Il sole tramonta trascinandosi dietro le piroghe, in fila sul mare indaco, verso la luce cadente.
Awa guarda e aspetta l’ora favorevole per comprare il pesce, alla fine del giorno. A quell’ora puzza e ha l’occhio spento, allora costa meno.
Mentre le piroghe scivolano al largo e anche il trambusto della città sembra silenzioso. Tacitato dalla luce sull’orlo del mare e l’aria limpida, infinita verso il sole.
Awa spenzola le gambe dal muretto e aspetta. Ogni tanto tira su il vestito, che non ha più i bottoni, sta aperto sulla schiena e scivola dalle spalle. Awa è pronta, quando comincia il mercato della sera, a infilarsi nella ressa che pigia contro i banchi per arraffare il pesce marcio prima che finisca.
Si infila fra le gambe, le pance, bimbi appesi alla schiena, jeans e bubu. Si impiglia nelle stoffe o nelle mani della gente che la ricaccia indietro, si libera, nuota fino a schiacciare sul legno del banco il petto e le mani.
Tutti i giorni riesce a strappare una piccola lot ingiallita dal caldo e la paga con una moneta che vale poco anche per lei. Poi si sfila dalla ressa. Di nuovo gambe e mani, vestiti, impigli, lattanti.
Poi il vuoto della Corniche. Vuoto di gente, macchine bloccate in tutte le direzioni, un carro preso in mezzo e capre che sgambettano verso il marciapiede. Il fumo degli scarichi è l’unica cosa che si muove, sale, si addensa e spande seguendo i fili di una brezza che lei non sente.
Awa striscia fra le carrozzerie calde, fra i rumori delle voci lamentose e dei clacson stonati. Un colpo ogni tanto, per svegliarsi e ricordarsi che si era arrivati lì per andare da qualche parte. Le capre belano sul marciapiede e si avventano su pezzetti di cartone spanti qua e là. Awa saltella su un piede e sull’altro, con la lot stretta in mano e il vestitino che svolazza sui ginocchi.
Saltella sullo spiazzo in mezzo all’incrocio, dove ha passato la giornata, e saltella fra le strade della medina, fra la gente seduta, le ragazze, le treccine, bambini che pigolano in giro, galline e ancora capre, rottami di macchine e case sbrindellate.
Il muezzin canta forte nell’altoparlante. Metallo e voce gracchiano sul primo buio che è l’ora di pregare e che Allah è il più grande. Qualcuno ha srotolato una stuoia di plastica e si inchina. Fra i belati e i richiami. L’odore delle pignatte sul carbone. Uno stormo di ragazzini che corrono avventando un grido compatto sulla sera.
Awa saltella e saltella. La lot stretta in mano e la testa in una canzone.
Va nella strada dei sarti, in una baracca fra una casa e un albero, un angolo di cartone e metallo ondulato. Suo nonno anni fa l’ha eretto e fissato. Quando ci vedeva ancora. Con le corde prima, poi negli anni con legni e cemento. Una baracca solida e grande che i poliziotti vengono ogni tanto a dire di buttar giù ma il nonno svuota una latta con i soldi e dà i soldi a Awa che li dà ai poliziotti che vanno via. Awa ci sta col nonno, la nonna e una zia. Adesso c’è anche il padre.
Salute e salute anche a te. Hai trovato il pesce? Fammelo vedere. La nonna afferra, soppesa, annusa. Scuote la testa e Awa per un braccio. Ma perché te li fai dare sempre così piccoli. E io ora che ci faccio… per tutti non basta. Le prende un orecchio, lo tira verso il basso e Awa strilla forte, più forte del male che sente. Strilla per far girare il padre e il nonno e per farli gridare cos’è questo gridare. La nonna smette di tirare e la manda via, che il pesce per lei stasera non c’è.
Awa va per la strada a aspettare il riso senza pesce. Saltella per la via, sul sudicio e pozze d’acqua marcia. Scansa una bicicletta, due bambini che la prendono in giro.
Arriva a una casa da cui escono tamburi e voci giovani. I ragazzi con le treccine lunghe suonano dondolando la testa. Awa si siede sullo stipite e guarda contenta. Le piacciono i tamburi, le piacciono i ragazzi con le treccine lunghe. Sorridono e scherzano e non la scacciano mai. Fumano grosse sigarette dall’odore forte e buono. Poi hanno sempre dei bianchi con loro che cantano e scuotono la testa e fumano. E che a volte le danno dei soldi, così, solo perché lei è lì.
