Solo pochi giorni fa, a Londra, dove ora vivo, mi ero alzato dalla scrivania per concedermi un po’ di rilassamento, per far correre i pensieri da soli, senza costringerli a seguire una strada prefissata. Fermo davanti alla finestra, osservavo il tranquillo torneo delle auto e dei passanti sul passaggio zebrato appena sotto casa. La fila di auto si era fermata per consentire ad alcuni passanti di attraversare la strada. Dall’angolo della finestra uscì all’improvviso, come una freccia, un ciclista piegato sul manubrio da corsa. Non rallentò neanche. Attraversò veloce il passaggio pedonale nello stretto corridoio a sinistra, tra le auto ed il marciapiede, e conquistò in breve il fondo della strada. Le spalle muscolose erano strette in una maglietta a maniche corte di quel giallo acceso che indossano anche gli operai che lavorano sulla strada. Rimasi a guardarlo, ammirato e incerto, poi le gambe veloci si fermarono per un attimo, accompagnando il corpo che si piegava nella curva un po’ stretta, e scomparve. Continuai a guardare la strada, dove le auto avevano ripreso a correre, mentre la memoria ripassava ancora nella moviola le spalle robuste fasciate di giallo che attraversavano veloci le strisce pedonali.
Nella vita spesso il gioco delle coincidenze è crudele e a volte ci si trova a formulare delle associazioni spontanee delle quali ci si può vergognare, perché nel farle si finisce per trattare le altre persone come accidenti casuali, come segni, come indizi o riferimenti cronologici di una nostra storia, o forse del progetto con il quale ognuno di noi identifica la propria vita. Quando Luca morì, da qualche parte scrissi che non avrei mai usato la sua storia come oggetto di narrazione. Mi sembrava un segno di rispetto a lui dovuto, per l’amicizia che ci aveva unito e diviso per anni; ed era conseguenza delle circostanze che avevano accompagnato quella morte, un avvicendarsi di disgrazie familiari che in pochi mesi avevano decimato la sua famiglia. “Se qualcuno narrasse questa storia, nessun pubblico sarebbe disposto a crederla vera”, dissi tra me quando seppi che era in coma. In base al vecchio principio della verosimiglianza, o anche del puro e semplice calcolo delle probabilità, era del tutto inaccettabile che il destino si potesse scagliare ripetutamente, con tanta rabbia, contro le stesse persone. Al danno poi si aggiungeva la beffa: dopo anni di disoccupazione, solo pochi mesi prima Luca aveva trovato un lavoro; dopo la morte di alcuni familiari, infine aveva deciso di sposarsi, di porre le basi di un nuovo progetto di vita.
Ma in realtà, il motivo principale per cui non volevo scrivere di lui era che solo da pochi giorni, su una rivista che ricordava fatti accaduti vent’anni prima, nel 1969, avevo letto di Altamont. Meredith Hunter, un diciottenne di colore che, durante l’esibizione dei Rolling Stones al Freeway Festival, era stato pugnalato a morte dagli Hell’s Angels, un gruppo giovanile di quegli anni che i Rolling Stones avevano pagato come propria guardia del corpo, per essere protetti durante l’esibizione. Loro, fedeli solo al mito della giacca di pelle e della motocicletta, prima dell’inizio del concerto si erano già ubriacati, poi, per qualche motivo sconosciuto avevano iniziato a picchiare quel giovane. Mentre Meredith moriva dissanguato, Mick Jagger sul palco cantava “Let it bleed”, lasciamolo sanguinare. Sentivo su di me un forte turbamento per quei fatti, accaduti quando avevo appena sedici anni, dei quali forse in Italia non era mai arrivata notizia, se non incompleta. Leggendoli mi era tornata alla mente quella riflessione di altri, che il gusto decadente di mescolare vita e spettacolo si era di poco allontanato dalle esperienze fin de siecle; il pubblico delle prodezze dannunziane si era solo dilatato, dai salotti romani agli stadi, fino forse ad una intera generazione. Ma il mio senso di disagio rimaneva intatto; l’impressione che l’estetismo, al culmine del suo manifestarsi, riesca ancora oggi ad essere soltanto individualismo forsennato, nuovo culto misterico al quale sacrificare vittime per esaltare la nuova divinità, un uomo qualsiasi, con le qualità e le incertezze di tutti, bisognoso di sacrifici per riuscire a credere di essere qualcosa di più. Mi sembrava che scrivere di Luca equivalesse a lanciare quel grido rivolto a Meredith ed alla folla che assisteva alla sua morte: “Let it bleed”. Farlo mi avrebbe fatto sentire come un avvoltoio, pronto a strappare quella vita dall’anonimato del comune destino per farne un oggetto estetico, un esemplare unico utile solo ad esaltare la mia scrittura, questo arto fantasma tramite il quale dialogo con il mondo; utile, ancora, per dilatare la mia immagine, la coscienza di me stesso.
