Primavera 1994
Per avere un altrove bisogna avere una patria
Era la primavera del 1994. Avevo ventinove anni e L’Atelier du roman, una rivista letteraria francese, aveva appena pubblicato uno dei più bei saggi che avessi mai letto: Pour une ontologie de l’exil di Vera Linhartová.
Da qualche tempo mi trovavo a Parigi. Avevo scelto di lasciare l’Italia. Nessuna dittatura mi aveva costretto a questo passo. Il mio era un esilio volontario. Un affare privato, che non interessava a nessuno e che soprattutto non prevedeva condanne in contumacia, confisca dei beni o perdita di nazionalità. Mi trovavo, insomma, dal lato più banale dell’esilio.
Nel saggio in questione, ciò che amai particolarmente fu che Linhartová affermava la possibilità per coloro che hanno scelto di vivere all’estero di non subire il proprio esilio, ma di trasfigurarlo, di trasformare la loro condizione di non appartenenza in un esercizio quotidiano di libertà: “Come un punto di partenza – scriveva Linhartová – verso un altrove, sconosciuto per definizione, aperto a tutte le possibilità”. Milan Kundera, in un articolo apparso qualche giorno dopo in “Le Monde”, definiva “luminosa” la riflessione di Linhartová: anche Kundera vedeva nell’esilio una promessa di libertà.
Mi sono ricordato allora di Josip Brodskij. Nella sua conferenza del 1987, Una condizione chiamata esilio, il poeta ironizzava sul fatto che lo scrittore in esilio è quasi sempre “un essere retrospettivo […] Come i falsi profeti di Dante, il nostro uomo ha la testa perpetuamente rivolta all’indietro e le lacrime, o la saliva, gli scorrono giù tra le scapole”. Mi sembrava che Linhartová, Kundera e Brodskij, cercassero tutti, attraverso tonalità differenti, di rivendicare il lato non tragico dell’esilio, concepito non come una romantica contemplazione delle origini (Novalis: “Il mondo deve essere romantizzato. Solo così ritroveremo il senso originale”), ma come una potente lente d’ingrandimento posata sul presente, capace anche di scrutare i segni premonitori dell’avvenire. Se l’esilio assomiglia all’Inferno, mi dicevo, è perché è soprattutto una scuola di modestia e chiaroveggenza.
Era la primavera del 1994. La mia giovinezza era agli sgoccioli, così come i miei studi. La fine del comunismo, ai miei occhi, coincideva in modo bizzarro con la fine dell’arte. Fine della giovinezza. Fine del comunismo. Fine dell’arte. Ero sequestrato dall’idea della Fine.
E mi domandavo: la tua esperienza dell’esilio può ancora avere dei tratti comuni con quella di Ovidio, Dante, Chateaubriand (“Il rinnovamento della letteratura di cui il XIX secolo si vanta è stato opera dell’emigrazione e dell’esilio” – cosa che si può dire anche per il XX secolo), Seferis, Gombrowicz, Kundera, Brodskij? O con quella di poeti e scrittori che negli ultimi cinquant’anni hanno dovuto o scelto di vivere altrove?
Per avere un altrove bisogna avere una patria, non tanto concepita come suolo nazionale o insieme di istituzioni, quanto come identità storica e culturale, preziosa, a volte detestabile, sempre profondamente radicata in noi da diventare spesso inafferrabile. La banalità del mio esilio non era dovuta all’assenza di sofferenze o di tragedia: la realtà era che il luogo da dove venivo era terribilmente simile al luogo in cui mi trovavo. Entrambi questi luoghi stavano per diventare intercambiabili; ciascuno di essi era in procinto di perdere la propria specificità storica e culturale. L’Europa intera stava realizzando il suo sogno di unità: quale senso dare all’esilio se non esisteva concretamente più un altrove dove andare?
Sentivo, in modo oscuro, che un altro capitolo della storia contemporanea, quello dell’esilio, stava per chiudersi.
Primavera 1997
Il Catalogo della Creazione
Come sfuggire all’iperbole della fine?
Primavera del 1997. Da qualche tempo ho fatto ritorno in Italia. Insegno all’università. Corso di letteratura comparata. Uno studente si alza in piedi e ripete un passaggio di uno dei 333 testi sull’“esilio” che ha trovato durante la notte navigando in Internet: “Heidegger afferma che Nietzsche fu l’ultimo a percepire in modo profondo la Heimatlosigkeit dell’uomo moderno, la sua condizione di apolide, senza fissa dimora, espulso dalla verità dell’Essere. Cacciato dalla sua casa, l’uomo moderno corre invano per il mondo, come un povero animale razionale. Tale oblio o esilio dell’Essere diventerà, secondo Heidegger, un destino universale: Die Heimatlosigkeit wird ein Weltschicksal”.
Dopo la citazione, lo studente sottolinea che il testo, che consiste di non più di venti pagine, possiede 177 note. La nota 103 è, a suo avviso, molto importante perché riassume “la lunga storia dei modelli dell’esilio”, dall’antichità al XX secolo: dal modello greco-latino, passando per quello dantesco e alla “tematizzazione” dell’esilio durante il Rinascimento fino alla “differenze referenziali” della parola ‘esilio’ in epoca moderna di cui Heidegger è una delle ultime “metaforizzazioni”.
“Pensate che l’oblio dell’Essere, di cui parla Heidegger, sia un modello? Un tema? Una metafora?” – domando alla classe. Silenzio.