Oggi c’è una bianca donna grassa, abbracciata a un ragazzo con le treccine. È felice e sorride e si è fatta fare le treccine anche lei. Awa si tocca i capelli. Non avrà mai i soldi per farsi attaccare le treccine. Né per gli acidi che li allungano. E i bambini la prenderanno sempre in giro perché ha pochi peli ritti in testa, duri di polvere e benzina. Sbambagiati in un’aureola zozza.
Questa bianca non le dà niente. Sta stretta al ragazzo, non guarda intorno.
Awa lascia i tamburi e gironzola ancora nei paraggi. Fra gli odori aspri e acidi e dolci e il pesce in ogni casa. Il riso e l’olio attaccato alle pentole, i ragazzini che rientrano correndo. Le capre con l’aria stanca brucano ancora qualcosa qua e là. Awa cammina fino a sentire con la pancia che è l’ora di mangiare e che deve essere pronto anche per lei. Torna alla baracca e si siede sulla soglia. Siede e aspetta e ascolta.
Mi serve Awa, non ne posso fare a meno.
Da due giorni dicono le stesse cose.
Anche a me serve e con quello che guadagno ci vivi anche te.
Tua figlia è incinta. Il bambino va a scuola. Le altre bambine sono troppo piccole. Qualcuno deve andare a prendere l’acqua.
Awa deve restare a Dakar.
Awa deve venire al villaggio.
E così parlano e parlano e poi alzano la voce, poi litigano, poi il padre se ne va e torna la mattina ubriaco.
Alla mattina Awa prende il nonno per un braccio e lo aiuta a uscire dalla baracca. Il padre li guarda con l’occhio acquoso e la faccia gonfia. Si butta sulla stuoia e già dorme.
Lei porge al nonno il bastone e la borsa, gli liscia il bubu, lo guida. Fra le case e fino alla cannella. Accanto alle donne coi secchi in testa. All’alba, tutte in fila all’acqua. Dai fagotti dei bambini sulla schiena escono piedi piccoli e occhi ancora addormentati.
Le strade ancora vuote profumano di silenzio e di pulviscolo umido; ci girano cani ad annusare in terra, con le code ritte in aria. Awa e il nonno cauti per la via; il nonno si appoggia sul bastone a ogni passo e ogni passo è lento e il cammino si snoda nel tempo. Il sole è più alto e l’aria più bianca quando arrivano all’incrocio.
Le prime macchine sgassano puzzo e rumore. Il mercato è pieno di donne che preparano i banchi e aspettano. Le piroghe lontane sono solo un’attesa e punti indistinti nel blu profondo.
Awa si ferma e il nonno le appoggia una mano sulla spalla. Le macchine vanno e si arrestano. Il rosso le trattiene e strizza l’occhio a Awa. Vai, è il momento. Awa passo passo avvicina il nonno ai finestrini e la mano noccuta porge le dita al vuoto, alla speranza, alla pietà del guidatore. Una, due, tre macchine. Poi il verde li scaccia.
Via, pidocchi. Largo alle automobili.
E Awa guarda il metallo passare, i colori, le facce che guidano dritte in avanti. Il nonno non può guardare e sballonzola le monete nella sacca mentre aspettano il nuovo rosso.
Sul mare le piroghe sbucano all’improvviso e diventano punti, strisce, barche. Vicine sempre più alla spiaggia. Ragazzi coi cesti in testa corrono verso i pescatori che si rizzano sulla prora, che fanno gesti, che saltano nell’acqua. Reti ricolme versate sulla sabbia e giù le schiene a mucchi a districare gli animali dalla corda. Ceste piene e via, i ragazzi vanno a vuotarli riversi sui banchi. Le donne vociano e sbattono il pesce separandolo. E chi lo compra subito lo prende ancora fragrante di mare e rigido, piegato in un salto di morte.
L’odore arriva fino a Awa, che ha già fame e se lo mangerebbe crudo. Ma deve aspettare che il nonno senta abbastanza monete nella sacca. Allora si siede su una pietra e la manda al baracchino dove fanno la colazione. Awa si mangia già l’aria e inghiotte l’acqua nella bocca e tutti i profumi se li fa scivolare fra il naso e la gola; li assapora come se potesse morderli. Prende una ciotola di riso e salsa e corre dal nonno, che lo vuole caldo. Si accovaccia davanti a lui, mette la ciotola nel mezzo e mangia veloce, ficcando le manine fra quelle grandi di lui, prendendogli la maggior parte del riso tanto lui non vede e non può che picchiarle una mano, ogni tanto: non ti mangiare tutto! Poi a riportare la ciotola e poi di nuovo accanto al
nonno e davanti al rosso, le macchine ferme, il verde.
