Maint ouvrage, sous la verroterie du
rideau, alignera sa propre scintillation:
j’aime comme en le ciel mûr, contre la
vitre, suivre des lueurs d’orage
Dietro il vetro della memoria, imperlato di gocce, si allineano libri e inverni, miniature che sigillano il mondo e profezie che lo corteggiano.
Nel tronco cavo d’un ulivo il vento sfoglia, ancora, il Libro delle Immagini, che mi convinse alla superficie del mondo, alla scrittura. (Paese natale, caricatura dell’origine. Lo scherzo della gazza, se ritorni.)
Quale dialogo tra un libro e una stella?
Crise de vers: seguo il formarsi delle immagini nel bianco che separa un pensiero dall’altro, poi camino lungo le balze che si dischiudono quando il lusso della frase s’allarga in volute di allusioni, e i nomi dei poeti lampeggiano sul cielo d’un ragionare meditativo e conversevole.
Questa scrittura vincola la dizione ad un’eloquenza astratta e immobile. L’idea ritmo, la sintassi vibrazione, la pausa deserto.
Il levarsi della parola dal fondo orchestrale dei pensieri ha l’impercettibile movimento della nascita di un fiore, e già il suo profumo forte e il suono corre su tutti i semitoni, s’appropria dei silenzi, s’adagia nella naturalità corporea del respiro. La meditazione sulla poesia stringe, insieme, passione e vanità
Essere in ascolto: altra scienza non possiede il commento. E già l’incipit ti appartiene, un frammento d’oblio che sale verso la tua parola.
*
La litétrature ici subit une exquise
crise, fondamentale.
Attorno al secolo che volge verso la fine, sotto le volte del suo teatro, giacciono frantumi di utopie, bandiere sfilacciate, ragnatele di smemoratezza.
La poesia, modulando in miriadi di prove Petrarca, convocò nel verso, per meglio disporsi all’ascolto, il rumore della storia e l’eloquenza del grido e le larve dei sogni. Raccogliendo, disegnò separazioni: il ritmo e il frastuono del mondo, i silenzi e il sangue, la musica e l’amaro sapere. La lingua, raccolta nella metrica, liberò, vendicandosi, narrazioni e trattati: e la scienza condusse ad esplorare microscopie, vene di foglie, costellazioni.
Se la forma chiusa ha levigato marmoree scansioni, e rinserrato ninfe su fondali di scena barocca; se Orfei e Naiadi e Narcisi hanno spiato, ridendo d’un arcaico e fluviale riso, gli accoppiamenti di Eros e Poiesis e la tante sparizioni dell’io e il guerreggiare dei palpiti sotto gli occhi semprelucenti di lei, essa ha anche dato un sentiero, col ritmo fabulatorio e incantato, alle scorribande di donne e cavalieri, impedendone lo smarrimento nelle nebbiose fantasticherie senza contorni e senza dizione.
Corte di poeti in traduzione (il vento scuoteva gli eucalipti). Il sibilo della carta rappreso nel dito che sfoglia. Complicità del verso: coi solchi rossi tra la vigna, con lo sferragliare delle biciclette sul viottolo, con la luna sanguigna sopra le palme, con gli occhi del gatto avvampati d’agata, con la voce della madre che narra in una sua lingua mia, storie arabe e bizantine, fedele al canto e all’impasto di vocali e sibilanti, impennata in improvvise volute di toni alti, poi adagiata in calde fonesi, sinuose come le grotte sul mare.
Corteo di poeti in traduzione: versi nati nella pianura dell’Alfold, gridati nelle piazze di Mosca, chiamati a corteggiare le sere moldave, sfogliati come petali sulla sponda dolce del Reno. Versi indossati come abiti eccentrici nei caffè di Parigi e di Alessandria.
…à savoir que la forme appelée vers
est simplement elle-meme la littérature:
que vers il y a sitôt que s’accentue la
diction, rythme dès que style.