Eppure qualcosa di questa riflessione mi faceva male: ripensavo alle migliori esperienze artistiche che avevano esaltato il temuto connubio tra l’arte e la vita, ai film amati di Bob Fosse e prima ancora a quelli di Rossellini, del miglior Neorealismo italiano: l’esperienza di prendere gli attori dalla strada, la capacità di improvvisare il film così come si improvvisa la vita, di farlo crescere su se stesso seguendo le esperienze degli attori. Ancor più del cinema, pensavo alle jam session del jazz, al teatro di Julian Beck e Judith Malina; le loro provocazioni che avevano anticipato lo psicodramma, la riscoperta di un corpo castigato da decenni di tabù; la gente che a Ginevra, nel 1968, si era tolta gli abiti per salire sul palcoscenico. Il rock era stato anche questo, il corpo che sale sul palcoscenico: per metafora, come fece Jimi Hendrix con la chitarra, o senza alcuna mediazione, come Jim Morrison. Il roteare dei fianchi di Elvis Presley era stato solo il primo passo.
Luca non credeva a tutti questi discorsi. Per lui la musica era musica e il resto era solo l’aspetto più deteriore dello spettacolo, pubblicità per vendere agli allocchi; e fu la musica ad unirci, insieme alla solitudine; lui allora era già un esperto in tutte e due le cose, mentre io le stavo appena scoprendo. Per me era un momento difficile. Mi ero sposato giovane, pieno di illusioni, ed era finita dopo due anni. Lo incontrai che ero ancora pieno di sensi di colpa e di aspirazioni eccessive. Lui ammirava una certa mia lucidità di pensiero ed i miei piccoli successi nel campo dello studio e del lavoro. Io forse non lo ammiravo, ma vedevo in lui il contrario di quello che ero: Luca aveva la capacità di amarsi senza dover dimostrare nulla a nessuno, senza nessun obbligo di realizzare qualcosa. Quell’essere per il piacere di essere che a volte invidio e spesso mi fa rabbia. Le sue giornate trascorrevano allora tra gite in moto, incontri con gli amici, qualche ora di studio e lo sport. Ciò che più mi stupiva era la sua tranquillità, la tangibile percezione che per lui, in quel momento, la vita non avrebbe potuto essere diversa da quella che era. Non ebbi mai il coraggio di parlargliene, di dirgli apertamente che lo ammiravo e, nello stesso tempo, lo disapprovavo. Sapevo che quella situazione aveva molto a che fare con la sua condizione di figlio unico e preferivo non ferirlo.
Eppure poi arrivammo a parlarne, ma per un altra strada. Credo che io gli accennai dei miei sogni letterari e lui, senza un attimo di esitazione, come se enunciasse una verità fin troppo nota, al punto da essere noiosa, mi rispose che la realizzazione di quelle aspirazioni non avevano nulla a che fare con la mia ricerca, allora drammaticamente ossessiva, di un momento di pace con me stesso, di un po’ di gioia. Mi colpì il modo in cui parlava, la pacata tranquillità di un settantenne che spiega al nipote come va la vita. Non ebbi neanche la possibilità di dirgli che non aveva capito; era stato talmente chiaro, esplicito, aderente alle mie parole, che non potevo nemmeno supporre che volesse dire qualcosa di diverso. Io avevo sempre collocato il benessere, la soddisfazione di sé, la “felicità”, per dirlo con una parola grossa, al di là di una soglia che si trovava oltre il mio essere presente e soprattutto al termine di un cammino che dovevo ancora percorrere. Luca mi aveva risposto, semplicemente, che la felicità è lì, a portata di mano, e si può sperimentare ogni giorno, purché lo si voglia, scoprendo nella nostra vita quotidiana i gesti capaci di generarla. Il miglior intellettuale o l’artista, mi disse, non hanno più strumenti di noi per essere felici, perché la felicità è nel nostro essere più semplice, non nel progetto o nella ricerca. Gli credetti perché ormai avevo sperimentato il limite del cammino già percorso, dell’insoddisfazione di me.