Il nonno si stanca presto nella stagione calda. Vuole rientrare prima della preghiera e Awa lo riaccompagna a casa. Poi torna indietro al mercato, a aspettare il pesce marcito. Poi di nuovo a girovagare per la strada, poi di nuovo a casa a ascoltare i discorsi. Sempre uguali. Deve tornare. Deve restare. Deve portare l’acqua. Deve fare l’elemosina.
Il padre voleva portarla via già il primo giorno che era arrivato a Dakar ma il nonno la sera gli dice: vai a farti un giro, sei in città, divertiti. E gli dà i soldi e il padre sta via fino a tardi. Torna ubriaco e si dimentica di partire.
Meno male perché a lei il villaggio fa paura. Non se lo ricorda; fin da piccola vive coi nonni. Non si ricorda la madre e i fratelli. Non si ricorda la capanna e la brousse. Gliene parlano i nonni, della paglia e la sabbia calda, i recinti con le capre, il pozzo lontano e gli spiriti sui baobab. Di questo e quel nipote. Figlio della sorella, zio della cugina della mamma della nonna…
Awa non ci capisce niente della parentela intricata del villaggio e non gliene importa. Li lascia divertire coi ricordi e i parenti. Tanto anche loro non ci vogliono tornare. Da quando il nonno ha gli occhi bianchi e su tutti è calata questa benedizione, che ora loro tre stanno in città e il nonno da cieco può chiedere l’elemosina, la polizia non può fargli nulla. E tutti nel villaggio sono contenti perché ora ci sono i soldi per comprare sementi e mandare Ahmed a scuola. E il riso per tutti.
Il nonno è grande, magro, dritto. Col suo bubu bianco e la faccia verso il cielo, tutti si fermano e lasciano qualcosa. Guadagna bene e Awa è contenta.
Però il padre la vuole. Dice te ne do un’altra. Per accompagnarti ti posso dare una delle piccole ma Awa mi serve per portare l’acqua.
E il nonno accetta. Alla fine, il terzo giorno, dice e va bene, basta che non sia troppo piccola, che mi ci possa appoggiare bene.
E non gli vuole più dare i soldi, quella sera, per divertirsi in città. Ma il padre piagnucola come un bambino, poi grida e minaccia di tenersi tutte le figlie, poi cerca di far ridere il nonno con le battute sulle donne. E il nonno, per levarselo di torno gli ridà dei soldi. Ma è l’ultima sera, poi deve tornare al vllaggio, sennò gli sperpera tutti i quattrini. Che invece c’è il funerale di uno dei suoi fratelli, il giorno dopo, e lui ha già chiesto dei soldi in prestito per la festa e non può più darli a lui per bere e chissà cosa.
Chissà cosa.
Awa si chiede cosa.
E la sera, che i nonni dormono ben rannicchiati con la testa sotto la coperta, Awa aspetta che il padre si prepari. Viso e mani e piedi lavati, nemmeno andasse a pregare. Il collo anche, e tanto profumo dappertutto. Anche sotto la camicia, sui piedi e nei pantaloni.
Chissà cosa.
Awa poi gli sgattaiola dietro quando lui esce pimpante nella notte.
Camminando leggero e elastico, un guerriero vittorioso. Bello, suo padre. Le ragazze in giro si voltano e ridacchiano. Nei negozi ancora aperti le radioline strillano canzoni e i giovani dondolano sugli sgabelli. Il padre cammina e saluta, guarda le ragazze, ride.
Cammina fuori dalla medina. Cammina sulla Corniche, accanto al mare che non si vede e fruscia nel nero. Ferma un taxi, contratta, litiga, lo lascia ripartire. E cammina.
Awa lo segue nel buio. Dopo le ultime case non c’è più luce e non si vede niente intorno. Il padre non si accorge di lei. Cammina fendendo l’aria con le ginocchia come marciasse. È pieno di notte e di brezza e di visioni che Awa non conosce. Marcia leggero fino al faro, sul bordo della scogliera. Prende al buio un sentiero ripido, di rocce a tuffo nel buio verso il mare. Awa inghiotte tre volte, prima di seguirlo. Il mare scintilla appena fra le tenebre e suona come lontano. Poi, tenendosi ai sassi, scivolando lenta sulla terra, arriva anche lei in basso. Su una spiaggia buia, vuota, ma con un grappolo di luce, musica e persone intorno a una baracca e una radiolina. Qualche tavolino dove si mangia e tanta gente in piedi, sulla sabbia, a bere lattine.
