Quando fu possibile, nell’ottobre 1957, dieci mesi dopo la morte di Walser, al pubblico senza dubbio ristretto al quale la cosa poteva interessare, gettare uno sguardo su un manoscritto dell’ultimo periodo di attività di Walser, immediatamente un’aura di stravaganza e di mistero aleggiò intorno a questa minuscola scrittura.
Carl Seelig, il primo commentatore di questa micrografia, sicuramente non è stato estraneo alla creazione del mito, giacché così commentò la riproduzione in fac-simile del suddetto manoscritto nella rivista “Du”:
Questa scrittura segreta non decifrabile inventata dal poeta negli anni venti, che egli ha utilizzato fin dall’inizio della sua psicosi affettiva deve senza dubbio essere interpretata come una timida fuga dalla vista del pubblico, come uno stupendo camuffamento calligrafico destinato a nascondere a lui stesso le proprie idee.
La constatazione d’illeggibilità che fa Seelig è contraddetta con evidenza dall’estratto ingrandito di questo scritto annesso all’articolo e che dovrebbe convincere della sua leggibilità tutti i conoscitori della grafia gotica. Nondimeno non si può rimproverare a Seelig di non aver sottoposto a un esame più attento i 526 “microgrammi” che gli sono stati affidati, verosimilmente dopo la morte di Walser, dal manicomio di Herisau. La pubblicazione d’una quantità di testi apparsi solo in rivista, oltre che di inediti su manoscritti revisionati gli deve essere apparsa prioritaria. Resta tuttavia sorprendente che la leggenda della illegibilità abbia potuto essere considerata per così tanto tempo come un fatto incontestabile, fino a quando J. Greven, nel 1972, pubblicò nel volume XII/1 delle “opere complete” due gruppi importanti di “microgrammi” che aveva decifrato: le scene “Felix” e il romanzo “Räuber”.
Le ipotesi di Seelig a proposito di un legame misterioso tra questa scrittura segreta e la psicosi affettiva di Walser furono evidentemente di natura tale da favorire il sorgere di mistificazioni suscitate dall’oscura biografia di questo emarginato impudente, internato in clinica psichiatrica. Nel frattempo, la scrittura segreta inventata dal poeta si è rivelata essere una variante personale della scrittura gotica; quanto alla diagnosi di psicosi affettiva stabilita senza esitazione, eccellenti argomenti la mettono oggi in discussione. Resta nondimeno perfettamente legittimo interrogarsi sulla relazione tra la micrografia di Walser e la sua costituzione psichica. Conviene tuttavia non lasciarsi imporre una conclusione affrettata da una etichetta psichiatrica: quella di una anormalità complementare della malattia e della scrittura, conclusione che non si preoccupa per niente, del resto, della forma e del contenuto dei testi micrografici. Colui che s’interroga seriamente sull’origine della scrittura di Walser stabilirà innanzi tutto una relazione con i suoi processi poetici degli ultimi anni bernesi. Carl Seelig si deve essere accorto che l’apparenza insolita di queste note non sia effetto del solo caso, poiché ha parlato di uno stupendo camuffamento calligrafico. Oggi un grande numero di questi “microgrammi” è stato decifrato e dovrebbe essere possibile trarre dall’aspetto dei manoscritti nuovi chiarimenti sulla sua attività creatrice.
