“[…] era detto per nome Marcovaldo,
venuto dalle parti di Murrocco,
di gran prodezza e di giudicio saldo”“[…] cavalcava una alfana smisurata
di pel morello, e stella aveva in fronte”Luigi Pulci, Morgante, XII
Marcovaldo era un tipo tranquillo. Il suo unico, irrimediabile errore fu quello di essersi innamorato di Chiarella, la figlia del governatore di Persia, per possedere la quale aveva assediato la città con altri saraceni. Stava pacificamente giocando a scacchi nel suo padiglione “ch’era tutto di cuoio di serpente”, arredato con Maometti d’oro, diamanti e diverse varietà di rubini, quando all’improvviso vede un cavaliere che lo fissa insistentemente. È Orlando. Il cavaliere cristiano, sbrigativo e determinato come al solito, fa fuori sette sgherri del gigante Marcovaldo, poi, dopo avergli trapassato scudo e corazza, gli taglia una mano che cade a terra stringendo ancora la spada. Prima di morire, il gigante, forse ammirato del valore di Orlando, si converte alla religione cristiana.
Sembrava non si dovesse più sentir parlare di lui ma, si sa, i personaggi dei poemi hanno sette vite come i gatti, e certuni anche qualcuna di più. Altrimenti non si spiegherebbe perché restano in vita così tanto, passando di poema in poema, cambiando armatura, cavallo, spada, lancia, carattere, come se non fossero che superflui e provvisori accessori della loro interminabile avventura, “maschere” e travestimenti di flussi d’energia pronti a prendere la forma che la circostanza impone.
Ma i tempi sono cambiati, e quando Marcovaldo torna in esistenza, è costretto a lavorare come manovale (a quanto pare la sua leggendaria forza perlomeno gli è ancora utile) in una ditta dal nome disgustoso: SBAV. Oramai ha messo la testa a posto: ha una moglie e anche dei figli. Continua però a lasciarsi prendere da strane fantasie e ad abbandonarsi ad alcune bizzarre intuizioni, cercando una natura che non c’è più, o si è trasformata in uno scherzo maligno. I conigli, cavie da laboratorio gonfie di siero velenoso, si lanciano nel vuoto dall’alto dei tetti. I funghi dall’aspetto più promettente sono in realtà velenosissimi, e ovunque si diffonde il fumo e la nebbia che non lasciano immaginare e pensare.
Riprendendo la “maschera” del gigante pulciano, Calvino, nella raccolta di racconti dal titolo omonimo, ne fa un moderno antieroe, buffo talvolta come Buster Keaton, triste e alienato come un certo Chaplin.
Quando ho scoperto, leggendo il Morgante, che il manovale di Calvino prendeva il nome di un eroe pagano, ho avvertito la presenza di una corrente sotterranea, ancora vitale e fonte di stimoli teorici e narrativi, che legava due tradizioni, quella del romanzo moderno e quella del romanzo cavalleresco.
Ho scoperto dunque un gruppo di scrittori (Calvino, Celati, Cavazzoni, Scabia, ma è un elenco che potrebbe ampliarsi) nei quali il rapporto con le storie “d’armi e d’amori” era particolarmente vivo.
Più che sui richiami “tematici” (la ripresa/reintepretazione di personaggi ed episodi dei poemi) mi sembra utile soffermarmi sull’aspetto “pratico” della questione. Ovvero, in che modo questi quattro autori hanno deciso di confrontarsi con la tradizione dei poemi cavallereschi, intesa come insieme di tecniche narrative e di modi di trasmissione?
Alcuni hanno deciso di confrontarsi direttamente con il testo del poema, cimentandosi in riscritture in prosa, dietro le quali non è difficile intravedere aderenze e divergenze poetiche (come Calvino e Celati). Altri hanno preferito mascherarsi dietro immaginose prefazioni (come Cavazzoni). Altri ancora hanno fatto del prototipo cavalleresco un veicolo fondamentale della propria poetica, costringendolo però a ininterrotte metamorfosi e dilatazioni di senso (è il caso di Giuliano Scabia ).
Italo Calvino è stato il primo (nel 1968) a confrontarsi da narratore, non da critico o da esegeta, con un poema: l’Orlando Furioso. Sua è l’idea di raccontare in prosa i poemi cavallereschi italiani, nell’intento di fare esercizio narrativo e di confrontarsi con una tradizione. La proposta venne raccolta, due anni più tardi, anche da Alfredo Giulia ni, che si cimentò con la Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso.