Il padre è già al centro, già pieno di birra e sorrisi. Ha una ragazza accanto, le liscia le spalle e lei ride, lo lascia fare per un po’. Poi lo allontana, raggiunge le amiche e starnazza commenti.
Awa dal buio guarda chissà cosa e ride. Era questo. Per questo ci vogliono i soldi. Se ci sono i soldi il padre verrà qui sera dopo sera. Berrà birra e cercherà ragazze, forse ne troverà una…
Ad Awa schizza nel cervello un’idea, più veloce della ragione.
Corre nella sabbia fresca, si arrampica sugli scogli scivolando, impigliandosi, strappando il bordo del vestito. In cima corre e corre. Passa il faro, passa le strade buie, ritorna alla Corniche e i lampioni, le luci delle case. La medina che dorme, la sua baracca. Awa è appiccicosa di polvere e sudore. Il sangue le cola da un ginocchio sbucciato. Il petto le soffia l’aria dentro e fuori con forza, le fa male.
Ma non vuole aspettare, non si vuole calmare. Va verso il muro accanto alla sua stuoia. In basso, vicino a terra, c’è un’apertura e lei l’ha nascosta con del cartone. Come fosse una fessura. Invece è un nascondiglio e lei ci infila la mano, cerca, sfila piano piano un panno lercio. Il nonno mugola. Awa si blocca. Rannicchiata in terra non può far finta di dormire, se la vede la scopre.
Il nonno si lamenta e tossisce, si gira, russa.
Awa asciuga la faccia con una mano e finisce di tirare fuori il suo tesoro. Lo apre, lo conta. Abbastanza. Niente bubu nuovo, niente scarpe. Ma il padre deve restare. Awa richiude il panno e richiude la fessura. Si distende e non riesce a dormire.
Il mattino arriva subito, con la voce della nonna che sgrida per il vestito rotto, per la polvere e il sangue. Sono cascata, dice Awa, mentre andavo a fare pipì al buio. La nonna la manda a prendere l’acqua e la fa lavare, poi le pettina i capelli, glieli sistema in trecce strette sulla cute, fila dopo fila ordinate sulla testa.
Oggi il nonno non lavora. C’è il funerale del fratello e lui deve prepararsi con cura, prendere il car rapide per il villaggio. Ci vorrà tutta la giornata, dormirà lì. La nonna si lava e si veste, si fascia la testa e ci carica un fagotto sopra. Segue il marito fuori dalla baracca ma dalla soglia si volta: resta sempre qui, sorveglia tuo padre; non deve toccare niente. E se ne va.
Il padre si è seduto, strusciato la faccia, guardato intorno. Le ha sorriso e messo in mano delle monete per la colazione.
La mangiano insieme e lui ci vede, non si può barare. Però non ha fame, lascia molto nel piatto e si ridistende. Ho male alla testa, dice, lasciami dormire e chiudi la tenda della porta.
Awa esce e chiude la tenda dietro di sé. Ha da fare. Cammina fuori dal quartiere, cammina seria e misurata. In mano stringe lo straccio coi soldi dentro. I soldi che ha rubato al nonno un po’ ogni giorno. Da tutti gli anni che lavora con lui.
Li ha chiusi con uno spago che tiene serrato nel pugno eppure ha paura. Come se il sacchetto potesse animarsi e scappare via, o svanire lasciandole il vuoto nella mano. Però la paura dura poco, perché presto arriva alla casa che cerca. Attraversa la porta, entra nel cortile. Due bambini piccoli barcollano intorno a una capra con le zampe legate e per non cadere gli si aggrappano al pelo. La madre gira il riso sul fornello.
Salam aleikum.
Aleikum salam.
Subito le chiede della ragazza, la più giovane della seconda moglie. La donna non le risponde ma borbotta e con la mano le fa segno di andare via.
È importante, le devo parlare…
Rimesta il riso nei fornelli e sputa in terra. Non le dirà dov’è.
Ti prego, ne ho bisogno…
E quella esce da una porta, le prende un braccio, la porta fuori. Che vuoi? Perché mi cerchi?
Awa apre il sacchetto, le lascia guardare i soldi. Quanto vuoi per stare una notte con un uomo?
Passa il giorno e passa la sera. Torna la notte e suo padre si veste. Si guarda in mano, conta i soldi rimasti, sospira. Io esco. E le lancia una moneta. Tu mangia qualcosa.
