gli angeli nella notte
a suggerire il modo migliore di gestire
il rapporto col cielo compromesso…
domande non proprio di adesso
si autoriformuleranno di mese in mese
seppure il tempo non scandirà…
un contesto indecifrabile si insedierà
oltre il gesto che finalmente scadrà
a pura involuzione apatica…
il simbolo soppianterà la spiegazione
peraltro vana del variegato pullulare
di schegge stilemi riproduzioni…
un’anarchia orizzontale baipasserà
schieramenti necrotici inficiati
dalle loro stesse sentenze evocate…
non riarmeranno il dolore dopo lo scempio
palinsesti di vuoto ordiranno le trame
su scenari spazzati dal fuoco evanescente…
resteranno romanzi avariati perdute
stesure di storie rimpianti di drammi
vagoni di versi ridotti a rottami…
sarà come udire la fine venire lesta
nell’abbaglio di un giorno di luglio
peregrinare in lande d’assenza…
la terra più densa seppellirà
l’odio marino in una scia di sabbia
portata dal vento alleato del niente…
sovente ricorreranno all’analogia
con scarso costrutto e lo strazio
di giungere alfine al risultato…
bisogna essere fuori posto,
per non farsi trovare.
Ballata sensoriale
L’occhio che guarda lo sfondo
gli occhi che guardano lo sfondo
non corrisponde non corrispondono
alla pignoleria analitica osservazione
dell’entomologo…
È un occhio sono occhi che non esplodono
ricevendo il pulviscolo il particolare
non c’è luce da conquistare
da rimestare nell’iride sensazione…
Di questo occhio di questi occhi
rimane una visione perduta nel vuoto
una fuga verso un’immagine fissa
la vampa di un silenzio artato
non come partecipazione
alla comprensione.
Vede e non si ravvede l’occhio
vedono e non si ravvedono gli occhi
nella scansione sequenziale
è tutto un ritornare all’attimo sovrano
quando vedere era toccare con mano
quando inalare boccate d’aria
era configurare un altro sé un diverso
stampo d’uomo che non è stato.
Occhio riservato occhi riservati
per condivisione di invariato moto
di pressione divenuta fuorviante
oltremodo…
Innata messa a fuoco di un divenire
che ha tradito la prioritaria istanza
una mossa obbligata spacciata
per arbitrio libero una sentenza
immotivata ma vera come lo sfondo
che guarda fisso l’occhio
che guardano fissi gli occhi
privi di profondità mentre la cornice
si sdoppia…
Il condono
Guardo le cose in modo insolito.
Con piglio idealista, si direbbe
dal mio punto di vista.
È come se l’esistenza non tangesse
le esperienze che esternano
una presenza sottotono
che impiego poco a rintuzzare.
Credo nella radice estetica
del mio peregrinare acido
e immotivato se non da
questioni protofallimentari
che sono di norma eccezionali
solo all’interno di un micromondo,
il mio.
Ma il mio Dio ha usufruito
di una pensione baby
e oggi coltiva un orto
a ortaggi e cereali strani.
Privo del suo monito, vivo
l’etica dell’abbandono
illivorito infrango e dileggio.
In attesa del condono.
La parata
Il passo è insicuro lo arguisco
dal tacco che non affonda
duro.
C’è una remora nell’incedere
come una folgore secca
stampata fra la palpebra
e l’occhio ti arresta
questo stanco pensare
a molto morte esigenze.
Negligenze quotidiane assommate,
stratificate alla stregua
di scogli escremento, ammassate
nell’aia di una noia colonica
fino al compimento del prodotto
miliare su cui irretire…
Silenzio.
Dopo intercettare sfagli d’aria,
riassettare il corredino cerebrale
sdrucito. Farsi carico di infinito
assuetecnolinguaggio consentire
il cablaggio a fibre fottiche.
Ecco, efficienti a prescindere
dal monomaniacale assicurarsi
di aver chiuso ogni spiraglio,
anche se affiora – ricotta propulsa
da sale inglese – il dettaglio,
che le avremo pur prese,
le nostre precauzioni, figli
dell’era dei cloni ci ancoriamo
al porto quieto del comune senso
illuminato all’inverso corriamo
il rimorso asimmetrici tagliamo
per dare impulso…
Mi lesino il consenso
per spirito di opposizione.
La rivincita
Sono chiusottuso nel mio clamore.
Ho almeno altre venti cose da fare.
Rimango affranto dallo schianto.
Ci sono nomi che non puoi nominare.
Pulire il vetro del cielo, ad esempio.
Specchiarsi in una chiazza di marcio
da iperscrutare al fine di azzerarne l’odore.
Mordicchiare l’assenso infuocato del cactus
all’aridità frigida di un osso di seppia.
Oltrebaipassano sfagli umettati di intenso
arrabatto arrangiati pezzi di nesso
casuale arrancano dietro l’elmetto
di materiale riciclabile.
Tascabile è la portata d’intento di chi,
alterato dal turbine rimane illesa la crosta
ma dentro è uno scalpitare di rinvii
vento forte danneggia le scotte.
Ora il padre di tutti i rovelli è il titolo
adatto a permutare quello che appare
un connubio insanabile in corrivo
blaterare al ricatto del tempo.
Se perdono deve uscire dall’urna
non manomettiamo lo scrutastorie:
perché è un romperci il cazzo
uno che dice il suo male non servirà
a sollevare il suo mondo dal senso
di smacco.
Non ci riguarda l’afflizione.
Non vogliamo spiegazione.
Non ci affranca l’abiezione.
Non rinunceremo all’effetto speciale.
Non ci intacca la corrosione.
Non lo faremo il favore.
Non ci avranno vivi.
Detentori del proprio censo di colpa
fino ad assolvere la stessa entità nulla
che ci adorna.
La situazione
Voglio un mare nervoso di barche
rovesciate di onde sturmundranghe
una vampa furorea
che m’assalga lo stereotipo
della spiaggina sabbia ombrellone.
Voglio un mare d’eversione cupo
quanto può esserlo un concetto
d’anticorsettasullabattigia.
Una lastra di livore voglio
vedere uscire dallo scoglio
come se un coperchio si sollevasse,
una cortina di ferro crollasse,
una mattina dirottasse svelta
verso un tramonto boreale.
Voglio smontare la situazione
e ricostruirla da dove non c’è angolazione,
prenderla dritta in faccia
e lasciare che il brodo riscaldato
si ritiri e considerare
la pentola per quello che è.
Il mare oggettivato è povero di sale
per buttare la pasta.
Ripetizione
Dirti io come fare
dovrai aspettare che il mare
sormonti una vetta,
che il cielo sprofondi
al centro della terra,
se quello che chiedi è un indizio.
Storno spesso la frutta dal cesto
e lo osservo, spesso, il cesto.
Vuoto di contenuto, il cesto,
una forma d’illusa sostanza, il cesto.
Sono una natura morta che non importa,
del cesto. È presto per rivedere
le mele, nel cesto. E osservare
è masticare avaro, senza lo spicchio
d’arancio, nel cesto.
Ora non indugerò oltre, sul cesto.
Però rammenta: è più facile che un cammello
attraversi la cruna di un ago…
ma ho perso il filo, mi defilo.