Che il paesaggio svizzero possa somigliare a un’illustrazione non è solo un luogo comune. Arrivando dall’Italia, e lasciandosi alle spalle la caligine dell’estate, mentre salivamo per il passo del Bernina tutto appariva più nitido, ben disegnato e distinto: le casette sui pianori, la ferrovia che s’arrampica sul passo, le nuvole bianche nell’azzurro. E anche i prati e i boschi erano tutti ben curati, come se un giardiniere fosse riuscito a disegnare anche la natura più impervia.
C’è sempre un piacere infantile nel vedere le cose ben descritte: sembra di entrare nell’illustrazione didascalica di un libro per bambini, in un’immagine creata per imparare la nomenclatura di qualcosa, più che per raffigurare il mondo così com’è. In effetti le immagini didascaliche non vogliono rievocare alcuna realtà tangibile, percepibile, ma solo illustrare un mondo ideale. Fra l’altro sul Bernina, coi vagoni rossi del treno che salgono fino al passo, il paesaggio diventa per forza quello del trenino elettrico, che appare finalmente in scala naturale, il modello originario di un’immaginazione infantile. Qualcosa di intimo ma anche lontano, ormai irraggiungibile.
E l’effetto plastico-del-trenino, o illustrazione “enciclopedica” per imparare da cosa è composto il mondo, quest’effetto mi ha accompagnato per un po’ anche alla fattoria di Gori e Seraina, che ci hanno ospitato i giorni che siamo stati a Samedan, nel cuore dell’Engadina.
Gori e Seraina hanno deciso di fare i contadini dopo i quarant’anni, e adesso abitano con le figlie in una fattoria che è un casone grande ben tenuto, costruito più o meno un secolo fa, dove convivono insieme a cani, gatti capre, mucche, cavalli, galli, galline, anche un pavone e una pecora, tutti insieme ma ognuno al proprio posto, proprio come dev’essere una fattoria quando si imparano da bambini i nomi degli animali. C’era naturalmente anche il recinto per i cavalli, la stalla per le capre e le mucche, il pavone che faceva la ruota sul tetto del pollaio. E di sera il tappeto dove si stendeva il cane, quando rimanevo a giocare a scacchi con Gori.
La fattoria di Gori e Seraina è ai margini di un grande pianoro che si perde nel piccolo aeroporto di St. Moritz, coi pascoli e le piste di decollo che si succedono senza soluzione di continuità. L’aeroporto non è neppure recintato e per far prima, la sera, quando tornavamo alla fattoria tagliavamo in macchina su per le piste. Infatti col buio le piste dell’aeroporto diventano delle comode scorciatoie stradali, aerei e alianti non girano più, l’aeroporto non è attrezzato per la notte. E di giorno, anche se atterrava un jet, le mucche continuavano a brucare tranquille, lì a due passi, sicure del loro spazio in quel mondo così ordinato.
Non sempre la sensazione di essere dentro un’illustrazione crea un’estraneità piacevole, sognante e infantile. Ad esempio non era così quando abbiamo costeggiato il lago di St. Moritz che era pieno di vele da windsurf, l’acqua verde e il cielo azzurro, le montagne che si specchiano sull’acqua. Ricordo che dei ciclisti, che a piccoli gruppi percorrevano il lago, erano vestiti di tutto punto con le maglie che sembravano perfino lucidate. Ed era come se anche la natura si fosse messa l’abito della festa, e per potervi accedere pareva necessario un invito, o l’appartenenza a qualche club esclusivo.
Così abbiamo accolto con sollievo le nuvole sul passo del Maloja, dopo aver attraversato tutto il Lago di St. Moritz per andare a cercare dov’era nato e sepolto Alberto Giacometti. Finalmente sul Maloja eravamo tornati in uno spazio aperto, seppure offuscato dalle nubi, dove nel paesaggio si confondevano quei pochi che c’erano e che apparivano più fragili e perplessi, infreddoliti, mentre si fermavano a guardar giù, per indovinare fra le nuvole i tornanti che scendono a precipizio nella Val Bregaglia. Che la strada scendesse come un fulmine lo si vedeva meglio nelle cartoline al chiosco, in effetti da lassù non si vedeva un granché. Ma dopo lo sfolgorìo del Lago di st. Moritz, le nubi che cancellavano le cose, e una luce grigia, che spegneva i colori, ci facevano appunto uscire da una cartolina troppo perfetta, e potevamo tornare a guardare il mondo con piacere, curiosi di scoprire qualcosa.