Awa afferra la moneta. Posso venire con te? Io conosco bene la città. Ti porto dove ti diverti, ti faccio incontrare le persone…
Il padre la guarda e pensa. Va bene, dice, mi accompagni. Però poi torni a casa.
Awa grida che è contenta e gli saltella intorno, lo prende per mano, lo porta fuori.
La Porte du Millenaire è uno spiazzo rosso, sul mare, pieno di gente intorno alla statua enorme che soffia nel corno. In una cornice grande di pietra bianca che è la porta del millennio.
Ci passeggiano, si siedono, parlano e mangiano noccioline. Qualcuno ha una radio, qualcuno segue il ritmo. Un giovane affitta un motorino a chi ci vuole fare un giro.
Il padre guarda e guarda. Non c’era mai stato, è bello, dice. E guarda le ragazze.
Intanto il sole sta tramontando; la luce scende molle, arrossata, sulle onde pigre.
Il padre guarda e si fa triste; è così bello e lui deve partire.
In quel momento arriva la ragazza. Gli sorride, gli chiede da dove viene. Si vede che non è di Dakar…
Il padre sobbalza e si raddrizza, no è arrivato da poco… liscia i capelli con una mano e si apre in un sorriso.
Awa si sfila dalla scena. Rincula piano piano, nello spiazzo rosso si allontana all’indietro. E fissa la ragazza che si tocca le ciocche. Che sfiora la camicia del padre e parla e ride.
Awa torna a casa. Da un venditore ambulante compra un sacchetto di ghiaccio alla fragola e se lo succhia con calma mentre cammina.
Il giorno dopo stessa cosa. La ragazza è già lì a fingersi innamorata e disponibile. E il padre, che ha dormito nel sorriso tutto il giorno, passa di nuovo la notte fuori, rientra sorridente, si accarezza la testa e dorme.
Il terzo giorno torna il nonno. Cupo per il lutto e tutti i soldi spesi. La famiglia aggrappata al bubu a chiedere e chiedere. Quella si deve sposare, quell’altro deve coltivare… lui è vecchio e gli stanno tutti addosso. Poi lui morirà e loro che faranno? E lo zio che sta in Italia e che non gli manda nulla, si è scordato di loro. Solo alla famiglia della moglie, pensa. Ai suoi genitori, al figlio orfano di suo cugino. E basta. È diventato una noce di cocco, lui: nero fuori e bianco dentro! Il padre ascolta, ride e intanto si veste.
Tutti addosso, gli stanno. Anche lui.
Il padre non se la prende, canticchia, saluta i suoceri e se ne va. Dal marciapiede si sente la sua voce cantare via.
Awa di nuovo per la strada. Si butta sulle macchine, bussa ai vetri, spalma lo sguardo sui conducenti. Non li lascia partire, infila le mani nei finestrini aperti.
E ruba monete. Si è annodata un sacchettino al gri-gri sotto il vestito. E ci caccia spiccioli su spiccioli, nel sacchetto legato al portafortuna, per rinforzare il tesoro che sta velocemente sparendo.
Ancora una notte o due e poi la ragazza non verrà più. E suo padre vorrà partire. Subito, perché non capirà e sarà deluso. La ragazza era tanto bella e poi se n’è andata, così, di colpo…
Il giorno dopo Awa sa che deve trovare qualcosa. Il villaggio no, il villaggio non lo vuole. E prima di cena cammina e cammina nelle sue strade. Con la testa in mulinelli veloci, le idee sbattute qua e là come sabbia nei vortici dell’harmattan.
Ci deve essere un modo, ci deve essere un’altra donna.
I tamburi escono dalla casa dei giovani. E il fumo forte insieme alle voci. Awa si infila nel cortile e si siede in un angolo a pensare. Deve trovare qualcosa. Qualcuno che faccia restare il padre. In quel momento arriva la bianca grassa. È lei! La donna che ci vuole, è lei!
È sola, sbadiglia. Si siede e non guarda nessuno. Non ha nessuno da aspettare. Passano minuti e Awa trema. Non li conosce, i bianchi. E ora, cosa deve dire?
Tremando le si avvicina. Salam Aleikum. Ma chissà come si dice in francese.
Vuoi venire con me? Io ti porto… io conosco… vieni con me.
La donna la guarda e ride. Fruga in una tasca dei pantaloni. Le dà una caramella.
Awa la prende e sorride. Grazie, grazie. Tu buona. Tu vieni. Io faccio vedere.
La donna non la guarda più. Siede e fissa davanti. Si divincola fra i battiti lenti di un tamburo svogliato. Non c’è quasi nessuno. È buio, senza musica né risa. La donna guarda avanti e dondola.