Le loro versioni hanno la medesima impostazione: un apparato in prosa, nel quale vengono parafrasate e commentate le vicende, e un apparato in poesia, costituito dal testo del poema, alternato all’interno della versione. Il poema non viene commentato nella sua interezza. Gli autori scelgono alcuni episodi significativi in base ad affinità poetiche e linguistiche, inserendoli in una progressione logico-temporale lineare. In chiusura del lavoro sia Giulia ni che Calvino collocano un apparato di note. Le versioni dei due autori risentono per così dire di un approccio “scolastico”, “divulgativo”. Non sono vere e proprie riscritture. Qualche volta Calvino si concede delle libertà (peraltro significative) o accentua spetti e implicazioni di alcuni passi (in un inevitabile cortocircuito fra poetiche antiche e moderne). In altre parole, il risultato è che ci si trova di fronte a una scelta commentata di un testo, come accade nelle antologie. Ciò che rimane è la straordinaria abilità narrativa di Calvino, capace, con la sua prosa agile e scattante, di star dietro alla velocità dei trapassi ariosteschi.
Il rapporto con la tradizione cavalleresca appare in Calvino circoscritto a quello col poema di Ariosto, ritenuto l’apice artistico, il risultato di una serie di “prove precedenti”, irrisolte o imperfette.
Nell’Introduzione al suo commento-versione, Calvino rende conto dei poemi che ne costituiscono i precedenti letterari, ma non resiste alla tentazione di isolare il testo. Il suo excursus dalla Chanson de Roland allaletteratura franco-veneta, fino ai cantari in prosa di Andrea di Barberino e ai poemi di Pulci e Boiardo, si presenta come un dovere critico da espletare, al termine del quale è possibile finalmente godere il testo del Furioso, considerato come elemento a sé stante: “Il Furioso […] può – anzi direi deve – esser letto senza far riferimento a nessun libro precedente o seguente”.
Il rapporto con la tradizione, in Calvino, è veicolato dal testo, è il rapporto con una materia letteraria. È con il testo che l’autore instaura il suo confronto attivo, stabilendo affinità e distanze, ricavando sollecitazioni per dar luogo ad altri testi. L’Orlando Furioso suggerisce due episodi del Castello dei destini incrociati, accanto al Parsifal, ad Amleto e a Macbeth, mentre Le città invisibili si sviluppano sulla “traccia” narrativa lasciata dal Milione di Marco Polo.
Su una posizione non lontana si attesta la poetica di Cavazzoni, ben evidenziata dall’Introduzione a un’edizione del Morgante di Luigi Pulci da lui stesso curata nel 2000. L’autore trova nella tecnica narrativa di Pulci, il quale ha costruito la linea narrativa del suo poema seguendo la traccia di fonti preesistenti (in particolare, l’Orlando), una indiretta giustificazione ed esposizione della propria poetica:
Pulci si mette nella condizione lavorativa del copista, che copia con la noncuranza dell’impiegato statale un testo altrui del quale non è responsabile. Ma si trova poi ad essere un copista che scalpita talmente copiando, che è talmente punto dall’estro, dall’estemporanea mattana e dall’impazienza per la pagina da trascrivere, che alla fine ne risulta un testo molto diverso, tanto diverso da essere nuovo […] Ma bisognerebbe dire che l’ostinazione delle letterature a dichiararsi solo trascrizioni di manoscritti altrui ritrovati, ha a che fare col desiderio di irresponsabilità e di occultamento della paternità legale, ha a che fare con la vergogna dell’inventar frottole, e forse è un necessario espediente per il riequilibrio della chimica psichica.
Allo stesso modo infatti, Cavazzoni sviluppa la sue narrazioni sorretto da palinsesti: la Legenda aurea di Jacopo da Varagine per le sue libere traduzioni Le Leggende dei Santi, le cartelle cliniche di malati mentali per le Vite brevi di idioti, il Cuore di De Amicis come pretesto per l’esercizio oulipiano I Sette cuori.
La letteratura, come e forse ancora più che in Calvino, attinge a se stessa, rivisita i suoi miti e le sue leggende, ma sono sempre leggende “scritte”, testi.