Benché i testi di Walser comportino innumerevoli osservazioni sui meccanismi e le circostanze che conducono all’atto dello scrivere, non vi sono che pochi commenti dell’autore sulla procedura micrografica: una spiegazione abbastanza dettagliata in una lettera a Max Rychner oltre ad alcune allusioni nelle prose intitolate “Bleistiftskizze” e “Meine Bemühungen”. In questi tre episodi, Walser menziona una crisi della penna che l’ha condotto a fissare a matita i suoi primi abbozzi. Ecco ciò che dice nella lettera a Rychner del 20 giugno 1927:
Poiché vi fu un’epoca, per l’autore di queste righe, nella quale egli ebbe spaventosamente in odio la penna, nella quale egli ne fu stanco a un punto tale che non saprei veramente descrivere, nella quale egli diventava del tutto stupido appena si metteva un pochettino a servirsene, e per liberarsi da questo disgusto della scrittura, si mise ad abbozzare a matita, schizzare, folleggiare. Mi sembrò che con l’aiuto della matita potessi di nuovo scherzare, poetare, sembrò che il piacere di scrivere resuscitasse. Le posso assicurare ( e questo è cominciato già a Berlino) che ho assistito, con la penna, a una vera rovina della mia mano, una sorta di crampo, dalla cui presa mi sono aticosamente, lentamente liberato per mezzo della matita. Un crollo, un crampo, una confusione, sono sempre di natura corporale e spirituale al tempo stesso. Fu per me un periodo di sfacelo che si manifestò nella mia scrittura, nella sua dissoluzione, ed è copiando i miei appunti a matita che, come un bimbo, reimparai a scrivere.
Se Walser assicura Max Rychner all’inizio di queste informazioni sul suo metodo di lavoro ch’egli gli consegna così tutta la storia di una vita e di un’opera, questa confessione, come tutte le informazioni “private” all’interno dell’opera, è ingannevole e destinata ad assicurare la discrezione. La lettera ha dichiarazioni contraddittorie sull’inizio degli schizzi a matita, poiché nonostante la rovina della penna sia apparentemente avvenuta dal 1912 a Berlino, egli nota più avanti:
Sappia, Signore, che sono circa dieci anni (cioè verso il 1917; n.d.r.) che ho cominciato ad abbozzare con la matita tutto quello che producevo, timidamente e in un certo senso religiosamente, cosicché la scrittura diviene naturalmente un processo di una lentezza languida e quasi colossale.
È probabile che fino alla metà del suo soggiorno a Biel, Walser abbia concepito i suoi manoscritti direttamente a penna, con una difficoltà certamente crescente, per inviarli, muniti di poche correzioni, ai giornali e alle riviste committenti. Giunse anche a produrre, con l’inchiostro e molto pulitamente, numerose versioni del medesimo testo. L’Archivio Theodor Heuss di Marbach possiede manoscritti pubblicati nella primavera 1914 nella rivista “März” sotto il titolo “Kleine Sachen” sul retro dei quali si rinvengono le tappe preparatorie dei testi pubblicati sotto forme alquanto differenti nella raccolta “Kleine Dichtungen” (1914).
Non conosciamo schizzi a matita del periodo 1912-1917. Tali documenti mancano anche per gli anni seguenti fino al 1924. Per quanto ne sappiamo, il primo “microgramma” conservato risale al 1924. Contiene la prima versione del racconto “Der Schurke Robert” apparso il 30.11.1924 nella “National Zeitung” di Basilea.
Tuttavia, anche se Walser non ha espressamente attribuito i suoi primi tentativi a matita all’anno 1917, altri indizi inducono a pensare che la micrografia sia cominciata prima del 1920 e che, di conseguenza, questa prima produzione micrografica non sia stata conservata, oppure che sia stata integrata nei testi ricopiati o pubblicati a quest’epoca. Così, alcune lettere di questo periodo presentano una scrittura nettamente più piccola della precedente e il manoscritto di “Freundschaftsbrief” pubblicato il 22.2.1919 nel giornale viennese “Die Republik”, contiene una comunicazione micrografica a Max Mell in cui la scrittura minuscola regge bene il paragone con gli abbozzi del 1924/25. Siccome altrove rinveniamo sul retro di una lettera indirizzata a Frieda Mermet nel 1924 (n° 243 del volume “Briefe”) l’abbozzo micrografico di una lettera all’editore Bruno Cassirer, si potrebbe supporre che Walser abbia qua e là utilizzato la sua scrittura-abbozzo in relazione alla sua corrispondenza. Ma questa ipotesi non trova altre conferme a meno che valga la constatazione che molti dei testi del suo periodo bernese, specialmente quei “microgrammi” non ancora pubblicati, imitano la forma epistolare. Così un certo testo micrografico abbastanza lungo appare indirizzato a Therese Breitbach. Tuttavia, la forma epistolare ha sempre goduto del favore di Walser, e gli indirizzi al lettore, frequenti anche nei “microgrammi”, possono essere rinvenuti già nelle opere più datate. (Esse alternano le due forme di indirizzo in uso nella Svizzera tedesca “Ihnen” e “euch”). È da sottolineare che la prosa tardiva di Walser, impregnata da così tanti segni della comunicazione, sia stata subito fissata in una scrittura che manifesta una evidente tendenza al rifiuto della comunicazione.
