Fuggire e non fuggire
Una notte, Gino lo svegliarono dei rumori di mobili sbattuti. No… non erano i mobili sbattuti… era qualcuno che ci sbatteva contro…
Poi un urlo soffocò in un rantolo e dopo un tonfo, rumore di cosa che si contorce per terra.
Corse in cucina e ci trovò Adele tutta accartocciata. Le mani, le gambe, le dita dei piedi e la faccia attorcigliati negli spasmi. Da una bottiglietta che teneva in mano usciva dell’acido che sfrigolava sul pavimento.
Subito dopo arrivarono in trambusto tutti gli altri e cacciarono ognuno un urlo diverso. Poi tutti insieme gli si buttarono addosso, la voltarono, la scossero.
Chi gli urlava di rispondere e chi di respirare. “Aprite, aprite la finestra!”, e Gino corse a spalancare l’aria fredda dentro.
Chi gli apriva la camicia, chi gli buttava in faccia l’acqua. “Un dottore, un dottore!”.
E una delle sorelle si affacciò gridando in strada “un dottore, un dottore, sta morendo!”.
Gino andò in corridoio e trovò il telefono, sfogliò e risfogliò la rubrica che gli saltellava fra le mani e chiamò. Gridando, per farsi sentire sopra gli urli che c’era in casa.
“Il dottor Pieri? È casa Ricci… una disgrazia… mi sente? Bisogna venga subito, s’è ammazzata! Io… sono il garzone… sì, sono in casa Ricci. La figlia… quella fidanzata… sta in cucina… s’è ammazzata… presto!”, e Gino sbatté il telefono a posto perché gli s’era chiusa la gola e non riusciva più a parlare né a respirare.
Quando tornò in cucina la mamma c’aveva stretta al petto la figlia e dondolava avanti e indietro mugolando. Gli occhi sbarrati e le labbra bianche.
Le sorelle ancora gridavano e correvano in giro. Il signor Ricci, con le mani in testa, tirava i capelli e borbottava senza senso.
Sembrò che niente più sarebbe successo. Dondolare, e gridare e strapparsi i capelli. Fermi in eterno, con l’Adele accartocciata, sbranata dal veleno, e tutti intorno.
Ma già dopo pochi minuti cominciarono a affacciarsi le voci per la strada, alle finestre dirimpetto, sul pianerottolo di casa.
E presto comparve lo zio, col paletot buttato sulla camicia da notte e la faccia gialla.
Poi subito di seguito il dottore e qualche vicino.
E chiunque entrava nella cucina restava senza tempo, fermo a guardare l’Adele che aveva abbandonato tutti. E s’era risucchiata via la loro vita, insieme alla sua.
Fu il dottore a riscuotersi e a far cenno che bisognava muoversi.
Ci vollero tre uomini a staccare la mamma dalla figlia e tutto un gruppo di donne a trascinarla in camera.
Lo zio allontanò il padre.
Le sorelle si abbracciarono strette.
Il dottore chiuse gli occhi sgranati dell’Adele e cercò di riplasmare un po’ la bocca contorta. Una zia, piangendo, le lavò di faccia la schiuma.
“Acido muriatico”, il dottore teneva la bottiglietta con un panno e scuoteva la testa.
Nella cucina ormai non ci si stava quasi più da quanta gente ci s’era pigiata. E tutti pesticciavano per guardare.
Il dottore si fece largo a forza e andò al telefono.
In quel trambusto Gino per un pelo riuscì a bloccare la Tina, che s’era svegliata e attraversava il corridoio sgranando un tanto d’occhi d’avere tutta quella gente per casa. La fermò prima che entrasse in cucina e la consegnò a una donna che se la prese da parte per spiegargli che succedeva.
Gino si mise a mandare fuori quella ressa che non c’entrava nulla. E a spinte e “per piacere” convinse tutti a uscire.
Ma la casa fu vuota per poco perché poi cominciarono a arrivare i parenti, il prete, le guardie.
Una ressa, per giorni.
Gente a vestire la morta, gente a vegliare, gente a investigare.
E curiosi a ogni ora che si affacciavano alla porta aperta, si incontravano sul pianerottolo, parlavano e commentavano.
A Gino gli dava noia, in quella casa tanto riservata, che ora tutti venissero a bracare nello scempio e lo aprissero, lo annusassero, ci infilassero i loro becchi sudici.
I Ricci non facevano e dicevano niente.
Ma non ne potevano più di chiacchiere e commenti e il trasporto lo fecero di nascosto, a notte. Ce n’era già stato abbastanza, di scandalo, senza che ci fosse una folla inciprignita di commenti a seguire la bara.