*
Poi l’endecasillabo, dopo essere sfuggito alla rima, pur non vinto dalle infinite fantastiche scherme con essa, richiamando presso di s il settenario, si aprì nel silenzio di interminati spazi, guardando da una parte la riva dell’antico perduto canto, dall’altra il bosco non pi ombroso di ninfe ma percorso da un tremito: domandarsi del perché del mondo far pulsare un ritmo, allinear versi guardare l’abisso. E si avvertì, nel naufragio della lingua, la fine del tempo poetico. Dopo Leopardi, il verso sa l’impotenza nel fulgore del ritmo, il vuoto nel dispiegarsi della parola. Il pensiero stesso cerca, dopo Leopardi, la segreta introvabile soglia dove pensare poetare. Ma la luce lunare, ora come emblema della Natura e del suo perpetuo ciclo di produzione e distruzione, ora come presenza che, levandosi e tramontando, interroga e si lascia interrogare sul declino delle cose e sullo scolorarsi del mondo, ora come ritmo che insieme vela e rivela, dischiudendo così, nella notte, l’unità di visibile e invisibile, e disponendo il paesaggio interiore al ritorno dell’immagine antica, alla ricordanza, alla ripetizione, la luce lunare, con Leopardi, si raccoglie tutta nel verso come in una preziosa pietra, e lo illumina, il verso, ma di una luce nel cui fascio la storia e i saperi e i cari fantasmi danzano col Nulla, e quella danza ha ancora il passo delle favole antiche e degli ameni inganni.
Témoin de cette aventure…
*
Quale dialogo tra un verso e il deserto?
C’era, all’ombra d’un verso antico, tra foglio e foglio, un narciso. Due tentazioni: un fiore astratto e un fiore essiccato. Dov’era il soffio che aveva ispirato il verso, il vento che aveva carezzato il narciso?
Accordez que la poésie franaise, en
raison de la primaut dans l’enchante-
ment donnée à la rime, pendant l’évolu-
tion jusqu’à nous, s’atteste intermitten-
te: elle brille un laps; l’épuise et attend.
Si ammetta che la poesia italiana, per il primato dato alla lirica, vissuta, nel suo svolgersi, per luminose intermittenze. Esperienze forti, ed epigoni. Un Parnaso con visibili dominanti cime. E col frastuono di domestiche Muse che guardano tra le stoviglie e i cieli irripetibili. Ma come sfrangiato, e irriconoscibile, il riflesso di quei picchi nello stagno di scolastiche antologie e nelle rubriche dei manuali! Affrettiamoci ad abolire lo stagno.
Un Cherubino Protettore come Carducci, per quanto inappropriata alla figura sia l’immagine, disseminò forme, distribuì elevate scansioni non solo civili, ma anche umbratili, non solo vigorose, ma anche trepidanti di melanconici scetticismi. Una solarità che conobbe le nebbie dell’anima. Generazioni di poeti ne furono segnati, anche nel timbro. Ma gi l’incontro, presso gli allievi, tra il neo-stilnovismo reso floreale e la grazia preraffaellita confinava il maestro nelle certificazioni ufficiali documentarie della scuola storica venate di organicismo. Del resto di ben altra densità e passione erano gli amori con l’estetica dell’europeo De Sanctis. Fu così che, per due generazioni o tre, i principi di poetica furono quelli che germinavano all’ombra delle pagine crociane, assidue e operose, contente di s e bonarie. Anche se, avviato il secolo verso le avanguardie, i poeti si dissero in opposizione a quelle pagine, fidando pi nelle proprie tecniche combinatorie che nel Breviario, pi nel frammentismo che nella purezza dell’immagine. Ambiguità di relazione che Croce stesso aveva praticato, raccogliendo in teorica didattica le visionarie estetiche dei romantici e negandone le eredità e le metamorfosi, anzi, vestendole dei panni laceri dell’irrazionale e del pallore della malattia. Sul tavolo verde di questa ambiguità s’affrontarono per qualche decennio estetica e poetica. Chi giocò d’azzardo si sottrasse alla mischia, e con lungo amore educò un lauro.
I fogli portati in trincea s’arrossarono di sangue. Il rumore della mitragliatrice fu scambiato per un ritmo. Per un canto, persino. Nella vertigine si trad il verso. Ed altro non possedeva il poeta.