Forse, più che a uno spunto tematico, bisognerebbe pensare a una ricerca che si rivolge internamente alla meccanica dell’immaginazione di questi testi, alla matematica immaginativa che li guida e che forse in altre occasioni, con gli stessi autori, avrebbe potuto produrre altri risultati. È proprio entrando dentro di essi, non osservandoli dall’esterno come farebbe un critico, che è possibile venire a contatto con l’energia che li guida, carpirne, almeno in parte, i segreti. Porsi nella stessa prospettiva di un apprendista falegname che per acquisire le abilità necessarie ha bisogno di passare attraverso gli stessi gesti del suo maestro, faticandone il ritmo, la logica interna. In questo senso, dunque, la dinamica immaginativa di un testo è il testo stesso. Così, quasi di conseguenza, entrando con una fenomenologia semiseria nella genesi e nelle abitudini dei giganti pulciani Morgante e Margutte, anche la macchina immaginativa di Cavazzoni si attiva dando luogo, nell’Introduzione, a un altro di quegli esercizi di etnologia fantastica presenti nelle sue opere.
Analogamente, Calvino, nella postfazione al Castello dei destini incrociati (uscito negli anni stessi anni del commento ariostesco), suggerirà una simmetria fra l’arte narrativa di Ariosto, che rimescola i personaggi come fossero carte per poi dar luogo a una nuova partita-storia, e gli esperimenti di narrativa combinatoria da lui compiuti ispirandosi ai tarocchi di Bonifacio Bembo.
Quando, oltre vent’anni dopo la versione di Calvino, Gianni Celati deciderà di confrontarsi con l’Orlando Innamorato di Boiardo, la sua operazione avrà caratteristiche diverse. L’autore sceglie di raccontare in prosa tutto il testo del poema, senza citazioni in ottave dall’originale. Elimina le note, e affida a un commento incorporato al testo il compito di fornire al lettore le informazioni che ritiene necessarie. Tali informazioni vengono inserite in maniera fluida e mimetica nel dipanarsi dell’intreccio, in modo che il lettore venga istruito senza avvedersene. Solo chi ha letto l’Orlando Innamorato può accorgersi che certi riferimenti non provengono da Boiardo, ma da Celati: come accade ad esempio quando, per render conto delle prime apparizioni della Fata Morgana , Celati rimanda all’Ogieri il Danese. Nella sua versione infatti l’autore aggiunge tutta una serie di rimandi ad altri poemi precedenti la stesura dell’Innamorato, facendo comprendere come esso viva, proprio nel suo farsi, nel suo proporsi come riscrittura e reinvenzione di stereotipi più o meno consolidati, di un inscindibile rapporto con la tradizione che l’ha preceduto.
Celati stesso non ha un atteggiamento molto diverso da quello intrattenuto da Boiardo con i “poemi” popolari recitati e cantati dai cantimbanchi nelle piazze. In tempi in cui le “fole di romanzi” erano mal viste e derise dagli umanisti, Boiardo si volge a una tradizione “povera” ma viva nell’immaginario popolare, e la vivifica con una serie di inserti lirici, mitologici, pastorali, accogliendone anche e potenziandone le risorse stilistiche, come il continuo ammicco al pubblico e l’accento posto sul carattere emotivo e “soggettivo” della narrazione. La complicità è cioè ricercata non tanto mediante la descrizione di eventi, ma attraverso la descrizione degli effetti che inducono nel narratore. Questo narratore “radiocronista” che si fa teatralmente partecipe delle vicende narrate, e guida il lettore all’interno della storia con una serie di mosse cerimoniali, si trova secondo Celati agli antipodi di molte opere moderne. In esse, afferma lo scrittore, si ha la tendenza a precipitare il lettore, senza preamboli o introduzioni, in una situazione di emergenza. A questo atteggiamento di indifferenza nei confronti dell’Altro che ascolta o legge, si aggiunge l’uso di una lingua secca e neutra, che vorrebbe richiamarsi a una presunta oggettività, ispirato a criteri estetici, sociologici o ideologici. La parte dell’Altro che è oggetto di una sorta di trasferimento di informazioni è quella astrattamente razionale, l’Altro viene visto come un magazzino da riempire o ordinare, abbandonato alla violenza di una forzata oggettività dei fatti, costretto a piegarsi all’introduzione di dati di ogni tipo, senza la mediazione di una voce, carnea, concreta, che riconduca in una prospettiva umana.
Non è un caso che Celati si sia soffermato sulle tecniche tipografiche adottate da Céline per rendere la componente spettacolare e partecipativa del parlato. Né che si sia, nel suo saggio Finzioni occidentali, soffermato sul narratore messo in campo da Beckett, il quale “non rinuncia a nessuna indiscrezione e a nessun effetto, anche tra i più screditati, per coinvolgerci nelle incontinenze verbali e nella gesticolazione dello scriba che si esibisce davanti a noi”.
Si tratta in entrambi i casi di un’immersione nella tradizione, nella quale il rapporto con l’altro, inteso come “fonte del mio parlare”, ha un’importanza fondamentale.