Giusto lo zio e la sorella della signora Ricci con i figli più grandi. Sollevarono per le braccia la madre, circondarono le spalle del padre, si fecero accanto alle sorelle giù per le scale e per la strada deserta, scivolando dietro i becchini che oscillavano la cassa scura sulle spalle. Tutti zitti come fantasmi, a pigiarsi i fazzoletti sulle bocche per non fare suono.
Gino rimase in casa con la Tina. Che stava male, dal giorno della disgrazia, e non era potuta andare. Lei che l’aveva vista nascere, l’aveva tirata su e ora per colpa d’un farabutto… fino a notte fonda si lamentò, seduta al tavolo, con la testa appoggiata a un palmo e la faccia secca di dispiacere.
Gino c’aveva rabbia che qualcuno avesse rovinato quella casa gentile, pacata da generazioni…
Gli avrebbe torto il collo, a quel disgraziato.
Che non si fece nemmeno vedere né sentire. A scavare di più nel dispiacere, l’idea di aver accolto, fatto partecipe quel serpente della loro serenità. Lasciandogliela deflorare, sciupare per sempre. Non che ne parlassero, no. Gino lo immaginava soltanto, che si dovessero sentire così. A lui non gli dicevano niente, se non “grazie” di tanto in tanto per tutti i suoi servigi, con la bocca rilasciata e gli occhi vuoti, parlandogli senza vederlo davvero.
Dopo il trasporto non c’era più niente di urgente da fare. Tutta la famiglia si poté mettere a soffrire in pace e a capire se ce l’avrebbe fatta.
La signora, non si sapeva proprio. Si mise a letto, non mangiava, non beveva e non dormiva. Il dottore veniva spesso e usciva sconsolato.
Il signor Ricci si trascinava fino al magazzino, faceva finta di lavorare un paio d’ore e poi se ne andava in giro.
Le sorelle stavano in casa a vegliare la madre.
Anche la Tina aveva una brutta cera e dovettero prendere una sguattera giovane, perché lei non c’aveva più la forza di far nulla.
Il nonno nessuno lo vedeva o lo sentiva più. S’era finito di rincoglionire e dormiva tutto il tempo.
Gino e Marzio tiravano la carretta. Si davano da fare il doppio, in magazzino, ora che c’era un monte di gente che passava e che chiedeva di vedere un tessuto solo perché era curiosa e prima o poi gliela buttava lì, una domanda sulla disgrazia dei Ricci.
I commessi si mettevano a rispondere e inventavano particolari. O magari li sapevano,
Gino non avrebbe potuto dirlo.
“Ehh, s’è innamorato di un’altra… così, dall’oggi al domani…”, il commesso con la stoffa in mano e gli occhi in quelli del cliente.
“Certo, s’erano compromessi… per questo lei poi…”.
Marzio, se era libero, interveniva a tagliar corto e diventava sgarbato.
“Lo servo io, questo signore, che mi sembra tu non sappia di cosa ha bisogno”.
Di essere mandato via, che succedeva presto. Il tempo di sparare un prezzo ridicolo e di riporre la pezza senza nemmeno aspettare una risposta.
Dopo poco cominciarono a capire subito quelli che entravano solo per chiacchierare e Marzio proibì a tutti di cianciare di quello che era successo. Però, nel giro di poche settimane, la gente smise di curiosare e ricominciarono a comparire solo i clienti veri.
Gino s’era reso utile fin dal primo giorno. E mentre i commessi bighellonavano e uscivano sempre più spesso lui s’era messo a aiutare Marzio. Quando c’era più persone insieme e Marzio era solo, allora li accoglieva lui i clienti e cercava di fare del suo meglio, finché Marzio si liberava e accorreva in suo aiuto.
In casa invece cercava di sparire. La signora Ricci girava adesso come un fantasma. In vestaglia, con la faccia pesta, passava ore in cucina con la Tina che la imboccava come una bambina e lei che tratteneva i conati.
“Lo faccia per suo marito, signora… per le altre figlie…”.
E lei buona buona si lasciava dare un cucchiaino di minestra e poi chiudeva gli occhi ripensando a perché doveva mangiare.
Le altre figlie, dopo un mesetto, ripresero a uscire. Studiavano e studiavano e sospiravano la sera, chiuse in camera.
La domenica, per non stare in casa, invece di riposarsi Gino adesso passeggiava a lungo.
Visitò tutte le piazze e tutte le chiese. Ammirò i palazzi di rosso sobrio; le torri, il duomo a strisce, i gradini antichi che si sciorinavano per le strade.