Il luogo pi improprio in cui la parola possa abitare la parola guerra. Il luogo pi proprio il silenzio. Nel suo pellegrinare cercava una parola che avesse tutti i colori dell’alba, e il suono fosse quello del vento, e la sua durata avesse il tempo del sogno. Un viandante gli disse che quella parola era stata pronunciata una sola volta, e poi per sempre taciuta. Eppure un mattino, lungo l’argine d’un torrente, gli parve di riconoscerla, fatta pietra luminosa, profumo di fiore appena aperto alla luce, scroscio d’acqua, corpo nudo. Sopra il suo capo un uccello tracciava geometrie nell’aria.
– Anche lui, pensò, venuto a cercare la parola da sempre taciuta.
*
Les fidèles l’alexandrin, notre hexa-
mètre, desserrent intérieurement ce
mécanisme rigide et puéril de sa mesu-
re ; l’oreille, affranchie d’un compteur
factice, connaît une jouissance à discer-
ner, seule, toutes les combinaisons pos-
sibles, entre eux, de douze timbres.
Il timbro, nell’endecasillabo pascoliano, fu ascolto del vento nei campi, dei passi che dicono addio, delle ali che frullano sotto le grondaie, del battito del cuore che cerca, oltre il suo corpo, il corpo delle stagioni disteso tra i cieli d’oro e la terra scura. Timbro che conosce le intermittenze e le ombre del “velluto tenero di grano”, fatte lingua-suono, suono senza lingua, suono fermo in un’allegoria che bagna “l’anima d’un oblio dolce e crudele”. Timbro del Nulla sul far della sera. Tutto il Novecento poetico ne fu assediato, dolcemente: come dare all’impercettibile una lingua?
“Disincrostiamo l’eufemismo” (Gian Pietro Lucini).
Rondò, romanze, laudi. Nella belletta i giunchi, da D’Annunzio fino a Montale. Ali d’alcedini, figure di nèumi, smottare di braci, zampettii di talpe. La musica e l’assenza. La pienezza e l’astrazione. Miriadi di versi furono ombreggiati, guidati, cancellati, dalle due presenza, dalle due glorie.
Jusqu’à présent, ou dans l’un et l’au-
tre des modèles précités, rien, que réser-
ve et abandon, à cause de la lassitude
par abus de la cadence nationale; dont
l’emploi, ainsi que celui du drapeau,
doit demeurer exceptionnel.
Interrogavo, ragazzo, i silenzi che da Mallarmé s’allargavano fino a Ungaretti, accerchiando la parola, specchiandosi nel suo vetro, tra lo stupore della notte e il sonno delle dune.
…quiconque avec son jeu et son ouie
individuels se peut composer un instru-
ment, dès qu’il souffle, le frôle ou frap-
pe avec science; en user à part et le
dédier aussi à la Langue.
Il verso si stornò dalla melodia, scompaginò l’armonia, si adagi, libero, nelle pianure, prediligendo, tra le corrispondenze, il rispondersi col colore, con la sua nostalgia del bianco: marine ermetiche, passi trasognati nel cieco transito dal tempo al tempo, calpestio di ore domenicali in città di vento, in città senza vento, nomi di donna come squarci azzurri nella tela della memoria, nomi di città come isole di palmeti. Solitudini declinate in trasparenze d’impossibili azioni, partenze in cui il rimpianto era asciugato dalla tensione che faceva del verso un arco. Senz’altro bersaglio che la propria indulgenza verso la tradizione. E la rima divenne un’erosione sulla superficie del narrare, o uno scatto d’ironia gentilamara ereditata dai crepuscolari e tenuta in serbo fin dentro la dolce rabbia dello sperimentalismo.
Toute âme est une mélodie, qu’il
s’agit de renouer ; et pour cela, sont la
flûte ou la viole de chacun.
Tra il verso e il nome del poeta il mio fantasticare ha avuto, poi, inattese riduzioni di territorio. Vedevo spesso riflettersi sui versi gli occhi dei poeti incontrati per via, dei poeti commensali allo stesso convivio, dei poeti amici.
Interrogare i poeti: salire, in sogno, su un tetto da cui il paesaggio di parole appare consumarsi nell’infinito, e il sogno stesso, trasformatosi in parola critica, permane come assenza, come amarezza d’un inatteso risveglio.
La poesia quel che si perde quando si pronuncia una parola.
La poesia, l’impensato della critica.