Se consideriamo motore della sua micrografia la tendenza crescente, indubitabile nella corrispondenza dell’epoca, a ridurre i segni grafici, possiamo interpretare il passaggio dalla penna alla matita come la necessaria appropriazione di un nuovo strumento che permette una riduzione ancora più radicale della scrittura. La doppia finalità già menzionata verso cui tendono i suoi accenni a proposito della micrografia: scoprire-nascondere, vuole che il suo aspetto più visibile, la miniaturizzazione, sia passato sotto silenzio a favore di commenti ripetuti sullo strumento. Walser designa il suo nuovo modo di lavorare, la separazione divenuta indispensabile tra abbozzo e copia, con i termini seguenti: il metodo della matita, il sistema della matita, l’abbozzo a matita. I romanzi “I fratelli Tanner” e “L’assistente” sono stati scritti di getto rispettivamente nel 1906 e nel 1907 , in qualche settimana e a penna. I manoscritti, che hanno un carattere quasi calligrafico, mostrano che Walser non ha interrotto che molto occasionalmente il flusso della scrittura per apportare correzioni minori. Egli lasciò la cura delle correzioni più importanti al redattore delle edizioni Bruno Cassirer – che almeno per “I fratelli Tanner” fu Christian Morgenstern. Il processo fisico di una scrittura corrente ben pulita non è manifestamente solo un aspetto esteriore che caratterizza i primi scritti di Walser, ma una condizione necessaria alla sua creazione. Forse anche aspirazioni calligrafiche furono legate all’impiego della penna, che non poterono in seguito più essere realizzate nel primo impulso della creazione. Il crampo che la penna di Walser non sopportò non si sciolse che durante la seconda fase del lavoro creativo, permettendo così una scrittura più facile. Questo transfert compensativo dello strano legame tra la creatività e un uso esteso della penna intorno alla seconda redazione appare attestato ugualmente dal modo in cui Walser se ne serve nei suoi abbozzi. La pulitura non si riduce assolutamente a una semplice copia come l’espressione metà pudica metà ironica che impiega nella lettera a Rychner potrebbe far credere: Un sistema di copiatura a carattere burocratico. Oggi, i nostri paragoni tra gli abbozzi e i manoscritti definitivi dimostrano che Walser, se conservava la concezione generale e spesso anche la struttura della frase, amava modificare aggettivi, espressioni e forme. Esistono inoltre importanti esempi di modificazione. La piccola prosa intitolata “Ich soll arbeiten” corretta nel 1924/25 si compone di tre schizzi micrografici indipendenti saldati in un testo ridotto soltanto a una piccola parte del loro volume originale.