Lui semplicemente mi condusse con sé. Ricordo le nostre passeggiate in montagna, il bar dove prendevamo il gelato, i concerti dell’estate romana. Io ero alla ricerca di un padre e lui si occupò di me. Come accade sempre tra padri e figli, litigammo tanto, ma poi c’era sempre qualcosa che ci spingeva a ritrovarci. Andò avanti per anni. Lui percepiva la mia ricerca di diversità, mai sopita, come una sfida. Io, senza sapere cosa fosse, percepivo che in realtà la lotta era soprattutto con me stesso e non capivo le sue recriminazioni. La sua condizione di disoccupato non gli permetteva di accettare tranquillamente il mio inquieto attivismo, colmo di mille impegni, sempre alla ricerca di eccezionalità. Forse la lettura dei fatti di Altamont mi aveva fatto male anche per questo; lo scandalo provato era testimone dell’ambiguità del mio turbamento, del fascino che quel sacrificio destava in me, lo stesso che può provare un dongiovanni quando la sua ultima conquista, dopo l’abbandono, tenta il suicidio. La coscienza di questa sottile seduzione mi aveva indotto ad espiare, a rinunciare alla scrittura come si fugge da una donna che ti fa perdere la testa.
Eppure, anche se può sembrare una replica dell’introduzione ai Sei personaggi, per anni ho continuato ad annotare riflessioni e sogni e l’immagine di Luca ha continuato a riproporsi come oggetto di scrittura. Ci sono racconti che per anni si cerca di comporre, di ordinare, di concludere, hai appunti e abbozzi in quantità, forse in eccesso, eppure non riesci a trovare la forma che ti convinca; ogni volta che sei sul punto di iniziare a scrivere ti sembra di tradire una parte di te stesso; sembra quasi che la materia rifiuti di comporsi in una forma accettabile al proprio ruolo di lettore. La storia di Luca è l’esatto contrario. Dopo aver elaborato il tabù, il motivo per cui non dovevo scriverne, ha continuato a presentarmisi in tutte le forme possibili, offrendomi le diverse modalità di narrazione, tutte potenzialmente valide, ognuna come un gesto di seduzione con cui dover fare i conti: concedermi o ritrarmi?
Uno dei motivi che concentrava il mio interesse era la forma del manifestarsi del ricordo, il suo ritornare con immagini che spostavano la mia attenzione dalla sua identità alla mia. Nei sogni la sua casa è in cima alla rampa di scale, come era nella realtà la mia rispetto alla sua. Altre volte siamo insieme alla finestra di un edificio; vogliamo scendere ma non possiamo usare la scala; decidiamo insieme di scivolare lungo la facciata, ma poi io ho paura e mi tiro indietro. Dalla finestra lo vedo lanciarsi senza paura, poi la scena mima gli eventi dell’incidente che lo ha ucciso. Altre volte la situazione si rovescia: lui è già nel cortile e gioca a pallone con altre persone. Io lo chiamo dalla finestra. Lui alza la testa e mi lancia qualcosa, come un getto di liquido. – La metafora del sesso come simbolo di morte, credo, non mi abbandonerà mai. – Io mi sposto, ho paura di essere colpito. Anche nei sogni non perdo mai la coscienza della sua morte; se lui non c’è, il senso di privazione, di mancanza, è ancora più forte e allora ritorno nella sua/mia casa per cercare qualcosa che non riesco a trovare.
Ciò che mi aveva colpito di più, nell’insieme di sentimenti provati leggendo i fatti di Altamont e nella conseguente rinuncia alla scrittura, era la possibilità che ne derivasse una crisi radicale di qualsiasi interazione tra la narrazione e la realtà, la storia personale. Percepivo quel grido – “Let it bleed” – come un paradigma, come la chiave di lettura di ogni possibile relazione tra la realtà e quella finzione della realtà che è lo spettacolo o la narrazione. Mi sembrava che la mia scrittura divenisse simile a quei film hard core che a volte rappresentano sesso, altre violenza e, si dice, anche morte, per il gusto di chi li vuole vedere, e si facesse così strumento della stesso subdolo gioco di distorsione di sensi che è riuscito a fare spettacolo della storia di Alfredino. Solo un paradigma opposto, un esempio altrettanto forte e contrario, poteva spezzare la forza del tabù elaborato e riconciliarmi con i sensi di colpa emersi dall’ambiguità del mio scandalo. A quelle riflessioni si aggiungeva poi il ricordo dell’atteggiamento di Luca nei confronti delle mie scritture, che allora, quando ci eravamo conosciuti, consistevano in lunghe e noiose lettere agli amici. Dopo la seconda che ricevette, o forse la terza, scoprii che ce l’aveva con me. Anche lui non aveva ben chiari i motivi del suo fastidio, perché non me li seppe spiegare, quindi ci rimasi male. Chiesi consiglio ad un’amica comune e lei mi disse, semplicemente: “Se devi dire qualcosa a qualcuno, fosse anche una parolaccia, è sempre meglio dirla a voce. Una lettera – aggiunse – se non obbligata dalla distanza, è sempre un modo per interporre un filtro tra ciò che si vuole dire e la possibile risposta”.
