Robert Walser è stato un poeta nascosto e invisibile: il suo nascondimento e la sua invisibilità si sono verificati in vari modi e su vari piani, coinvolgendo la persona, l’opera e la scrittura (o meglio la grafia).
I. La persona
Walser si è nascosto e si è reso invisibile anzitutto come persona, facendosi piccolo, vivendo ai margini dell’esistenza civile, cambiando molto spesso indirizzo (quindici volte, ad esempio, negli anni trascorsi a Berna dal 1921 al 1929), sfuggendo per quanto possibile ai ruoli imposti dalla società e dai suoi meccanismi. Infine si è rifugiato e si è reso invisibile nella quiete e nell’atmosfera ovattata e protettiva dei conventi dell’età moderna, come li ha definiti Canetti: le cliniche psichiatriche – la Clinica Waldau di Berna dal 1929 al 1933 e la Clinica Psichiatrica di Herisau, nel Cantone di Appenzell, dal 1933 al 1956, l’anno della morte.
Da questo punto di vista, Walser è stato concretamente un invisibile, perché è davvero difficile seguire i suoi spostamenti.
L’estrema manifestazione di questa sua invisibilità è il suo famoso silenzio, del quale si è molto parlato e sul quale si è molto discusso, e che ha contributo ad alimentare la “leggenda” dello stesso Walser.
II. L’opera
Walser si è poi nascosto nella propria opera, indossando di volta in volta le maschere dei personaggi che popolano i suoi romanzi, i suoi racconti e i suoi numerosissimi pezzi in prosa. Si è nascosto nelle figure di viandanti e vagabondi, di esistenze marginali, di uomini che, come Joseph Marti ne L’assistente, escono dagli strati più bassi e quindi nascosti della società: uomini che svolgono lavori cosiddetti umili e che soprattutto non ricoprono ruoli di responsabilità.
Un altro tipo di nascondimento è quello che ha visto Walser celarsi nei panni di grandi scrittori del passato ai quali si sentiva particolarmente affine: Hölderlin in particolare, ma anche Büchner, Brentano, Kleist, Lenau e molti altri ancora. Anche da questo punto di vista, insomma, per quanto su un piano esclusivamente letterario, il nascondimento e l’invisibilità sono molti forti e, anche se l’espressione potrà suonare paradossale, molto evidenti: “Nessuno ha il diritto di comportarsi con me come se mi conoscesse”, dice un suo personaggio-alter ego in una prosa che non a caso si intitola Das Kind, “Il bambino”. Si potrebbe aggiungere, peraltro, che Walser si nasconde “nella scrittura” e nello stesso tempo “all’interno della scrittura”. Questo nascondersi all’interno della scrittura è una caratteristica che si nota soprattutto nell’ultima fase della sua produzione, dal 1921 al 1933, e soprattutto in un frammento che ho tradotto e che si intitola Diario del 1926.
È come se Walser si nascondesse per così dire negli anfratti della scrittura, con uno stile di fredda cerimoniosità, ad esempio, oppure con continui richiami ad un lettore ovviamente immaginario che in questo modo viene tenuto alla debita distanza. Ma non solo: Walser si nasconde in particolare quando accenna a svolgere un tema o un argomento e poi puntualmente non lo svolge; quando si propone di tener fede a qualche assunto che gli sembra particolarmente importante e decisivo ma poi puntualmente cambia discorso e parla di qualcosa di completamente diverso. Io credo che questo procedimento sia un modo di nascondersi e di rendersi invisibile: è un modo di sottrarsi alla linearità della narrazione e all’imperativo di dover dire necessariamente qualcosa, ed è anche un modo di sottrarsi alla responsabilità e alla falsificazione implicita nel dover dire qualcosa. “È lungo le vie traverse, e non sulla strada maestra, che si trova la vita”, ha scritto lo stesso Walser in uno dei suoi cosiddetti microgrammi. Forse questa frase racchiude il senso più profondo della sua scrittura e del suo atteggiamento nei confronti della scrittura stessa.
III. La grafia
Walser si è nascosto anche nella propria grafia e cioè nei cosiddetti microgrammi, i testi scritti a matita e appunto con una grafia piccolissima negli anni tra il 1924 e il 1933. E qui ci troviamo di fronte al limite estremo del nascondimento, ci troviamo come di fronte a un’implosione. È come se, dopo i microgrammi, Walser non potesse che scomparire ulteriormente, chiudendosi nel silenzio.
IV. La leggenda
La leggenda di Robert Walser è una leggenda nella quale è bello e magari perfino consolante credere. È bello, insomma, credere che Walser abbia smesso di scrivere perché non aveva più nulla da dire. C’è peraltro una poesia del 1924/25 che sembrerebbe avallare una simile ipotesi. È una poesia nella quale Walser non augura a nessuno di essere come lui, e cioè “di sapere tante cose, di avere visto tante cose e di non avere nulla, così nulla da dire”. Ma in realtà Walser ha smesso di scrivere, molto più semplicemente e banalmente, perché non era più nelle condizioni di farlo, perché nel momento in cui venne forzatamente trasferito nella Clinica di Herisau smise di essere un uomo libero, e la scrittura – come egli stesso aveva scritto più volte – deve avere come presupposto la libertà: magari anche la libertà di non scrivere. Se però si vogliono trovare degli elementi che possano rendere almeno in parte fondata la leggenda, allora si possono individuare due aspetti:
a) nei microgrammi si nota un sempre maggiore rimpicciolimento della grafia, e anche il fatto che Walser non riempie più per intero i fogli;
b) c’è un microgramma, nello specifico, in cui Walser dice che la scrittura gli appare come qualcosa di comico.
Si potrebbe allora arrivare a una conclusione di questo tipo: Walser non crede più (o non crede quasi più) alla scrittura, al significato dello scrivere. Si ha quindi l’impressione che basti un minimo evento esterno per condurlo al silenzio. E nel momento in cui l’evento esterno (il trasferimento nella clinica di Herisau) si verifica, Walser tace.
Però su queste cose si può speculare all’infinito, e io non voglio farlo.
Vorrei semplicemente concludere con un passo del Diario del 1926 che secondo me dice molte cose. Il passo è questo:
“Ma noi tutti siamo senz’altro vuoti. Siamo vuoti nel momento stesso in cui ci troviamo in società oppure ci dedichiamo alla cultura. Sì, perché la cultura stessa non è certo nient’altro che l’incarnazione della vanità. La cultura deve essere vacua. E chi rinuncia in tutto e per tutto alla vanità è perduto, oppure sacrifica se stesso”.
E questo, credo, è precisamente quanto è accaduto a Robert Walser.
Scusi io avrei trovato un libro che le appartiene, ha un indirizzo mail dove posso scriverle in privato?
La ringrazio,
Elena