Tuttavia, il fascino calligrafico della sua scrittura a penna, la grazia del suo genio poetico che si manifesta nei tratti della sua scrittura, sono, d’altra parte, conservati nel suo sistema della matita. A nessuno sfugge la qualità estetica di un “microgramma”: la graziosa regolarità del carattere, le righe strettamente orizzontali, la finezza del tratto, la giustapposizione di maniere diverse, la loro impaginazione e connessione, talvolta, su uno stesso foglio. Va quasi da sé, oramai, che Walser abbia taciuto pure questo aspetto grafico dei suoi abbozzi a matita nei suoi tre “commenti”. Questa bipartizione del lavoro letterario gli deve essere pesata terribilmente e la sua vergogna di non giungere a concepire di getto un testo in bella scrittura a penna fa in qualche modo piegare la schiena alle piccole lettere e costituisce una delle diverse cause della loro esistenza. Questo sentimento di insufficienza letteraria è probabilmente evocato in questo passaggio dove egli dice di sopportare delle vere sofferenze a causa del sistema della matita. Ciò concerne evidentemente la faccia notturna del suo nuovo “metodo” e conviene aggiungere subito che in altra occasione, nella piccola prosa “Bleistiftskizze”, Walser ha anche ammesso la sua faccia luminosa:
Ma come questa pena aveva per me, da un certo punto di vista, l’aspetto di un piacere, mi sembrò di guarirne. Un sorriso di contentezza visitò ogni volta la mia anima, e anche il sorriso di un’autoironia rassicurante all’idea di essere autorizzato a vedermi prendere tanta cura, anche prudentemente, della scrittura. Mi sembrò, tra l’altro, di potermi mostrare più sognatore, più calmo, più riflessivo, di sentirmi più a mio agio, mi pareva che il metodo di lavoro descritto generava per me una singolare felicità (…)
In queste riuscite realizzazioni, la micrografia di Walser, come tutta la sua opera quando tratta oggetti minori, è una sorta di fantasmagoria della piccolezza incantata, come apparve ad Adorno la cassetta di Melusina nel racconto di Goethe.
Sul piano puramente artigianale, la micrografia rappresenta evidentemente un accrescimento considerevole delle difficoltà della scrittura. Non solo la miniaturizzazione delle lettere esige una manipolazione dello strumento estremamente disciplinata, ma genera una accresciuta difficoltà a padroneggiare dei testi spazialmente compressi. La conseguenza fu che Walser dovette maggiormente apportare delle correzioni al momento della limatura, ciò che a sua volta produce la persistenza di negligenze sintattiche o di punteggiatura che sfuggono all’attenzione dell’autore. Delle ripetizioni intempestive e un uso eccessivo di certe costruzioni nel medesimo testo potrebbero talvolta esserne state anche la conseguenza. E tuttavia, l’aspetto di questi testi non testimonia affatto di una improvvisazione senza freni, quanto piuttosto di una sorprendente maestria nella pratica della matita. Qui è necessario contraddire fermamente Jochen Greven che nella sua prefazione alla trascrizione di “Räuber” e “Felix”, nota a proposito della micrografia di Walser:
Allo stesso tempo, questa scrittura minuscola che non fa che abbozzare i segni, era una sorta di stenografia personale che avrebbe dovuto permettere a Walser di annotare le proprie idee e i proprî pensieri alla velocità della parola e di proteggersi così contro le proprie inibizioni, i dubbi soffocanti e l’autocritica.
Greven suppone che l’affermazione di Walser, secondo la quale attraverso il procedimento micrografico la scrittura diventa un processo di una lentezza languida e quasi colossale, si riferisca soltanto alla necessità di ricopiare il primo abbozzo. Ora, si potrebbe a rigore interpretare la mancanza di misura di questa affermazione come una esagerazione ironica, se tutte le parole usate da Walser per qualificare il processo micrografico non indicassero indubitabilmente un effetto di rallentamento della scrittura: timidamente e religiosamente (lettera a Rychner); più sognatore, più calmo, più riflessivo, più a mio agio (Bleistiftskizze). Trascinato dalla sua tesi dell’accelerazione, Greven descrive la micrografia con l’espressione inadeguata di stenografia personale. Dal momento che la natura dei testi desta una sensazione più di cura nella composizione che di negligenza, la micrografia non è tanto una scrittura rapida che tende alla contrazione quanto una ricreazione fedele, [p1][p2]persino ossessiva, della scrittura tedesca in miniatura. Le deformazioni delle lettere che tuttavia appaiono, con effetti polisemici, non sono che il tributo inevitabile che la riduzione dei caratteri paga al mantenimento di una certa fluidità del discorso. Non è che negli ultimi tempi, dopo il 1927, quando la miniaturizzazione, e di conseguenza la deformazione delle lettere, aveva ancora progredito, che l’aspetto del testo raggiunge un grado di astrazione che oltrepassa talvolta i limiti della leggibilità. Giustamente Jochen Greven nota:
La questione della leggibilità non dovette essere stata determinante[p3] per l’autore in quegli abbozzi che copiava a quanto sembra in breve tempo – qualche giorno – servendosene come base per la riproduzione del testo conservato essenzialmente, è lecito pensare, nella sua eccellente memoria.
