Vado a Teora per un convegno organizzato da Rifondazione comunista. Il partito in provincia di Avellino da poco è guidato da un giovane e volenteroso segretario che ha meno di trent’anni e questa è una delle poche novità della politica irpina. Pare che nelle prossime elezioni si candideranno le stesse persone che si candidarono nel 1976. Sono passati trent’anni. Stiamo tutti in un altro mondo, ma la classe dirigenteè la stessa. Non penso a queste cose andando verso Teora. In questo paese sono rimasti in pochi, ma non sono esangui. Io esco per riattivare lo sguardo. Per questo nessun posto è inutile e non ha senso dividere i luoghi in belli e brutti, banali e interessanti. Tutto il mondo esterno è una meraviglia se pensiamo che ci sarà un giorno in cui non potremo vedere più niente. Oggi è uno di quei tipici giorni irpini con le nuvole per terra. Mi fermo a Conza a fotografare un monumento da poco inaugurato. Piove sulla neve. Sono le tre del pomeriggio e la luce cala a precipizio. Mi sposto verso Sant’Andrea. Altro paese, altro silenzio. Nessuno in giro. Prima si vedeva gente in giro anche quando il tempo era brutto. Adesso le case sono calde e comode. E dentro c’è il televisore per i vecchi e per i bambini. C’è il computer per i giovani. Dentro il bar c’è sempre qualcuno che non sta bene. Non ho voglia di ascoltare nessuno per il momento. Accendo la videocamera che porto sempre appresso. Filmo la facciata del seminario e un campanile perfettamente fallico. Il vento mi butta la pioggia in faccia, mi avvio verso Teora. Passo per la sella di Conza. Qui siamo sul confine tra la provincia di Avellino e quella di Salerno. E anche la Lucania è assai vicina. Arrivo a Teora ed è subito notte. Sono nella parte alta del paese. Sotto di me, sotto la pioggia nera, ci sono palazzine che dall’alto sembrano dei tir senza
la motrice. Potrebbe essere qualunque luogo del mondo. Ma io sento che qui c’è ancora un odore, è l’odore pungente dell’Irpinia d’oriente. La silenziosa combustione dello sconforto che s’insinua nel fondo delle ossa.
Cammino in quello che una volta era il centro storico. C’è una casa che ha un’ampia vetrata. Sembra un circolo. Mi affaccio. Dentro ci sono due anziani. Mi fanno cenno di entrare. Dico che sono qui per il convegno. Il padrone di casa comincia a parlare. Ha una bella lingua spigliata. Mi parla dei sindaci del paese. La sua cadenza mi piace. Sono lo spettatore di una recita a cui ho assistito tante volte. Il signore mi dice che è democristiano. Elogia De Mita. Parla male dei tecnici, dice che si sono presi un sacco di soldi per fare le case. Solite storie. In questa zona ci sono un centinaio di appartamenti e abitano solo una decina di famiglie. Uscendo fuori il mio interlocutore mi dice che la notte del terremoto ha perso la madre, la moglie e la figlia. Qui la mia attenzione si ravviva. Mi faccio raccontare com’è successo.
Stavano sul divano. Tutta la famiglia era lì a smaltire la sottile inquietudine della domenica. La casa è crollata. Lui si è trovato davanti al figlio maschio. Lo ha riparato. Durante tutta la notte sono rimasti sotto. La bambina non la sentivano. Lui e il figlio li hanno tirati fuori al mattino. Poi è uscita anche la moglie. È uscita viva. Mentre la portavano al campo sportivo il vento le ha sollevato la gonna e lei se l’è sistemata con le sua mani. L’hanno portata a Napoli. Sembrava che non stesse tanto male. Il giorno dopo è morta. Intanto avevano tirato fuori dalle macerie anche la figlia di dieci anni. Ascolto questa storia mentre siamo fermi nella mia macchina davanti al cinema dove ci sarà il convegno. Il padre dice che guardava la figlia e sperava che non fosse morta. Aveva rovesciato il coperchio della bara e ci aveva messo la figlia sopra. Io ascolto, sento che non riuscirò a dimenticare questa storia, ma il peggio deve ancora venire. Il signor Francesco alcuni anni dopo il terremoto si risposa e dal nuovo matrimonio nascono due figli. La notte di Natale del 2001 la sua bambina di dieci anni sale di corsa le scale per andare a posare una statuina sul presepe. Non arriva al presepe. Muore sulle scale. A suo tempo avevo letto questa storia sui giornali locali. Mi aveva emozionato e poi era andata via dalla mia mente. Adesso ha un leggero tremore. Faccio qualche domanda al mio interlocutore e il filo delle disgrazie si allunga. Torniamo indietro. Il signor Francesco aveva un padre di quarantotto anni che aveva preso un grande spavento in Albania durante la guerra. Una sera del 1953 uscì di casa e morì per in infarto. Qualche anno dopo al signor Francesco muore per malattia anche il fratello che studiava all’università. So bene che su questi argomenti nessuno mente, altrimenti il tutto potrebbe sembrare incredibile. Esprimo la mia ammirazione per lo spirito con cui ha affrontato tutte queste disavventure. Sono preoccupato per la sua salute. Lui mi dice che ha il diabete ma il cuore è buono.
Guardo l’orologio, il convegno forse sta per iniziare. Usciamo dalla macchina. Mi pare di aver parlato con la reincarnazione di Giobbe. Ho la mente in bilico su un baratro metafisico, ma l’ingresso nel cinema mi riporta alla piccola palude dei nostri giorni dove zampettiamo cercando senza fortuna un punto pulito e asciutto. Alcune persone mi salutano. Dicono che ho una faccia diversa da quella che avevo qualche anno fa. Lo so, la mia faccia cambia di anno in anno. Anche questa è una storia strana. La faccia se ne va per conto suo, prende una forma che non controlliamo.
Salgo sul palco col cuore che batte in disordine. Cominciano le parole. Siamo una decina. Ma i primi tre parlano per quaranta minuti. Giustamente uno dei relatori invita a contenere gli interventi. In questi incontri sono sempre breve. Rispetto la consegna, parlo per cinque minuti. Dopo di me altri sei relatori. Tutti cominciano dicendo che saranno brevi. Tutti parleranno per non meno di venti minuti. Sono impressionato da questo più che dalle cose che dicono. Mi sembra un’altra prova dell’autismo chiassoso in cui siamo caduti. Come è possibile che gente stimata e stimabile non sia neanche capace di rispettare il proposito appena dichiarato di parlare per poco? Loro parlano degli imbrogli e degli errori compiuti nel dopo terremoto. Dicono cose quasi sempre condivisibili. Lo fanno con un tono e con una lingua che non mi arrivano. Il discorso del signor Franco dilagava nel mio corpo e questi discorsi invece restano nell’aria, il mio corpo non li accoglie, li respinge come se fossero un cibo di cui sono già sazio. Per fortuna l’ultimo intervento salva tutto. Parla una persona di grande qualità, parla per poco e finisce con un richiamo alla responsabilità individuale. Ha un tono e una lingua che sento bene. Il mio corpo si riapre. Guardo in sala il figlio del signor Francesco. Ha un’aria onesta e mite. Sulla sua faccia vedo l’Irpinia che mi piace.