*
plusieurs, manque la suprême : penser
étant écrire sans accessoires, ni chucho-
tement mais tacite encore l’immortelle
parole, la diversité, sur terre, des idio-
mes empêche personne de proférer les
mots qui, sinon se trouveraient, par une
frappe unique, elle-même matérielle-
ment la vérité.
Su questo passaggio di Crise de vers trova sostegno la meditazione di Benjamin sulla lingua. Da questo passaggio, e dall’esperienza di traduttore dei baudelairiani Tableaux parisiens, Benjamin muove verso le straordinarie pagine sul compito del traduttore.
Nel verso la parola si rifugia, sfuggita al mercato del senso, del buon senso. Dal nuovo avamposto guarda le distese dei significati che la comunicazione manipola, contratta, svende. Come ha potuto vivere finora senza il fremito dell’impossibile?
Nel verso la parola avverte d’essere nient’altro che l’ombra d’un’altra parola, dal suono impercettibile, dalle lettere cancellate, dal senso perduto. Con quest’altra parola essa intraprende un dialogo, di quest’altra parola si fa messaggera. Come l’angelo “maudit” che pi di ogni altro ha contribuito alla sua liberazione, può dire: “J’ai tendu des cordes de clocher à clocher; des guirlandes de fenêtre à fenêtre; des chaînes d’or d’étoile à étoile, et je danse”.
La parola danza per la gioia d’essere stata ammessa nella terra senza limiti dell’impossibile, dove l’origine risplende tra i rami d’un albero pi intatto del primo albero, e il silenzio che accerchia la luce mattutina più silenzioso d’ogni silenzio, e il deserto del senso ha un solo miraggio: il Verbo.
Mi chiedevo, fermando qui questa cascata di parole per discrezione verso la parte di me avvinta al giogo del significato, mi chiedevo se il “mot total” non fosse questo miraggio, la necessità di questo miraggio nel “deserto della vita”.
…le vers: lui, philosophiquement ré-
munère le défaut des langues, complé-
ment supérieur.
Nel verso, come in un cristallo, l’iridescenza della lingua pura, della vichiana prima lingua, della lingua favolosa dell’Atlantide, della lingua che ha il ritmo della baudelairiana “vie antrieure”. Le lingue, private del canto, s’affollano confuse nella babele dei significati. Il tuono del dio, i silenzi del cielo, la favola antica, il rammemorare (stilla dell’oblio), si situano nel cuore della parola, facendo della sua polvere una danza di forme. Quel che perduto, perché mai s’ posseduto, trasformato in una ricchezza fatta di nuvole. Il verso d una traccia al cammino delle nuvole. E l’angoscia, sotto la loro ombra mutevole, abbandona l’antico passo grave dello spavento e s’affida al passo dell’esultanza. Col canto le lingue sono compensate della loro confusa diaspora; ma il silenzio che le spinge fuori dalla loro angoscia.
Arcane étrange, et, d’intentions pas
moindres, a jailli la métrique aux temps
incubatoires.
Nel tempo dell’origine il ritmo univa il canto al mutamento delle stagioni, il respiro del corpo al cammino delle nuvole, la parola allo scorrere della luce sopra gli alberi. Favola antica o antropologica del ritmo? La prosodia come statuto che unifica i linguaggi, li distoglie dalla chiacchiera, li corazza di silenzi e di assenze, li spinge verso quel prima e dopo la lingua che la musica.
Il primo ritmo fu quello che appresi in un cerchio di bambini seduti lungo le pareti d’una stanza bianca. Accompagnavamo i musicanti con gli occhi fermi sulla ragazza tarantata: distesa al centro della stanza, sotto la volta a stella, muoveva, con sussulti sempre pi forti, verso il suo ballo, il ballo di San Paolo. Miriadi di astratte parole si frapposero, poi, tra lo sguardo della ragazza e i miei pensieri.
Ouïr l’indiscutable rayon – comme
des traits dorent et déchirent un méan-
dre de mélodies: ou la Musique rejoint
le Vers pour former, depuis Wagner, la Poésie.
Dall’analogia tra le arti alla corrispondenza, da questa alla sfida verso l’antico sogno d’una unit del mito e del canto, della voce animale e della voce del poeta, della parola e del silenzio. La sinfonia come pensiero. La scrittura poetica come partitura musicale. Alla pienezza solenne e rassicurante del Gesamtkunstwerk wagneriano risponde il tremito di sparizione che vibra nel “mot total” di Mallarmé.