Tuttavia, Jochen Greven sembra sopravvalutare questa memoria quando conclude: forse la trascrizione era un fatto più di riconoscimento interiore che una reale lettura. Le copie comportano delle sottili varianti, come abbiamo già detto, che implicano una conoscenza parola per parola dell’abbozzo.
Un’altra particolarità affascinante dei”microgrammi” che Walser non ricorda nei suoi “commenti” è costituita dalla varietà dei tipi di carta utilizzata. Nel gruppo dei 526 “microgrammi” conservati, vi sono due blocchi omogenei che rappresentano anche una unità di tempo: 117 fogli di carta patinata in formato in-ottavo utilizzati tra l’autunno 1924 e la fine del 1925 e 158 fogli tagliati in due del calendario “Tuskulum” 1926, di formato 80 x 175 mm, utilizzati probabilmente tra il 1926 e il 1927. A questa importante quantità di fogli che contengono gli abbozzi (supporto preferito, ma non usato esclusivamente durante quest’epoca), si è aggiunto nel corso del tempo un grande numero di carte diverse che Walser tagliò in minuscoli rettangoli: pubblicità stampate su un solo verso tratte da riviste e da libri; buste, cartoline, carta da lettere della sua corrispondenza privata o professionale; bozze di stampa; fogli di tipografia d’origine sconosciuta; eccetera.
Malgrado la stravaganza inesplicabile di questi supporti, essi intrattengono un rapporto reciproco chiarificatore con l’opera più tarda di Walser. La loro natura illustra infatti il suo gusto del gioco ora esuberante ora sottile che illumina concretamente le forze alle quali Walser dovette strappare i suoi testi. Come la scrittura a matita tentò di salvarsi dall’indifferenza delle istanze ufficiali di stima letteraria e dalle loro esigenze interiori rifugiandosi in una riproduzione miniaturizzata della scrittura calligrafica a penna, così la scelta dei piccoli formati e dei supporti modesti segue la tendenza delle imprese letterarie di Walser per i soggetti di poca importanza. Questo nuovo procedimento fu idoneo, in ogni caso, ad assicurare la continuità della produzione per ancora 16 anni. L’impiego di certe carte per gli abbozzi sembra un’astuzia destinata a relegare la futura pubblicazione del testo dentro un cerchio magico. I 38 fogli di avviso di pagamento del “Berliner Tagblatt” (di cui 27 datano 1928) costituiscono un esempio di questa sorta di esorcismo come egualmente un certo numero di annunci della rivista “Sport im Bild” o dei bollettini di abbonamento del “Simplizissimus” e della “Weltbühne”, ma anche delle bozze della rivista “Vers und Prosa” pubblicata da Rowohlt e una cartolina di Eduard Korrodi dell’anno 1932 dove egli conferma a Walser che saranno pubblicate due prose dalla “Neue Zürcher Zeitung”. Ma a mostrare il coraggio che egli ha dovuto dispiegare per mantenere contro venti e mareggiate il commercio delle piccole prose, sono gli abbozzi redatti sulle formule stampate di rifiuto, quali questa circolare della redazione del “Simplizissimus” : Molto onorato…, abbiamo preso conoscenza con interesse della sua spedizione, ma sfortunatamente non rientra nella linea della nostra rivista.