Gli studenti, mi dico in silenzio, non possono rispondermi. Come i luoghi del nostro mondo, anche le parole sono diventate intercambiabili. La “parola” esilio non ha più una patria. Liberata dalle sue frontiere, disseminata in 333 testi e 107 citazioni, la parola ‘esilio’ ha perduto la sua ricchezza storica, la sua specificità semantica, e soprattutto la possibilità di cogliere l’altrove che è il mondo concreto.
D’un tratto, tutta la cultura europea mi è sembrata correre come un “povero animale” anchilosato alla folle ricerca di liberarsi dal suo fardello due volte millenario di razionalità, di senso e di fiducia metafisica per raggiungere il silenzio ancestrale dei miei giovani profeti, esiliati in un inferno lastricato di testi e citazioni, e che non potevano che fissarmi con uno sguardo innocente e colpevole: lo sguardo dei catalogatori della Creazione. Die Konkretlosigkheit wird ein Weltshicksal: l’esilio o l’oblio del concreto diventerà un destino universale.
Primavera 1999
Castigo e liberazione
Quando gli autori si credono più intelligenti delle opere che scrivono, la letteratura è morta da molto tempo. Oppure essa sopravvive nelle sue forme alessandrine: una letteratura in cui ogni autore può esplorare qualsiasi tema, essendosi rotto il legame tra forma e esistenza, tra una forma individuale e un’esistenza individuale.
Non era il caso dell’ultimo romanzo di Sylvie Richterová, Second adieu.
Era la primavera del 1999. Mi trovavo a Roma. Il “tema” dell’esilio (“il modello”? “la metafora”?) non mi aveva abbandonato, ma dormiva, raggomitolato in un angolo della mia anima come un “povero animale” anchilosato che ha perduto il suo padrone.
Leggevo le bozze del romanzo di Sylvie che sarebbe uscito alla fine dell’anno in Francia. Tutti i personaggi dell’opera scrivono la propria storia come se da questo dipendesse la loro stessa identità; hanno fiducia nella parola scritta e nel dialogo, un dialogo errante nel tempo e nello spazio. L’intero romanzo è un continuo pellegrinaggio di padri, madri, sorelle, amici, amanti da un capo all’altro dell’Europa e del mondo. Ma dovunque ci si imbatte nello stesso paesaggio, nella stessa assenza di frontiera tra bellezza e desolazione, tra passato e avvenire, dovunque lo stesso presente “unico e definitivo” senza un altrove dove andare o ritornare. I personaggi di Second adieu esplorano “la condizione che chiamiamo esilio” come se essa fosse ormai acquisita, inalienabile, permanente: essi annunciano la banalità definitiva dell’esilio. Il loro errare coinciderebbe con quello di tutti i turisti del globo, se essi non fossero animati dal desiderio di “nascondere scrupolosamente” la loro vita segreta, se non possedessero quell’istinto e quell’ostinazione nel volerle dare una forma. Sono esuli che incarnano l’addio a un’epoca in cui l’esilio poteva ancora essere compreso come castigo (Dante) o liberazione (Linhartová).
Primavera 2002
Bellezza e desolazione
Primavera del 2002. Otto ore di volo e sono a Binghamton, a duecentocinquanta chilometri da New York. Una cittadina di provincia di cinquantamila abitanti costruita su una piana arida, un campus universitario, un Holiday Inn, due fiumi che la attraversano, un centro storico introvabile, quartieri popolati da graziose casette in falso legno con i giardini ordinati, i barbecues, le auto parcheggiate, tre centri commerciali immensi: tre cittadine di provincia all’interno di una cittadina di provincia che rappresentano le maggiori attrazioni per coloro che vengono da un altro continente. Da quello che mi dicono, questi sono gli Stati Uniti: migliaia di cittadine di provincia, tutte uguali, disseminate in un paesaggio molto variegato. È qui, a Binghamton, che ho scoperto concretamente l’assenza di frontiera tra bellezza e desolazione che il romanzo di Sylvie mi aveva svelato.
Improvvisamente, mi sono sentito liberato dal peso della Storia, cacciato da una forza naturale dalla casa del passato, pieno di energia e libero di scorazzare per il Nuovo Mondo come un “animale razionale”, privo di ogni preoccupazione rispetto al luogo dove abitare, appurata l’intercambiabilità di bellezza e desolazione.
Quello che avevo vissuto a Parigi nel 1994 era la condizione del dopo-esilio, o meglio: la banalità e l’insignificanza, in un mondo di luoghi intercambiabili, di un esilio volontario. Ero d’accordo con Vera Linhartová: “La nostra aspirazione verso la pienezza, qualunque sia il modo in cui essa si realizzi, non comporterebbe in nessun caso dei ritorni indietro”. Per qualcuno che aspira alla pienezza, il problema del luogo dove abitare è trascurabile, il problema dell’esilio privo di senso. Ma la domanda di bellezza?
Qui, in questa cittadina di provincia degli Stati Uniti, ho pensato allora ai miei allievi, giovani profeti muti di un “presente unico e definitivo”, incapaci di rivolgere le loro teste all’indietro, lontani, lontanissimi dall’Inferno di Dante, cacciati dalla casa del passato, esiliati per sempre in questa land of disgrace, in questo Mondo Nuovo dove nessuno potrà mostrare loro la frontiera tra desolazione e bellezza: Die Schönlosigkeit wird ein Weltschicksal.
E nel silenzio di questa piana arida, ho guardato con tenerezza alle loro esistenze, e al mio continente.