Cosa dire, come fare per convincerla.
Awa le ritorna accanto. Tu vieni. Vieni con me. Tu diverti…
Il ragazzo posa il tamburo, va da lei e la tira via per un braccio. Vattene. Non dare noia.
Awa esce, però non se ne va. Non mangia stasera. Ore e ore appoggiata al muro, aspetta la donna. Che esce a notte fonda, avvolta di stanchezze straniere.
Cosa pensano i bianchi. Come convincerla.
Le si avvicina, le prende una mano. La donna la guarda da dietro occhi opachi e lontani. Mette una mano in tasca e le dà una caramella.
Awa rimane ferma, con le due caramelle in mano, e la guarda allontanarsi.
Arriva un altro giorno e i soldi sono finiti. Awa ruba al nonno, gli ruba quasi tutto.
Ma che avete portato, stasera? Non ci facciamo niente, non si può andare nemmeno al mercato!
Il nonno stanco scaccia la moglie con un gesto della mano. Il padre senza progetti si è già alzato da qualche ora e siede sulla soglia, cercando il coraggio di partire.
Awa ha un’idea.
Ma deve sbrigarsi, perhé poi chiudono. Corre e corre, svolta e gira e imbuca strade e dalla medina si trova a sandaga. Le botteghe attaccate l’una all’altra, stanno rimettendo dentro la merce. Vocìo stanco e ultimi acquisti sugli usci. Botteghe di lampadine e botteghe di jeans. Sarti, stoffe, scarpe. E finalmente l’antro grande e profondo dei guineani. Che cuciono a pedali, uno accanto all’altro. Uomini e ragazzi, padroni e apprendisti, chini gomito a gomito sulle stoffe tra i frulli delle macchine. Intorno a loro mucchi di vesti e pantaloni, borse, trousse, ciabatte, vestaglie. Sommergono gli uomini e pendono anche dal soffitto, centinaia di colori a spenzolare fin sulle teste.
Awa cerca e cerca e trova il suo amico. Abdoullaye, che fa i cappelli. In fondo, dove non c’è aria, perché lui è giovane e deve imparare.
Però sa già tanto. Nel negozio entrano i turisti e ogni volta tutti si alzano dai banchi e mostrano, gridano prezzi, si scavalcano l’un con l’altro a far vedere i prodotti. Abdoullaye è bravo, lei l’ha visto. È suo parente, stesso padre della figlia della cugina di sua madre. I guineani l’hanno preso subito perché è sveglio e non cuce ancora bene ma sorride e chiacchiera e mostra. La sua specialità sono i bianchi.
No, non lo voglio fare, risponde a Awa.
Che piagnucola, lo tira per la camicia, si fa scacciare con una spinta. Abdoullaye è stanco, vuole andare a mangiare. Guarda, è stata una brutta giornata, non è entrato quasi nessuno…
Awa alza il vestitino e stacca dal laccio il sacchettino nascosto. Allora guarda questi: i soldi del nonno. Abdoullaye non dice niente, guarda i soldi e guarda Awa.
E domani ne avrai ancora, e anche dopo… solo una volta, lo devi fare solo una volta!
Abdoullaye guarda Awa e guarda la strada. Prende i soldi. Dov’è?
Awa lo vuole abbracciare, gli saltella intorno pigolando grazie.
Eccoli davanti alla casa. Abdoullaye annusa l’aria e scuote la testa.
Awa vuole riprendersi i soldi, porge la mano in silenzio. Allora Abdoullaye si guarda intorno, poi abbassa il capo e entra. Lasciando Awa a passeggiare e pregare per la strada.
Passano le persone, sbucano le ombre. Il muezzin canta e tace, la strada si svuota. Le case odorano di voci e risuonano di cibo.
Poi dei passi sulla soglia. Awa si volta per vedere Abdoullaye aperto in un sorriso e piegato verso la bianca grassa. Le gesticola intorno, sorride per lei la città, come un pozzo di meraviglie in cui tuffare le mani assetate. Dakar gli appartiene e solo lui è il padrone.
La bianca ride e si rassegna. Va bene, fammi fare un giro. Ma guarda, io conosco tutto…
Awa gli si accoda ma poco dopo Abdoullaye la chiamaaccanto: portalo sulla spiaggia, dove fanno le piroghe. Io ti aspetto accanto al muretto.