Forse Luca non avrebbe approvato questa divagazione intorno a lui, alla sua storia, che lo fa diventare, come accade in ogni narrazione, solo un’occasione, un dettaglio della vita dell’autore. A momenti, di recente, mi sono trovato a riflettere sul fatto che la mia amicizia con lui è iniziata dopo la fine del mio matrimonio e che la sua morte è coincisa, a distanza di pochi giorni, con la mia partenza per Londra, con la fine del mio secondo celibato, del “Diario delle amicizie”. Il gioco crudele delle coincidenze mi spinge a periodizzare la mia vita in relazione alla sua, a far diventare la sua un dettaglio della mia; oppure, come in queste righe, a rileggere la sua vicenda come un puro strumento di alcune mie scoperte o riflessioni. Eppure, oltre a questo, c’è anche l’altra disposizione: quella di ritrovarlo nei miei gesti di oggi, di pensare che la mia vita non sarebbe stata la stessa senza di lui. Ancora adesso mi accade di acquistare nastri o dischi che non conosco, solo perché lui me ne aveva parlato; e soprattutto continuo a cercare, nei brevi spazi liberi delle mie giornate, quei gesti che lui mi ha insegnato, come piccoli doni propiziatori di pace e di gioia.
Poi, col tempo, il ricordo di un vecchio film mi diede anche l’esempio di cui avevo bisogno per riprendere fiducia nella scrittura: il lavoro di Wim Wenders con Nicholas Ray in “Nick’s film”, un hard core sulla morte per tumore di Nick progettato e costruito insieme durante i suoi ultimi mesi di vita. Quando mi chiesi che differenza ci fosse tra una delle tante morti “in diretta” di film e documentari fin troppo noti e le immagini di Wim, mi resi conto che la risposta era chiara e paradossalmente semplice; capace, nello stesso tempo, di avere un senso estetico e morale. Il film di Wim dà a quella morte, e alla vita di Nick, tutto il contesto, il respiro necessario per comprenderne il senso, la drammaticità; per far capire l’itinerario che Nick aveva seguito ed il significato che la morte, in quel momento, acquisiva per lui in relazione alla sua vita. Wenders non usa Nick per fargli dire o significare qualcosa di diverso da quello che è. Le morti “in diretta” già accennate, e volutamente innominate, sono solo scoop, spettacolo per soddisfare i pizzicori della nostra mediocrità, come le foto di Pasolini dopo il linciaggio; capaci di destare qualsiasi sentimento, fuorché il rispetto per la persona morta. Wim e Nick non fingono di offrirci una morte; costruiscono un film che nei minimi dettagli ricorda allo spettatore di essere un film. Il cattivo giornalismo, invece, ha sempre la pretesa di fingersi “presa diretta” sulla realtà.
Forse non riuscirò mai ad essere onesto nei confronti di Luca. Finora non ho avuto il coraggio di scrivere che quando è morto non ci parlavamo da mesi, a malapena qualche saluto. L’ultimo colloquio avuto al telefono era stato peggiore delle percosse. Ognuno pazzo continuava a seguire il suo cammino a testa bassa, convinto di essere dalla parte della ragione, inconsciamente accusando l’altro di essere diverso da come una volta ci si era pretesi, immaginati, presentati; ognuno lo specchio deformante dell’immagine che l’altro voleva vedere. Io, ancora a inseguire i miei sogni, lui, che per una volta aveva cercato di entrarvi, si era sentito scacciare; eppure, come potrei sostenere che non era quello che volevo? Ognuno andò per la sua strada, iniziò a costruire la propria vita con altri progetti, altri rapporti. Seppi che faceva esperienze alpinistiche, poi lo incontrai spesso che correva in bicicletta, con quella maglietta gialla e attillata. Altre coincidenze crudeli: quel corpo all’altezza di qualsiasi prestazione, che tante volte gli avevo invidiato ed i suoi capelli, lunghi e folti. Quel corpo esuberante, capace di percorrere in poche ore cento chilometri solo con la forza delle sue gambe, rimane ora nella memoria di tutti come un connotato della sua morte, non della sua vitalità.