Alberto Giacometti è nato ed è sepolto a Borgonovo, in Val Bregaglia, ma ha vissuto fin quasi ai vent’anni, e periodicamente fino alla fine dei suoi giorni, nel vicino paese di Stampa, dove poteva anche lavorare nell’atelier ereditato dal padre pittore.. Lì c’era la casa di famiglia dove ha sempre vissuto la madre, morta appena un paio d’anni prima di lui. La madre, il fratello, la moglie, son sempre stati i soggetti prediletti dei suoi quadri e delle sue sculture. Si può anche dire che ciò che Giacometti ha raffigurato è circoscrivibile in buona parte all’interno di una cerchia famigliare. Perciò son sempre stato convinto che Giacometti dovesse avere un’idea della famiglia molto profonda, antica, contadina. E forse anche questo può spiegare il carattere atemporale, dire perfino sacro, della sua opera.
Mi chiedevo, visitando Stampa, e ancor di più il cimitero di Borgonovo che era pieno di Giacometti, forse un po’ tutti parenti fra di loro, , mi chiedevo cosa mi avrebbe spinto a fermarmi un paio d’ore, da quelle parti, se non avessi conosciuto e amato l’opera di Alberto Giacometti. In fondo non era tanto diverso dai borghi che ci sono anche sull’Appennino, dalle mie parti: case in pietra, tutte raggruppate tra loro, una valle ombroso dove scorre un fiume, o un torrente, ma dove non c’è molto da vedere, e dove soprattutto non c’è niente che si possa dare in pasto allo sguardo vorace dei turisti. Perciò son posti che inviterebbero a fermarsi qualche giorno, se mai, non a visitarli in un pomeriggio.
In genere questi sono posti che amo, perché mi sembra che lì non funzioni più il gioco di società, sembra che in quei posti possa esistere ancora una comunità, o almeno una sua tangibile parvenza. E infatti ho la sensazione di essere accolto ma di non farne parte, di essere appunto lo “straniero”, non il turista.
Il piacere che possono dare questi posti è anche di poter guardare la vita dal di fuori, a volte incantati davanti a un segreto che possono conoscere solo i nativi. Perché ogni comunità, se ne può esistere ancora qualcuna arroccata in qualche paesino di montagna, come poteva essere da Graziano, a Villa Minozzo, dove almeno se ne sentiva il desiderio , comunque ogni comunità è sempre anche una grande famiglia. Perciò un luogo dell’estraneità, per chi non ne fa parte.
In fondo non c’era molto da imparare da una visita veloce a Stampa. Almeno non si poteva pensare di trovare lì Giacometti, se non come un nome ripetuto tante volte sulle lapidi di un cimitero.
A proposito delle percezione che le cose siano tutte ben distinte, in quella che sommariamente chiamavo la visione del “plastico” del paesaggio svizzero, specie in Engadina, in un’intervista del critico Jean Clay a Giacometti ho trovato delle riflessioni che possono aiutare a far uscire i pensieri fuori dai binari, un po’ scontati, del trenino elettrico.
Ad esempio Giacometti dice: “Lo spazio ci accerchia, ci isola. Se dipingo questa tazza senza pensare a niente, senza mettere nel mio disegno la minima intenzionalità, chi vedrà il risultato riceverà la sensazione dell’isolamento della tazza. Non è una questione psicologica, la solitudine, non ci si può far niente. Essa esiste nello spazio.” E altrove parla di oggetti £separati l’uno dall’altro da innumerevoli abissi di vuoto”.
Che possa esistere un’infinita distanza fra le cose, è una percezione che spesso il paesaggio montano suggerisce. Da qui l’impressione di essere davanti a una miniatura, proprio perché le cose sono ben distinte l’una dall’altra, ben disegnate nella loro distinzione. E in fondo la visione da “plastico”, da miniatura, la si può trovare anche in quelle opere in cui Giacometti compone su uno stesso piano alcune sue figure, come donne, teste, uomini in cammino. In genere queste opere non sono tanto grandi, alcune davvero piccolissime. Forse in Giacometti la miniatura serve appunto a misurare gli “abissi di vuoto”, l’infinita distanza che esiste tra le cose. E in fondo ogni opera di Giacometti, fosse anche la Grande tete, è sempre anche un’opera cesellata da un grande miniaturista, capace di modellare anche lo spazio infinito, insondabile, che intercorre fra le narici di un naso, e fra queste e l’attaccatura di un orecchio.