Awa sorvola sui marciapiedi e sulle paure. E se il padre non è più in casa, se non vuole, se la porta subito al villaggio…
Lui è in casa. Non vuole partire, è disteso e scocciato. Rasato e profumato ma il nonno non gli ha dato i soldi per uscire. Perché non li ha, ce li ha tutti Abdoullaye, ora. Però il padre non lo sa. I nonni mangiano in silenzio e il padre li guarda ringhioso.
Vieni fuori, padre, ti devo portare in un posto.
La scaccia due o tre volte con la
mano. Awa lo prende per un braccio: devi venire, devi…
Eccoli per la strada. Il padre strascica i piedi e non parla. Awa si strozza nella paura che la bianca non sia più lì. Lo tira, lo spinge, vorrebbe farlo volare.
Quando li vede di lontano, appoggiati tutti e due al muretto a guardare le fasce di legno che diventeranno piroghe. Quando vede le treccine bionde e la faccia contenta di Abdoullaye sente una bolla che le sale in gola e un urlo che si spande prima che lei se ne accorga: eccoli! Guarda, eccoli lì!
Il padre la guarda: eccoli chi?
E presto si incontrano. Abdoullaye saluta rispettoso. Poi dice: anche voi qui? Come state? Da tanto che non ci vediamo…
Jeanne, questo è il padre della mia amica Awa. Anche lui conosce bene la città…
Rientrano da soli. Awa e Abdoullaye. Si voltano appena a guardare il padre e la bianca che camminano vicini lungo il mare.
È bene, la bianca. Caduta come un dono del cielo. Non si paga e non chiede nulla. Porta fuori il padre, lo porta a mangiare e gli fa anche dei regali. Scarpe nuove e una camicia. Un paio di occhiali, sigarette. Continuano ad arrivare cose e cose. Nella baracca non ce ne sono mai state tante.
Il padre le ha messe in ordine, sulla sua stuoia, e lì scintillano intatte.
Anche Awa ha avuto dei regali, ma non li mostra a nessuno. Sono soldi, che la bianca le ha fatto cadere in mano così, senza nemmeno guardare. E sono tanti… nessuno ne ha visti così tanti, lì.
Awa va al mercato e compra una stoffa. Dal sarto si fa fare un vestito nuovo. Un bubu da donna, lei non si sente più bambina. Con la gonna lunga e il sopra scollato, le gale sui bordi. È bella, si guarda ad ogni finestra e ogni vetrina.
E di soldi ce ne sono ancora. Per essere nascosti nel muro e aspettare che servano davvero.
Infatti passano i giorni e passano troppo rapidi. Il padre è ingrassato e felice e non pensa che qualcosa può cambiare. Quando la bianca deve partire non crede che sia vero. La segue e piange. Le chiede di portarlo con lei.
La bianca anche piange e lo stringe. Nascosti fra le piroghe, sulla sabbia umida di sera e di strazio.
La guardano andare via. Le treccine bionde non si voltano mai. Si allontanano sulla strada e poi spariscono in un taxi.
Awa e il padre rimangono sulla spiaggia, a farsi scivolare la sabbia fra le dita. Non si guardano, cercano il mare e il sole che lo sfiora.
E così, la sera non porta gioia. Muti a mangiare e sguardi opachi.
Il nonno sente avvicinare la partenza e lui come farà. Con la moglie, no. Non è bene. E da solo non può. Come potrà chiedere l’elemosina.
Il padre guarda il piatto che si svuota veloce e lui tocca appena qua e là. Vorrebbe la donna bianca. Vorrebbe essere con lei. Immagina la Francia, il freddo e le strade piene di bianchi. Chissà com’è vivere lì. Domani andrà all’ambasciata, vedrà se lo fanno partire. Lei ha detto che gli manderà i soldi per l’aereo.
La nonna sbatte in giro le cose, non mangia, si tira il vestito da tutti i lati. Cosa faranno domani, se Awa se ne va. Cosa mangeranno domani. Chissà se arriverà davvero un’altra bambina. E se sarà brava.
Tutti hanno spelluzzicato nel piatto. Solo Awa ha raccolto fra le dita fino all’ultimo chicco di riso e, contenta, se lo scioglie in bocca coi morsi di pesce e il sugo piccante. Le scivola giù il cibo e un’idea che le è nata da poco e la fa mangiare felice.
Il giorno dopo dice al padre: prendimi con te, non mi far lavorare. E il padre le dice: tanto non puoi più lavorare, stasera prendiamo la corriera per il villaggio. Bene, allora vestiti più bello che puoi. Fatti la barba, mettiti questo. E porge al padre la camicia nuova e i jeans neri. Il profumo, gli occhiali. Tutti i regali custoditi sulla stuoia, glieli fa mettere. Fidati di me. Ti porto in un posto speciale. E mi devi dare i soldi della corriera, e gli ultimi che hai, della donna bianca. Fidati, ti porto in un posto speciale.
