La grande tradizione del sapere letterario e filosofico è giunta davvero al capolinea? La letteratura, come invenzione di mondi, meditazione sull’esistente e sull’impossibile, conoscenza e interpretazione del reale, dei suoi limiti, della sua parte nascosta e invisibile, è ancora possibile? C’è ancora posto per i classici, in un mondo in cui il sapere è prevalentemente sapere pratico della tecnica, il gusto è omologato ai consumi imposti dal mercato, il piacere della lettura non è più dialogo intimo con l’autore ma solo adeguazione alle mode? L’educazione ha ormai rinunciato al compito di trasmettere sapere e passione del sapere, immaginazione e rischio, abitudine alla scrittura e all’invenzione? La cultura di massa, che insegue, guidata dalla mercantile magia della televisione, tutte le forme facili e approssimative d’ascolto e di visione, di linguaggio e di comunicazione, può convivere con la presenza della tradizione culturale alta, con la grande poesia del passato, con le straordinarie narrazioni, con il teatro di pensiero? Queste domande trascorrono nelle incisive e caldissime riflessioni che Georges Steiner, straordinario saggista e scrittore, ha modo di dispiegare lungo una bella e anche tesa intervista con il francese Antoine Spire. Ne è nato un bellissimo libro, La barbarie dell’ignoranza, uscito dalle edizioni Nottetempo (traduzione di A. Cariolato).Un dialogo-intervista che diventa un racconto appassionato, lungo il quale il giudizio critico si intreccia con lo sguardo autobiografico, la presa di posizione netta e austera si coniuga con la grande apertura verso tutto ciò che è umano, solidale, non violento, in accordo con la vita delle cose e delle persone. Un’amarezza per la miseria del tempo che non spegne il vento di un’altra storia, forse impossibile, ma la cui linea, la cui attesa, al di là di ogni messianismo, val la pena di tracciare. Steiner è un grande critico: il suo pessimismo non è mai gelido, il suo senso della decadenza sopravvenuta non è mai chiusura astratta e supponenza intellettuale. Chi ha avuto occasione di conoscerlo e frequentarlo, come il sottoscritto, sa quanto coinvolgente sia la sua passione intellettuale, quanto sorprendente e vitale sia la sua erudizione e gentile e premurosa la sua attenzione all’interlocutore. Alcuni suoi libri, come Morte della tragedia o Dopo Babele, un classico degli studi sulla traduzione, o Le Antigoni sono entrati nella nostra cultura lasciando più di un segno. Eppure, un libro di grande finezza e profondità come Vere presenze (1992) ha trovato resistenze e destato diffidenze in quei nostri critici della letteratura che sentono puzza di spiritualismo o di ermetismo o di religiosità ogni volta che si parla del rapporto con un testo come un rapporto vivente, ogni volta che si vive l’interpretazione come un fatto che ha a che fare con l’esistenza, con il sé di colui che interpreta. Questi critici, lontanissimi da Steiner, pensano il classico, e in genere il testo, non come il tempo-spazio di un dialogo, di un incontro profondo, ma come un terreno da arare, dissodare, classificare, definire, valutare, disporre nell’ordine della storia letteraria, nella sua borsa-valori. L’assenza della tradizione ermeneutica nella nostra critica, la separazione tra filosofia e letteratura, l’abitudine all’allineamento su un metodo, motivano questo atteggiamento.
Tornando al libro-intervista di Steiner, in esso sono affrontate alcune delle grandi questioni della cultura contemporanea. A partire dall’ebraismo, dalla distinzione tra la sua ricchezza culturale vissuta nella diaspora e il suo ripiegamento politico-statuale, che con lo Stato di Israele ha finito con adottare una violenza estranea alla grande tradizione intellettuale di un popolo. Steiner, che pure ha scritto e meditato sulla storia dell’ebraismo, sui pogrom e i massacri subiti nella storia ebraica, è un ebreo della specie dei Jabès: tiene ferma la distinzione tra la memoria ebraica, che è memoria di sofferenza e di cultura, e la prassi ambigua e di potere propria dello Stato d’Israele. Gli ebrei, egli dice, questi “invitati della vita”, questi “ospiti”, hanno un compito, una vocazione: “lasciare la casa in cui si è invitati un po’ più ricca, un po’ più umana, un po’ più giusta, un po’ più bella di come la si è trovata”. E aggiunge: “essere sempre i pellegrini del possibile”. Pellegrini del possibile. Una definizione bellissima, che mi ricorda alcuni tra i folgoranti passaggi della meditazione di Edmond Jabès sull’essere straniero, sull’esilio, sull’ospitalità.