La mia comunità di riferimento, quei giorni in Engadina, era la fattoria di Gori e Seraina. Mi avevano messo a dormire in una stanza piccola e accogliente, nel sottotetto. La finestrella della mia stanza si affacciava sul pianoro con l’aeroporto, e a quella distanza, fuori dal traffico e dal paese, sembrava si muovessero soltanto le nuvole nel cielo.
In casa c’era spesso una ragazza del paese, di Samedan, che dava una mano alla fattoria ed era stata adottata come un’altra figlia. Metteva sempre allegria a tutti, specie a Seraina che in quei giorni era preoccupata che sua figlia più grande s’era innamorata di un pianista di New Orleans. Ma la sua preoccupazione aveva il tono del lamento, non della rivendicazione di un diritto. Lo diceva per farsi consolare, più che per cambiare il corso delle cose.
Prima di partire Seraina mi ha regalato un libro di poesie scritto dalla sorella, morta giovane, a poco più di quarant’anni, che è considerata una delle maggiori poetesse in lingua romancia, la quarta lingua “nazionale” svizzera, quella che somiglia un po’ all’italiano e che si legge sempre sulle banconote. È una lingua che ormai parlano in pochissimi, praticamente circoscritta ad alcune valli dell’Engadina, e ricordo che quando abitavo a Zurigo mi piaceva ascoltarla ai notiziari radiofonici, perché avevo l’impressione di ascoltare la lingua dei fantasmi. Mi sembrava quasi di capire, ma più che capire era un riconoscere, riconoscere un suono che pareva venire da tempi remoti.
Le poesie della sorella di Seraina, per quel che sono riuscito a capire, sono poesie semplici, spesso molto brevi. La sua raccolta ha due sezioni che si chiamano Momenti e Incontri, e da quel che ho capito, aiutandomi anche con la traduzione tedesca a fronte, le sue poesie sono poesie d’occasione, nel senso che sono scritte in occasioni che capitano nella vita. Ci sono poesie dedicate ad esempio alla pioggia, a Gesù, a un pomeriggio d’agosto.
Ma l’immagine più viva di quei giorni rimane quella della stanza dove alloggiavo, e che s’affacciava sul pianoro dell’aeroporto che le montagne cingevano in un perfetto anfiteatro naturale. In un certo senso quell’aeroporto aveva preservato la bellezza del posto, impedendovi che sorgessero delle case a disturbare il verde dei prati. Il paese era più in là, e appariva lontano e ben raccolto ai piedi della montagna.
Quei giorni in Engadina il cielo era mosso da rapidi nuvolosi bianchi, che ogni tanto oscuravano il sole senza però farlo mai dimenticare. Perché il cielo rimaneva comunque di un bell’azzurro, che anzi l’ombra di una nuvola lo faceva risaltare ancor di più, in un più
fresco splendore.
Lo spettacolo di un paesaggio naturale è sempre anche lo spettacolo del cielo che lo sovrasta, e che ci può dare quella quiete nel movimento che favorisce atteggiamenti contemplativi. Perché nella contemplazione questa quiete nel movimento, che ammiriamo nelle nuvole, appare la legge stessa che governa il mondo, la vita delle cose. “La quiete attira la vita, l’inquietudine la scaccia; Dio se ne sta zitto, perciò il mondo si muove intorno a lui”, ha scritto Gottfried Keller a elogio della pura contemplazione continuamente cercata da Enrico il Verde, il protagonista di uno dei romanzi più belli da cui imparare per guardare le possibili meraviglie del mondo sensibile.
Purtroppo i nostri sguardi sempre ad altezza d’occhi, tutti intenti a osservare schermi e monitor, a seguire indicazioni e segnaletiche, purtroppo questa particolare visione ci sta facendo dimenticare il cielo, che è il maestro più idoneo a insegnarci una profonda devozione a tutto ciò che esiste, allontanando così anche la minaccia di una piatta visione orizzontale che ci restringe il campo visivo, e fatalmente anche l’immaginazione.
A questo proposito lo psicologo James Hillman osserva che l’imposizione di una visione orizzontale si rispecchia anche nelle case che normalmente abitiamo, che hanno in genere soffitti lisci e bianchi, su cui non soffermarsi più di tanto con lo sguardo. Invece nella fattoria di Gori e Seraina, come normalmente avviene nelle vecchie case di campagna, i soffitti non nascondevano travicelli e travi portanti, e nemmeno la parte inferiore del piano di sopra, che nella mia stanzetta erano le assi del solaio su cui poggiava il tetto.