Talvolta queste carte cariche di “passato” incitano Walser a ogni sorta di birichinate, di esclamazioni o di annotazioni divertenti. Così egli completò su una busta proveniente da Praga il francobollo con la scritta “Grazie”, con mille e incorniciò questa trovata con ogni specie di esclamazioni monosillabiche (nei nei ä di). Un’altra volta, formulò questa domanda all’interno del timbro postale: Hesch jetz gli einisch gnue dichtelet? (Hai già finito, poetastro?) e aggiunse succintamente sessa (che significa senza dubbio c’est ça, è così). Uno dei fogli più strani è la busta di uno stampato che porta al centro ben chiaramente a inchiostro: Eui Sozilöle chönne nüt mache. Wüsset der das scho? Es si dummi Cheibe. Grölima. (I vostri buoni a nulla di socialisti non potranno niente. Lo sapete già? Sono dei cretini. Grölima). Questa dichiarazione in dialetto è affiancata da due poesie, la versione dialettale e quella in tedesco dallo stesso contenuto apolitico: il destino d’una sposa maltrattata costretta a vedere che suo marito la inganna. E senza che si possa stabilire alcun rapporto, troviamo in basso alla pagina un calcolo relativo al romanzo di Düxi redatto in tedesco e in dialetto che sembra prescrivere a quest’opera dubbia una tiratura di 5000 esemplari e, dopo una sottrazione di 2500 esemplari per la critica, assegna all’autore, una donna: ella ne potrà dunque vendere 2500.
Un collegamento più facile tra carta da bozzetto e testo micrografico si può evidenziare in un cartoncino di accompagnamento dell’editore Paul Zsolnay. Nell’autunno del 1927 Max Brod fece avere a Walser tramite il suo editore il suo nuovo romanzo “Die Frau nach der man sich sehnt” e Walser colse il suggerimento di fare una critica al libro, utilizzando prontamente il cartoncino allegato. Si tratta del “libero” commento che apparirà nel luglio 1928 nella rivista “Individualität” sotto il titolo “Qui si critica”. In aiuto di quest’esempio particolarmente esplicito, possiamo attirare l’attenzione sull’affinità generatrice di ispirazione tra i materiali e la pratica della scrittura che doveva costituire per Walser una delle attrattive maggiori del suo procedimento. L’uso frequente di carta che il caso gli metteva sotto mano corrisponde al principio poetico ed etico di Walser secondo cui qualsiasi avvenimento, per quanto quotidiano e banale possa apparire, merita di essere espresso dalla poesia.
Il formato della carta determina talvolta la lunghezza del testo. Benché alcune prose si estendano per due fogli di calendario, una scena perfino su quattro, la fine del foglio e quella del testo giungono spesso insieme. Questa particolarità esteriore corrisponde anche a dei principî formali della prosa di questo periodo, il suo sbrigliato accumulo di idee e di associazioni di idee si lascia imporre un termine a causa della fine del foglio piuttosto che per qualche regola formale. Ciò fa parte delle virtù manieristiche di questo autore che si sottomise sempre, nell’esercizio della sua professione, a tali esigenze formali scelte o imposte che, una volta di più, devono aver contribuito alle gioie e ai dolori della sua creazione. Del suo primo libro, “Fritz Kocher’s Aufsätze”, Walser poté avvertire le edizioni Insel:
Il volume di queste Composizioni è assai facile da valutare poiché come Lei avrà senz’altro notato, esse sono tutte composte da sezioni esattamente della stessa lunghezza (lettera del 12 giugno 1904).
Anche il manoscritto dei “Fratelli Tanner” manifesta lo sforzo di armonizzare lunghezza e simmetria dei capitoli. La scrittura micrografica, in ogni caso, cura di utilizzare in modo ottimale lo spazio comunque ristretto. Essa permette talvolta a Walser di raggruppare in un solo foglio tutti i modi della sua opera tarda: piccole prose, poesie, scenette. Nessuno spazio bianco era troppo piccolo da non poter essere riempito con un’idea di composizione poetica. Walser lavorava talvolta simultaneamente su diversi fogli che completava in funzione della ispirazione del momento. Questo uso estremamente economico della carta non deve del resto essere messo in relazione con una difficile situazione economica: contrariamente all’opinione corrente, grazie a due eredità di 5000 e 10000 franchi, essa non era cattiva all’inizio degli anni venti. Bisogna piuttosto vedervi, così come nella miniaturizzazione della scrittura, l’espressione della modestia che si manifesta attraverso l’esempio, e secondo l’etica di Walser, il poco posto che per un’opera poetica sia conveniente occupare. E la vicinanza dei generi è una manifestazione visibile della loro unità poetica che trascende le convenzioni.