L’altra grande questione è il rapporto tra l’orrore delle stragi che il secolo passato ha vissuto (e quello appena cominciato continua a vivere) e la presenza simultanea della cultura, dell’arte. Che cosa ha potuto, che cosa può l’arte contro la barbarie del potere? Nel mezzo di una civiltà raffinata e colta, tra il 1914 e il 1945 muoiono in Europa, in battaglia, per fame, deportazione, torture, nei campi della morte e nei forni crematori, settanta milioni di persone. La domanda di Steiner è: “Perché le scienze umane nel senso più ampio della parola, perché la ragione non ci ha fornito alcuna protezione di fronte all’inumano?”. E ancora: “Perché… si può suonare Schubert la sera e andare a fare il proprio dovere in un campo di concentramento il mattino ? Né la letteratura né l’arte hanno potuto impedire la barbarie totale”. Anzi spesso sono state “l’ornamento di questa barbarie”. Un drammatico interrogarsi che da sempre ha ossessionato Steiner. Un interrogarsi che non diviene, però, assenza di fiducia nell’umanesimo, nella sua residua capacità di creare rapporti sostenibili, senso critico, intelligenza del mondo.
Tra le altre questioni affrontate nel vivo del dialogo, e sotto l’incalzare anche polemico dell’intervistatore, il caso Heidegger. Sul filosofo Steiner scrisse un libro, tradotto anche in italiano (1990). Di fronte a coloro che tendono a invalidare, o sminuire o condannare il pensiero di Heidegger a partire dall’adesione temporanea epperò mai sconfessata del filosofo al nazismo, Steiner reagisce separando, come lo stesso Gadamer suggeriva, la grandezza del filosofo dalla miseria dell’uomo. E invoca i tanti che del pensiero di Heidegger si sono alimentati, da Hannah Arendt a Marcuse, da Sartre a Lévinas. Steiner arriva a dire: “Non vi sarebbe Celan senza il linguaggio di Heidegger”. Posizione molto nitida, che val la pena di ribadire, anche nei confronti di coloro che in Italia mettono tra parentesi volentieri la profondità del pensiero di Heidegger motivando il loro atteggiamento con la compromissione del filosofo. È la storia, ben vecchia, del pregiudizio “politico” che impedisce di attraversare liberamente le acque lontane dal proprio abitato: è quel che è accaduto con Céline e prima ancora con Nietzsche.
Un altro campo dove Steiner gioca una straordinaria passione difensiva è quello delle lingue. Delle lingue che, come le specie della natura, animali e piante, si vanno estinguendo. Oggi, la singolarità e pluralità delle lingue è minacciata dal dominio mercantile di una sola lingua, la lingua anglo-americana, lingua che, separata dalla sua letteratura, diventa lingua commerciale e di comunicazione, invasiva e povera di invenzione, insomma diventa pura lingua strumentale, via via sempre più stereotipata. La difesa delle singole lingue per Steiner procede di pari passo con la valorizzazione della traduzione. Tradurre è un atto di relazione con l’altro. Pratica, mi permetto di aggiungere, e allo stesso tempo metafora del rapporto con l’altro, esercizio di conoscenza dell’altro, forma di ospitalità, e allo stesso tempo mezzo di conoscenza e di arricchimento di sé, della propria stessa lingua.
Qua e là, nel corso del dialogo l’intervistatore sospinge Steiner verso la linea di un elitarismo che guarda dall’alto la cultura di massa e i fenomeni culturali odierni. Ma per Steiner è inappropriata la parola elitarismo. Si tratta piuttosto di una fedeltà alla storia della propria formazione, dei propri incontri decisivi, della propria ricchissima biblioteca (degli antichi e dei moderni).
Se tra una fuga di Bach e una musica heavy metal Steiner sceglie la prima, lo fa, certo, perché la scelta di Bach è in accordo con la storia della sua formazione mitteleuropea e classica. Ma lo fa anche perché da una parte c’è una sapienza formale che risponde a un’immagine particolare dell’arte, dall’altra c’è un’esperienza all’incrocio tra la costruzione musicale e il costume gridato di una generazione di giovani. Chi può dargli torto nella scelta di Bach? Non certo il recensore di questo libro dal piglio ardente e giovanile.