Pas que l’un ou l’autre élément ne
s’écarte, avec avantage, vers une intégri-
té à part trionphant, en tant que con-
cert muet s’il n’articule et le poëme,
énonciateur…
Poesia e Musica sono il giorno e la notte della Lingua: ma spesso si scambiano le parti. Lo scorrere delle loro ore misurato dalla stessa clessidra.
*
La luce mattutina della foresta come può, senza smarrire almeno un millesimo della sua misteriosa lingua, penetrare nella parola? Quale fonesi può rendere il dialogo della corteccia d’un albero con gli strati segreti del tronco, dove le stagioni sono geometria, il volo degli uccelli geroglifico? Ogni estetica naturalistica h avuto, dietro l’accanimento dei programmi, l’angoscia per ci che la parola brucia e perde. Ogni estetica formalista ha avuto, dietro la limpidezza dei programmi, il tormento che il poeta potesse restare prigioniero del respiro delle cose, potesse arrendersi come Narciso al loro specchiarsi mobile nelle acque del tempo. I naturalisti si sono rinserrati nel prima della parola, i formalisti nel dopo la parola. La letteratura vela, del paesaggio, quel che lo sguardo libera. Ma d anche una parola e una possibilità d’oltrepassamento al limite dello sguardo. Ogni descrittiva gioca con questo limite, presagendo dietro di esso l’infinito, ma, pronunciandolo, lo distende in una superficie di parole, e attende che un lettore lo riporti nel territorio d’una immaginazione senza confini. Conosceva l’alfabeto degli astri e dei petali, dello spettro di luce e delle ombre lunari, dei colori di terra e dei suoni del vento. Conosceva l’alfabeto che compone le parole dei sogni e quello che disfa e riforma le nuvole. L’alfabeto col quale, nelle notti illuni, quel che mai stato detto dialoga con quel che mai stato pensato. Conosceva l’alfabeto delle onde marine e quello di ogni stormire, l’alfabeto del ricordo e quello dell’oblio. Aveva inteso, un giorno, la lingua degli uccelli.
*
L’oeuvre pure implique la disparition locutoire du pote, qui cde l’initiative aux mots, par le heurt de leur ingalit mobiliss ; ils s’allument de reflets rci- proques comme une virtuelle trane de feux sur des pierreries, remplaant la respiration perceptible en l’ancien souf- fle lyrique ou la direction personnelle enthousiaste de la phrase.
Le tante teorie che negli ultimi hanno steso il verbale di morte del soggetto, contraendo via via le modulazioni dell’io nel discorso, o nella struttura, o nel sistema, o nel codice, hanno spesso giocato pi alla rimozione che alla sparizione, pi all’artificio d’una messa in mora del soggetto che all’assunzione “vibratoria” delle sue pulsazioni. Poco, tutto sommato, hanno voluto interrogare, sotto il profilo della tecnica e dell’astrazione, i due luoghi del linguaggio nei quali il soggetto cancellandosi s’ riscritto come interminabile interrogazione: opera pura e psicoanalisi. Mallarmé e Freud, binomio inconsueto, offerto, forse, all’esegesi futura.
Tra un libro e l’altro c’erano gli amici, il vino degli amici. Tra un libro e l’altro c’era la crittografia stellare d’un corpo femminile. Amare decifrare un cielo notturno.
Chirografie. E una stella.
La scrittura che fa il vento sulla sabbia e la scrittura che fa il turbine nella polvere. La scrittura che racconta sul guscio delle conchiglie il sonno dei secoli e la scrittura che il palmo della mano ripara dalla decifrazione del passante. La scrittura della corteccia dell’ulivo e la scrittura delle vene nelle foglie. La scrittura dell’onice, della madreperla, del turchese, della rosa del deserto. La scrittura del legno della Croce. La scrittura delle palme che disegnano la loro ombra nei cortili delle citt barocche. La scrittura delle notti stellari e quella dei libri sfogliati in sogno. La scrittura che invisibile sulla pagina scritta e la scrittura che visibile soltanto quando cancellata. (Dedicato a Edmond Jabès).