Solo tre anni fa, un giorno scomparve, senza che nessuno ne sapesse niente. Era uscito la mattina in bicicletta, per andare al lavoro, e poi di lui si era persa qualsiasi traccia. Il pomeriggio e la sera vagammo fino a tardi, con parenti e altri amici, per le strade di periferia che percorreva di solito, sperando di ritrovarlo bisognoso di aiuto, in difficoltà, ma vivo. Pensavamo fosse finito in qualche scarpata, o forse fuori strada, svenuto. Infine giunse la notizia che era ricoverato in ospedale.
Rossellini ha scritto, da qualche parte, che il senso del film “Paisà”, l’acme che ne racchiude anche la genesi, è nell’ultima scena, in quel lento scorrere sul fiume dei corpi dei partigiani. Tutto il film è una introduzione a quella scena che da sola concentra l’espressione del dolore dell’Italia di quei giorni, eppure quel lento scorrere di corpi sull’acqua non poteva essere proposto da solo, senza essere contestualizzato, perché l’immagine avrebbe perso ogni forza drammatica, sarebbe diventata un banale reportage. Per me questo discorrere, che continua dall’inizio del racconto, è solo un accostamento dubbioso e controllato all’unica immagine rimasta costante nei diversi progetti abbozzati di un racconto su Luca; un’immagine che non è mai entrata nei miei sogni.
Il corridoio è asettico, il pavimento in linoleum, i camici degli infermieri verdi. Il primo tratto è occupato dalle porte dei laboratori. Poi si deve girare a destra e per un breve cammino non ci sono più uscite. Poi, procedendo, si snoda come se aggirasse uno spazio.
Nelle pareti interne della U si aprono le finestre, di vetro, ampie e spaziose come schermi ad alta definizione. L’immagine ha la forza di un teorema matematico, la sua stessa nitidezza, la capacità dimostrativa di una sfilata di teschi disposti in modo da documentare la teoria dell’evoluzione della specie. Si può passare da una finestra all’altra per constatare, nei diversi esemplari, le nuove conquiste. Dai corpi si dipartono elettrodi, tubi, sonde. I monitor registrano e codificano in segnali la funzionalità dei diversi organi. Qualche parente fa gesti di saluto e sorrisi ai malati ancora in grado di capire. Luca ha il cranio rasato. Le spalle muscolose, ma già un po’ dimagrite, sporgono da sotto il lenzuolo. L’espressione del volto è composta, rilassata, non mostra segno di sofferenza. Il monitor dell’attività cerebrale segna una linea retta. Nella mia mente la fuga di specchi somiglia al gioco di un bambino.
Pochi mesi dopo, a Londra, scrivevo. “È da quando ho iniziato ad avere coscienza di me che cerco di stringere la mia vita in una catena, in un vincolo di significati. Cerco di dirigerla, di pilotarla. Momento per momento mi narro ad un pubblico immaginario, raccontando direzioni, scopi, tappe intermedie ed accettando anche sconfitte, purché lungo una strada prefissata. Il mio ‘contrappasso’ sarà nella fine delle mie speranze, sarà il caos, l’orgia del vano che ho già prefigurato a me stesso con la morte di Luca”. No, con questo racconto non ho mancato di rispetto a Luca, perché in realtà non ho parlato di lui. Nel gioco speculare le nostre figure, da quel momento in ospedale, si invertivano. Ciò che mi offendeva e mi impediva di scrivere era l’impossibilità di sottrarmi al gioco dell’identificazione. La macchina che lo teneva, ancora per poco, in vita, era la stessa che a me comunicava un senso di totale estraneazione dal mio essere di specie. Poi, come al solito, la scrittura ha vinto, per la sua forza consolatoria, per la sua capacità di conferire un valore, una chiave di lettura, anche a ciò che è la negazione di ogni valore. Non potevo convivere con l’immagine di quel monitor che segnava una linea retta, per questo lo feci diventare l’ultimo di un gioco di rimandi, preceduto dalla moviola che ripassa nel ricordo le nostre esperienze comuni e prima ancora dallo schermo del computer nel quale la mia immagine riflessa viene incisa dalle lettere luminose che narrano questa storia.