In tutt’altra materia ancora, il rapporto tra le carte e i testi micrografici è di un’importanza capitale, non per Walser, ma per colui che oggi cerca di decifrarli: si tratta della leggibilità della scrittura. In generale, nel corso del tempo, la scrittura di Walser si riduce sempre più e, perciò, si riduce la sua leggibilità. Questa tendenza generale è relativizzata da qualche esempio contrario. Esistono 10 carte che contengono “microgrammi” datati 1925, l’anno della carta patinata. Tra di loro, alcuni recano una scrittura relativamente grande ma difficile da leggere a causa del carattere trascurato, e altri di cui la scrittura piccolissima fa piuttosto pensare ai foglietti dei calendari posteriori. Di fatto, l’aspetto e la leggibilità virtuale sono legati più strettamente alla varietà di carta impiegata che alle circostanze della redazione. Da una parte, le carte che reagiscono alla matita di Walser in funzione della loro natura, favoriscono ciascuna un’estetica particolare. Dall’altra, Walser, preoccupato dall’omogeneità dell’aspetto della sua scrittura, adattava scelta e preparazione della matita, ma anche la scrittura, alla natura della carta impiegata. E’ per questo che i piccoli fogli tagliati della rivista “Sport im Bild”, scritti al più presto nel 1927, sono relativamente facili da leggere, essendo la forte miniaturizzazione dei segni compensata dalla manipolazione accurata di una matita appuntita e dura che, sulla carta lucida, assicura un tratto ben pulito. Altri fogli dello stesso periodo non potranno senza dubbio mai essere restituiti a uno stato pubblicabile, tanto sfuggono a una lettura logica.
Per fortuna, tra i 526 “microgrammi” conservati nell’Archivio Robert Walser si trova un gruppo di 117 fogli di carta patinata che non solo contiene una parte importante di testi sconosciuti ma rappresenta in sovrappiù un tipo di scrittura abbastanza facilmente decifrabile. 34 di questi fogli costiuiscono il romanzo “Räuber” e le scene “Felix” che Jochen Greven ha editato nel 1972 con la collaborazione di Martin Jürgens, risultato di una prima importante impresa di decifrazione. Nel 1981, quando Bernhard Echte e io stesso ci facemmo carico di riprendere l’esame dei “microgrammi” per conto della Fondazione Carl Seelig al fine di copiare la totalità dei testi decifrabili, fu normale che cominciassimo dove Greven si era fermato. Nel frattempo, siamo riusciti a rendere accessibile il resto dei testi che sono contenuti nei fogli di carta patinata. Si tratta di 113 piccole prose, 110 poesie e 20 scene dialogate; il tutto rappresenta circa 520 pagine dattiloscritte.