*
…car, ce n’est pas de sonorités élémen-
taires par les cuivres, les cordes, les
bois, indéniablement mais de l’intel-
lectuelle parole à son apogée que doit
avec plénitude et évidence, résulter, en
tant que l’ensemble des rapports exis-
tant dans tout, la Musique.
Trasporre la sinfonia al libro, fare delle pagine una partitura musicale. L’esperienza di Un coup des dés ha fruttificato, anche nella nostra poesia, sulla terra delle avanguardie, proprio laddove la musica stata tuttavia sostituita dalla visualità, la partitura risolta in calligramma. Dove sono i frutti suoi pi propri?
Pensavo al libro, un tempo, come a un corpo tatuato. Mi perdevo tra i fiori blu delle miniature, mi disponevo dinanzi agli incipit come sotto il pronao di un tempio, volevo indovinare nelle subscriptiones i pensieri notturni degli amanuensi, interrogavo la verità contraffatta e seduttiva degli apocrifi, ricostruivo la lotta che l’anonimo conduceva per riavere il suo nome, sottratto, o perduto, o cancellato. Dagli antifonari aperti sui leggii udivo salire il canto d’una liturgia invisibile. E m’attristavo osservando i fogli di pergamena, dispersi, muoversi al vento della Senna presso i bouquinistes. Ma il codice non era il Libro: era solo la sua mondana ombra. Quant au Livre, non col colore era scritto nè con la mano, ma solo con “l’alphabet des astres”. I silenzi e la musica dei libri dei poeti sono solo un corteggio dell’impossibilità scintillante del Libro. Come i nomi che designano le nuvole sono solo un ricordo, pallidissimo, della loro metamorfosi.
Chirografie abbandonano il palmo della mano e si fanno solco tra gli ulivi, tracce blu tra le nuvole, lettere d’una lingua perduta.
A quoi bon la merveille de transposer
un fait de nature en sa presque dispari-
tion vibratoire selon le jeu de la parole,
cependant, si ce n’est pour qu’en éma-
ne, sans la gêne d’un proche ou concret
rappel, la notion pure.
Trasposizione come consunzione dell’oggetto nella luce della parola. Come rinominazione creaturale: e sa la parodia d’una mimesi che pretende all’evento pur dentro il frastuono babelico del parlar quotidiano. Il fatto di natura, ogni fatto di natura, rinserra un profumo che solo nella sua scomparsa vibratoria può liberarsi. L’altro in cui liberato dormiva gi in esso sognando un tempo senza tempo. Il silenzio e l’oblio sono i fratelli della nozione pura e dell’idea.
Se la critica, secondo Baudelaire, “touche dans chaque instant la metaphysique”, la poesia, secondo Mallarmé, attiene alla “notion pure”, all’idea. Ma nell’un caso e nell’altro i termini non coincidono con quelli del sapere filosofico. Il loro orizzonte va cercato nella critica stessa, nella poesia stessa.
*
Gli angeli, sia che corteggino, cantando lodi, il Signore dell’universo, sia che s’inebrino odorando i fiori del male, non conoscono la scrittura. Sono solo scritti. Per questo la tradizione li vuole messaggeri.
Je dis: une fleur! Et, hors de l’oubli
où ma voix relègue aucun contour, en
tant que quelque chose d’autre que les
calices sus, musicalement se lève, idée
même et suave, l’absente de tous bou-
quets.
Dove un pensiero può esigere, per commento, un trattato, ma anche, nel contempo, il silenzio. Qual la forma pi propria per un’esegesi di questa frase? Non certo la critica. Perché l’assente, nell’esempio, proprio un fiore? In quale altro bouquet possiamo deporre questo fiore, i cui petali sono, insieme, idea, parola, musica? Come dire questo fiore che l’assente, quando il dire porta alla presenza? forse il dire del poeta, sogno e canto, il solo luogo che può nominare questo fiore senza sgualcirlo? Senza riporlo, secco, in un libro di versi?