I nonni li guardano e tacciono. Piace loro sentire che se ne vanno i soldi per la corriera. Oggi Awa non lavora, ma forse potrà restare. Tacciono e guardano.
Nel sole di mezzogiorno, stringendo gli occhi sulla polvere brillante della strada. Camminano da un’ora, camminano da due. Il padre tace. Ha dato i soldi, ha dato fiducia e adesso ci vuole credere anche lui. Awa gli ha spiegato. Lei conosce bene la città. Lei parla coi ragazzi più grandi e ascolta le chiacchiere della strada. Lei vede i giovani passare per via. E sa come si fa.
Arrivano al cancello di un grande albergo. Vacanze sul mare, nel verde di prati e fiori tropicali. Che ci sono solo lì, il resto del paese è giallo e secco. Ma dal cancello e oltre il muro si intravedono ciuffi di fiori e cascate di verde. Arriva il profumo dell’erba annaffiata.
È qui?
No, padre, vieni.
Awa sa come fare. Awa prosegue accosto alla recinzione. Intorno intorno, girano e la percorrono tutta. Fra il luccichio sbiadito della strada polverosa, accanto al profumo verde del giardino proibito.
Ecco il mare. Lì il recinto si ferma e bagnando i piedi appena appena si può oltrepassare. Sbucando in una corsa di spiaggia scintillante, pulita e netta. Bianchi corpi su sdraio e nell’acqua. Neri in divisa che portano cocktail.
Il padre si volta verso Awa. E ora, che fanno.
Awa si guarda intorno e aspetta. Solo pochi secondi poi arriva correndo il guardiano. Che fanno lì, subito fuori, lì non ci possono stare. Il padre arretra preoccupato, Awa gli tiene una manica.
Sa cosa dire, sa cosa fare. I soldi della corriera e i suoi ultimi risparmi. Dalla sua piccola mano a quella del guardiano. Che li inghiotte nella tasca della divisa, si volta e si allontana veloce. Non li ha né visti né sentiti.
Awa Guarda il padre. Gli fa cenno verso la spiaggia.
Vengono apposta, non ti preoccupare. Quelle che stanno qui, ai margini, vogliono incontrare qualcuno. Solo, non andare vicino all’albergo…
E il padre si avvia sulla spiaggia, verso i margini delle vacanze, i bordi sfumati delle bianche in attesa. Awa lo vede sbottonare la camicia, passare le mani profumate sui capelli. Verso un asciugamano e una ragazza rossa, sola e lontana dagli altri.
Awa lascia la spiaggia, lascia il recinto, l’albergo, la strada. Due ore dopo è nella capanna e sorride ai nonni. Posso restare.
Le macchine scorrono, le macchine si fermano. Torna ad ammiccarle il rosso : vai Awa, è il momento. Awa sorride ai semafori e ai conducenti. Sorride alla mano aperta del nonno, al fumo che li avvolge dopo ogni verde.
La sera, sul muretto, dondola i piedi contenta, nel suo bubu nuovo che tutti hanno ammirato, nella strada. E ogni giorno ruba un po’, al nonno, per comprare un pesce bello grosso e far contenta la nonna.
Ora sì, che ti dai da fare. Vieni, mangia anche tu.
Pancia piena, sonni belli. Awa sogna un nuovo bubu. E anche le scarpe, questa volta. E il mare al tramonto, il quartiere al risveglio. Awa sa che potrà restare.
Ma un giorno torna a casa: la nonna la guarda spaventata. La baracca è buia, nessuno ha cucinato. C’è odore di strano e di insolito. C’è il profumo forte di un uomo. Awa e il nonno esitano sulla soglia. Che succede.
Salam Aleikum.
Sbuca una voce dall’ombra e un ragazzo salta verso di loro. Contento, il viso aperto di chi viene all’avventura in città per la prima volta. Bacia la mano del nonno. Non mi riconosci? Sono Mamadou!
Il fratello più piccolo del padre.
Sono venuto a cercare mio fratello. È scomparso e noi lo aspettavamo con la bambina… ci siamo detti, che sarà successo. Una disgrazia no, si sarebbe saputo. E allora forse c’è una novità. Forse a Dakar ha trovato qualcosa…
Mamadou sorride felice. Non si sa mai cosa può succedere in città.
L’immagine che illustra questo testo è di Mirella Daniell – http://mirelladaniell.it