La tradizione per Celati si estende dunque al di là e attorno al testo. Essa non è solo “il prodotto finito”, ma l’insieme delle pratiche artigianali, ovvero dei mezzi che nel corso dei secoli si sono specificati e affinati come i migliori per introdurre e dar luogo a un racconto.
Giuliano Scabia è sicuramente l’autore che ha saputo raccogliere più di tutti la pluralità di stimoli che offre il cosmo cavalleresco, portandolo addirittura a un’ulteriore apertura e dilatazione, arricchendone la “tradizione”. Questo è particolarmente vero negli anni Settanta, quando, col suo Teatro Vagante, Scabia mette in scena degli spettacoli in cui si assiste a un rovesciamento delle tradizionali qualità attribuite ad alcuni archetipi cavallereschi come il Drago, il Cavaliere, l’Uomo Selvatico, il Cavallo.
In Forse un Drago nascerà, un’azione teatrale che vede coinvolti studenti di scuole elementari e medie, vediamo un Drago che diventa elemento positivo e protettivo. I ragazzi, dopo essere stati coinvolti in attività che liberano e mettono alla prova la loro creatività e le loro capacità critiche, e una volta consolidati come gruppo, escono per le vie della loro città sotto il lungo tendone del Drago, scontrandosi con Scabia-Cavaliere, che diventa dunque in questo caso elemento negativo, nemico con cui scontrarsi.
Nel racconto-azione collettiva Il Gorilla Quadrumano, centrale è invece la figura di un Gorilla, probabile trasfigurazione popolare dell’Uomo Selvatico, che nei poemi di Boiardo e Pulci assume una connotazione negativa o al massimo suscita fantasie grottesche, a diventare una figura mediatrice fra lo stato di natura e lo stato civile, fiera e consapevole della propria alterità. Un elemento dunque positivo.
Nell’ultima azione a partecipazione che coinvolge i malati dell’ospedale psichiatrico di Trieste si vede invece la figura di un enorme cavallo azzurro di cartapesta diventare l’elemento protettore e catalizzatore delle ansie e dei bisogni della piccola, temporanea comunità che si forma attorno ad esso.
Ma è l’idea allargata di poema che guida queste azioni ad essere l’elemento più interessante.
Scabia si rifà, piuttosto che al modello narrativo, inteso come composizione di ottave rimate ab ab ab cc, che narra vicende amorose o guerresche, alla struttura archetipica, alla necessità che sta alla base dell’idea di poema. Esso è infatti inteso come momento fondante di una comunità, articolazione scritta della memoria collettiva, in un continuo gioco di rispecchiamento fra il momento riflessivo, costituito dalla scrittura-racconto dell’esperienza in atto, e il momento dell’azione e dell’interazione fra le persone.
Il poema non è qui il prodotto di un singolo ingegno, anche se nutrito della tradizione che lo circonda e precede, ma piuttosto un sogno di canto, un desiderio di comunità, e i testi scritti che Scabia ha stilato, talvolta da solo talvolta in gruppo, documentando queste esperienze, sono la storia “epica” di queste comunità.
Epica è la volontà di superare le difficoltà comunicative, di ritrovarsi, attraverso esperienze concrete come la costruzione di un cavallo, il disegno, il canto, su un territorio immaginativo comune, costruito giorno dopo giorno, con il corpo e con la mente.
Draghi, cavalli, giganti sono le grandi immagini dei poemi che Scabia evoca e ascolta, forze misteriose e potenti che parlano del desiderio di libertà e di autenticità. Esse escono dall’universo cartaceo per portare le loro fertili scorribande nei manicomi, nelle scuole, nei boschi, nelle periferie industriali, vestendo nuove maschere, adeguandosi un po’ alle circostanze, ma sempre portando con sé la memoria di un mondo vivo di inesauribili mutazioni, espressione non mediata dell’intensità e dell’irripetibilità dell’esperienza umana.
Le loro apparizioni riconfigurano lo spazio esterno, aprono la possibilità a un nuovo immaginare e sentire. Si presentano come uno “schermo” nuovo, più largo, più profondo, nel quale proiettare la radicalità degli istinti e dei bisogni.
Forse il Marcovaldo di Calvino non può fare a meno di commettere gli stessi errori, di incaponirsi a vedere e sentire un mondo diverso da quello che lo circonda, esponendosi al ridicolo, proprio perché è questa energia, più forte di lui, che lo sospinge in avanti. Forza misteriosa e poco conciliante, che ha forse nei giganti, più che nei cavalieri o nei draghi, i suoi più fidati messaggeri.