Forse è tempo di illuminare con qualche appunto fondamentale la difficoltà del lavoro di decifrazione. Così come per Greven, l’esperienza ci ha insegnato che le riproduzioni ingrandite non aiutano che in casi eccezionali e che bisogna accontentarsi di strumenti ottici e di una buona illuminazione. Ciò che rende difficile la decifrazione, non è tanto la piccolezza quanto la deformazione di certe lettere: una conseguenza inevitabile, malgrado tutta la cura di Walser, della miniaturizzazione. Senza contare che la scrittura gotica induce a confusioni, le lettere c, e, i,m ,n, r, u come anche f, s, h si rassomigliano abbastanza da confondersi nella scrittura personale. Nella micrografia di Walser, non è possibile distinguere parole come “einst” (una volta) e “nicht” (non) se non ricorrendo al contesto, ma anche parole tra loro lontane come “Walzer” (valzer) e “Verleger” (editore) possono avere delle rappresentazioni grafiche pericolosamente vicine. Anche una parola di poca importanza come “quasi” può costituire un enigma per il decifratore. Una minima malformazione della carta, invisibile a occhio nudo, può portare su delle false piste. Per evitare questa specie di trappola, siamo ricorsi frequentemente al conta-fili da tessitore il cui ingrandimento quintuplo permette di identificare con certezza la più piccola particolarità della struttura della carta. Benché sia talvolta difficile distinguere tra due parole come “fein” (fine, sottile) e “frei” (libero), che spesso si propongono come graziosi aggettivi di valore equivalente, la decifrazione non è assolutamente alla mercé di immaginose interpolazioni. Senza dubbio esisteranno passaggi macchiati o con parole sovrapposte dove solo una felice intuizione può trarre d’imbarazzo. Nondimeno, per i passaggi che si opponevano ai nostri sforzi per intere settimane, quando un momento di grazia ci consegnò finalmente una soluzione, essa si rivelò con una evidenza indubitabile. Ove comunque questa sensazione non si presentò, abbiamo onestamente lasciato una lacuna nella trascrizione.
Per quel che riguarda i testi su carta patinata, pubblicati in tre volumi negli anni 1985/86, la nostra trascrizione delle scene dialogate e della prosa, a eccezione di rare lacune e espressioni dubbie segnalate, è certamente corretta. Vi sono maggiori lacune nelle poesie dove il controllo mediante il contesto non è in genere possibile e dove solo la rima può fornire talvolta un aiuto. Senza dubbio si dovrebbe anche tener conto, tra le fonti di errore, dei fattori soggettivi. Tuttavia, confrontando sempre le nostre trascrizioni compiute per prima cosa individualmente, Bernhard Echte ed io abbiamo certamente ridotto questo rischio a un livello accettabile.
Il futuro lettore di questi testi deve essere sempre consapevole di avere a che fare con abbozzi caratterizzati da inevitabili imperfezioni, ma anche con il fascino costituito dallo scrivere una cosa per l’altra e dal loro carattere provvisorio. Walser senza dubbio non avrebbe mai pubblicato alcuni di essi, poco riusciti o troppo apertamente rivelatori di ossessioni “private”. La loro forma e il loro contenuto, tranne rare e spettacolari eccezioni, corrispondono ai testi conosciuti del medio periodo bernese. La ripresa di numerose storie tratte dalla letteratura popolare e corredate di fuochi fatui ironici costituisce, anche qui, un tema dominante; passeggiate con decrizione della città e della campagna; impressioni di teatro, cinema e opera; storie d’amore; lettere immaginarie; ma anche testi che hanno un carattere di confessione, dove il ricordo, la situazione presente e considerazioni generali si confondono repentinamente. Ciò è particolarmente vero per le poesie, delle quali l’artificio della forma, non sarà che per lo schema delle rime, dolcemente fluido, permette a Walser di interrompere il tono leggero e frivolo di una chiacchierata che si sforza di essere divertente con una “confessione” di una sincerità spaventosa. È spesso difficile, in questi passaggi, capire ciò che è da attribuire all’emozione, al non conformismo o al carattere di abbozzo. Ma proprio perché queste poesie non sono formalmente perfezionate e mostrano le scorie del laboratorio, conviene rivolgere alla loro forma una speciale attenzione.
Il contenuto dei “microgrammi” costituisce un ricco tesoro di “anelli mancanti” che mettono in relazione i testi conosciuti di Walser ma che forniscono anche nuovi chiarimenti biografici. Qualsiasi intuito biografico dovrà comunque tener conto di questa significativa nota di Walser: in un libro in prima persona, l’io è un modesto personaggio e non l’autore (“Zückerchen”).
Se la singolare felicità nata dalla micrografia fu legata per il poeta a delle vere sofferenze, essa ci tocca in sorte completamente, se siamo in grado di utilizzare questi scritti incomparabili.