Il dire del poeta, ovvero quel passaggio segreto verso la Lingua dove l’ignoto prende voce – voce interiore, voce anteriore. Il corpo del poeta, trasformato, come Eco, in una voce, transita nelle regioni dell’oblio, sulle cui sabbie le metamorfosi inseguono parole, disfano parole, seppelliscono parole. L’ispirazione, a partire dall’antica “mania” del Fedro, s’ raccomandata a figure sempre sospese sul limite e sul vuoto dell’udibile e del visibile. Nell’esperienza di questo limite e di questo vuoto l’ispirazione intraprende la sfida con la Lingua per dare all’inconnu una forma, al risuonare della terra un ritmo, alle rive incolori dell’oblio una siepe di fiori. Su quelle rive quel ch’ fatto silenzioso torna a stormire, perché silenzioso, quel ch’ cancellato torna ad apparire, perch cancellato. Quel ch’ appassito rinasce. Rinasce come memoria. Mnemosine. “Oublieuse Mémoire”. Dopo l’ascolto di quella voce, con Baudelaire si pu dire: “Et c’est depuis ce temps que, pareil aux prophètes, / J’aime si tendrement le désert et la mer”.
Sul margine bianco dove un pensiero si riposa, deponiamo parole d’affanno che chiamiamo interpretazione. Se esse domandano un dialogo, bussando alla porta di una comunità fraterna e astratta, forse perché i fantasmi che popolano la solitudine della scrittura si possano dissipare alla luce d’un’altra scrittura.
Pensieri: falene intorno alla luce di altri pensieri.
Un fiore, l’assente. Non il giglio del campo pi splendente delle vesti di Salomone, non la rosa del verso A rose is a rose is a rose is a rose: il primo, testimone d’un abbandono all’ordine della creazione, d’una quiete nella non-cura; la seconda, esempio d’una perversa tautologia – lo ricorda Blanchot – per la quale l’assenza di una ulteriore designazione dovrebbe costituire l’elemento avvalorante la sua bellezza, proprio mentre la reiterazione, dissipando la dignità del nome unico, fa cadere la rosa in quel nominare senza inizio nè fine ch’è la parola babelica. Non in questo ordine, che pure “demistifica” ogni enfatica evocazione dell’essere, il fiore di Mallarmé. In esso l’assenza del nome la condizione di una nuova dominazione, di una ri-creazione nella luce mattinale d’una “notion pure”, dunque al di fuori di ci ch’ noto. Al di fuori di ci ch’è dissipato nel labirintico frastuono dei saperi. L’assenza di un nome che designi solo un passaggio verso quell’assenza che costituisce il fiore stesso, verso quell’assenza che lo definisce. Ma infine anche questa definizione non che l’apparire stesso del fiore, il suo levarsi in quell’altro tempo e con quell’altro ritmo che l’avverbio “musicalement” raccoglie.
La nascita d’un fiore ha lo stesso movimento dell’ispirazione.
Quale dialogo tra un fiore e un nome?
Le vers qui de plusieurs vocables re-
fait un mot total, neuf, étranger à la
langue et comme incantatoire…
La voce che nel vocabolo, e la vocazione che l’accompagna, trovano nel verso un nome proprio, estraneo a tutti i nomi. Ma questa resurrezione della lingua soltanto un incantesimo. Questa dominazione creaturale soltanto una parodia. Eppure l’astratto esercizio del verso custodisce i sogni di tutto ci che la lingua ha scorporato, o disperso, o posseduto. Come salvarsi dalla lingua il muto sogno di redenzione che trema nei vocaboli, nella loro voce.
Osservava le geometrie blu tra nuvola e nuvola, i solchi che restano nell’aria dopo il volo degli uccelli, le iridescenze dell’acqua sul greto di fiumi scomparsi. Così imparò ad ascoltare la musica del nulla.
…en même temps que la réminiscence
de l’objet nommé baigne dans une neu-
ve atmosphère.
Mia madre raccontava, nelle sere di luna, di sua nonna che da ragazza aveva ballato, morsa dalla tarantola, il ballo di San Paolo. Un passaggio di vento portava le sue parole tra le foglie degli ulivi. Ma la voce si posava sulle palpebre del mio ascolto, sulle pagine dei miei libri: rigo immaginario a partire dal quale sale e discende l’intonazione dei versi, bianco silenzio che accerchia la parola e ne misura il tempo.
Chirografie è stato edito per la prima volta a Siena nel 1984 nella collana omonima, di cui costituisce il n. 1, per le edizioni di Barbablù, in 400 copie numerate.