In Piazza del campo ci passava le ore intere. Così larga, all’improvviso, lo stupiva tutte le volte. In discesa verso un punto, sembrava volesse risucchiare da qualche parte misteriosa
Da qualche parte che sapevano solo quelli che l’avevano fatta, la piazza, e che si tramandava nei secoli a chi la guardava. Un segreto, un incanto, un’armonia di chi sa come fare il mondo.
Lui si sedeva nella parte più alta e si lasciava scivolare a lungo su quel mistero, poi si metteva a guardare il cielo. Che lì non era striminzito, fra le case, ma vasto, grigio a nuvole spesse, bianco striato di pioggia, azzurro spazzato di vento freddo. Sempre più luminoso e pulito, via via che passava il tempo.
Ai primi di marzo piano piano il padrone ricominciò a stare in magazzino, e Marzio si prese il suo tempo per spiegargli quel che era successo in sua assenza. Lo convinse a licenziare tutti e a prendere in prova Gino come commesso.
Arrivò un ragazzino veloce e allampanato a far da garzone.
Gino era tronfio di orgoglio e ogni giorno più bravo.
Srotolava, lisciava, faceva saltellare in aria le stoffe. Poi, capiva subito i clienti. Lui e Marzio con due e tre cenni del capo si dicevano: “quello non c’ha una lira” oppure “questo è qui per comprare” e si aiutavano a vicenda.
Con la prima paga, Gino iniziò le rate di un vestito nuovo, elegante. E a guardarsi nello specchio del sarto non ci poteva credere.
Un uomo.
Con le spalle larghe, il collo forte, il naso grosso e le mascelle piantate in faccia. Non era nemmeno più biondo ma rossiccio, a forza di impomatarsi di brillantina. Da non riconoscersi.
Gli tremavano persino le gambe, quando uscì vestito di tutto punto.
Era i primi di aprile e cominciava a stiepidirsi l’aria.
Andò in Piazza del campo e si sedette a un bar. Il tavolo all’aperto, il caffè davanti, Gino nel vestito nuovo si sentiva un signore.
Pensò allo zio Alcide. Gli avrebbe scritto, anche a lui, lo avrebbe invitato.
Voleva prendere una stanza in affitto vicino al magazzino e ospitare chi gli pareva.
Si immaginò con lo zio, a parlar di donne e di soldi… da non stare nella pelle, per la voglia di esserci già.
E tutte le cose che c’aveva da raccontare, ora. Ci sarebbero volute settimane per dirgli tutto.
Fuori, nella notte… signorine, cene fuori, caffè concerto e parlare fino a tardi…
Certo che, per l’intanto, c’aveva solo un sacco di debiti col sarto, il calzolaio e il parrucchiere. C’avrebbe messo dei mesi prima di rivedere la luce. Fece un calcolo con la mente e si sentì risucchiare indietro. Via dai bar, dai ristoranti luminosi, dalle giornate libere nella sua camera, via lo zio e la compagnia…
Sarebbe dovuto restare nella stanzina, invece. Nella casa triste, a vedere la gente deperire e lamentarsi, scivolare via sui giorni, vivere nella morte.
Gli si strinse il cuore, a quell’idea. Ora che si godeva il suo caffè, seduto al bar come un signore, pensare di tornare alla stanzina e la casa triste gli parve un delitto.
Lui che voleva uscire, avere soldi e racconti, magari una ragazza, la calma del mondo della piazza e il suo scivolo verso un punto di segreto e di sapienza.
In quel momento uno starnazzìo alto nel cielo lo fece voltare in su.
Una migrazione.
Su un cielo mosso pazzarello di nuvole tonde e piccole che volavano via veloci. Contro il blu, le penne brillanti di luce, le anatre s’erano messe a V e si inseguivano rapide verso il sereno.
Gino inspirò e espirò e chiuse gli occhi per sentir meglio. Sì … c’era profumo d’erba tiepida nell’aria. Un sospiro di primavera.
“Le porto altro?”.
Gino si ricompose e mise mano al portamonete.
“No, grazie”.
Spicciolò quanto doveva sul tavolo.
“Tenga il resto”.
Il cameriere prese i soldi con un inchino e se ne andò.
Le anatre tremolavano fra le correnti pulite del cielo. La luce stava cambiando e abbassandosi verso il pomeriggio, inclinava a struggersi verso la felicità. E andare, andare, andare. Nella gioia, la scoperta, il respiro libero di chi deve conoscere ancora tanto…
Gino si alzò di scatto, uscendo da dietro il tavolino e mettendosi a correre sul bel pavimento rosso di cui era ricoperta Siena.
S’era distratto, dietro le sue corbellerie, e aveva fatto tardi.
(Fine)