Insomma mi sentivo avvolto dallo spazio della casa, che mi faceva ricordare che nelle case dei contadini anche le travi erano “abitate”, cioè erano sempre una parte “viva” della casa, a cui per esempio appendere degli insaccati, o un pezzo di stoccafisso. E comunque un tempo il soffitto non era mai uno spazio neutro, inerte, tanto che i più ricchi se lo facevano magari affrescare da qualcuno.
“Se la nostra società”, ha scritto Hillman, “è afflitta da mancanza d’immaginazione, di direzione responsabile, di prospettive lungimiranti capaci di coesione, allora dobbiamo prestare attenzione ai luoghi e ai momenti in cui si formano queste facoltà interne della psiche umana. Ricordate il salmo: “Io alzerò gli occhi…donde mi verrà l’aiuto”. Quel gesto primordiale verso la dimensione superiore, quello sguardo gettato al di sopra di noi stessi, ma non altezzoso e in preda alle vertigini, potrebbe essere il luogo dei primi minuscoli cambiamenti interni”.
Non posso però separare lo spazio accogliente della casa dall’incanto della finestrella nel sottotetto che mi faceva entrare in una dimensione dove quasi non c’ero più neanch’io, il mio corpo, perché potevo finalmente perdermi nella visione vivificante di un paesaggio naturale. Isolato e protetto dallo spazio della casa, la cornice della finestra mi forniva il comodo accesso, anche mentale, all’ammirazione di quel grandioso spettacolo di montagne imponenti e nuvole maestose, coi prati verdi e sconfinati che si perdevano all’orizzonte. Tutto mi appariva grandioso, ed esemplare nella sua bellezza, forse anche perché, come ha detto una volta il fotografo Robert Adams, “uno dei misteri dello spazio è di apparire più vasto se guardato attraverso una cornice”.
Inoltre la finestra è anche sempre il luogo di un’interiorità che si apre all’esterno, come se la protezione dello spazio abitativo fosse una soglia ideale ma anche il limite di un rivolgersi al mondo, a tutto ciò che è esterno a noi. E io mi affacciavo ad ammirare la bellezza del mondo rimanendomene al di qua, ben insediato nello spazio avvolgente della casa.
Non so perché, ma quando mi capita di vedere qualcuno affacciato alla finestra camminando per strada, oppure entrando in una città in treno, o in macchina, se vedo qualcuno affacciato alla finestra, anche se di scorcio, o di sfuggita, mi sento comunque confortato da una comune tristezza, qualcosa che spontaneamente e immediatamente condivido, senza sapere bene cos’è. E ricordo che già da bambino vedevo spesso una donna che stava quasi tutto il giorno affacciata alla finestra di casa sua, e quella mi è sempre sembrata un’immagine misteriosa e soprattutto malinconica, anche se non conoscevo ancora il significato di questa parola. Ma da bambini il mondo non ha cornici, non è un quadro da ammirare; esiste ancora il mondo da scoprire, da esplorare, padroneggiare. Così distoglievo presto lo sguardo, curioso di qualcos’altro.
Lasciando l’Engadina, sullo Julierpass ci siamo ritrovati in un paesaggio rupestre aperto, a viaggiare in quei deserti alpini che appaiono oltre il limite boschivo, dove ormai gli alberi non crescono più. Eravamo tornati in quella vastità desertica e un po’ minacciosa che si trova oltre una certa altezza, come al passo del Malora dove chi si fermava non sembrava già più tanto sicuro di sé, come quelli che invece affollavano St. Moritz per fare il windsurf sull’acqua luccicante del lago.
Da quando poi ho letto il racconto di Thomas Bernhard che s’intitola Al limite boschivo, e che racconta una storia misteriosa di un incesto che si conclude tragicamente, da allora mi hanno affascinato ancor di più questi luoghi inospitali e desertici, così come il termine stesso limite boschivo, come se riuscisse di per sé a indicare una zona d’incertezza, fuori da ogni giurisdizione, da ogni civiltà.
Quando ci siamo fermati in cima al passo, sullo Julierpass, c’erano dei massi erranti disposti come lapidi di cimitero per indicare il cammino verso una pozza d’acqua scura. Il cielo era nuvoloso e a girare lassù, oltre il limite boschivo, non c’era più nessuno. Solo massi, muschio, nuvole.