XI. Un discepolo infame
C’era un medico molto rinomato, di nome Giordano, che aveva un discepolo. Un giorno veniva convocato al capezzale di un fanciullo molto ammalato, e il discepolo, per acquistar pregio ai danni del maestro, andava dicendo al padre del fanciullo che suo figlio sarebbe certamente morto. Poi faceva aprire la bocca al fanciullo, e con la punta del dito, dimostrando grande abilità, gli mandava giù per la gola una buona quantità di veleno, a causa della quale il fanciullo ben presto moriva.
Finiva così che il medico se n’andava da quella casa perdendo tutto il suo prestigio, acquistandone invece il discepolo infame.
Da quel giorno però, il medico abbandonava la cura degli uomini, scegliendo di dedicarsi esclusivamente alla cura di bestie e vili animali.
XII. Cortesia
Aminadab, condottiero valoroso e maniscalco (ossia capo dell’esercito del re David), si trovava ad assediare una città già da molti giorni, e ormai codesta città era sul punto di cadere. A questo punto Aminadab manda un’ambasceria al re David, che dica che c’è nel campo un rischio di ammutinamento delle truppe, e che perciò accorra al più presto. David accorre, ma non trova per il campo nessun pericolo. Si rivolge perciò ad Aminadab con questa domanda: “Perché mi hai fatto venire qui?”. “Perché” – risponde Aminadab – “essendo la città sul punto di cadere, ho pensato che il mio re avesse piacere a conquistarla di persona”. E così facendo lasciò a David l’onore di prendere la città. E David la prese, non tralasciando di ammirare la cortesia e la virtù di Aminadab.
XIII. Dolenti note
Antinogo, valoroso condottiero dell’esercito di Alessandro, essendosi un giorno Alessandro abbandonato ad ascoltare le dilettevoli note di una cetra, strappava di mano la cetra al musicista e la rompeva, rivolgendosi così ad Alessandro: “Alla tua età conviene coltivare la virtù e non il vizio, di cui la musica è portatrice!”. E aggiungeva la storia del re Poro, il quale, durante un banchetto, aveva fatto tagliar le corde a tutti gli strumenti musicali, ammonendo: “Alla dolcezza del suono si perdono le virtù”.
XIV. La bellezza della donna oltrepassa perfino le tenebre
Un re un giorno ebbe un figlio, e per l’occasione i saggi astrologi gli facevano questa raccomandazione: “O re, alleva questo piccolo senza fargli mai vedere la luce del sole fino a dieci anni, altrimenti sarà cieco per tutta la vita”. Per la qual cosa il re lo fece allevare in oscure grotte, badando però che nulla gli mancasse. Quindi allo scadere dei dieci anni lo portava su alla luce e gli mostrava le cose del mondo, cominciando da tutte le più belle alle quali dava pure un nome, per vedere poi quale il fanciullo preferisse. Gli mostrava anche alcune graziose fanciulle, dicendogli che quelle avevano il nome di dèmoni. Quindi gli faceva la domanda: “Quale preferisci di tutte le cose che hai visto?”. Il fanciullo rispondeva senza esitazione così: “I dèmoni”. E il re uscì allora in questa esclamazione: “Ah, la bellezza della donna oltrepassa perfino le tenebre!”.
XV. Giustizia misericordiosa
Un certo re Calogno, signore su molte terre, aveva stabilito questa legge: che fossero cavati gli occhi a chiunque possedesse la moglie d’altri. Capitò, un bel giorno, che proprio suo figlio cadesse a trasgredire questa legge, con il popolo tutto, però, che chiedeva misericordia per il giovane, e con lui medesimo, il re Calogno, che pensava che giustizia comunque si dovesse fare, nonostante tutto. Allora, per far sì che né l’una – la misericordia – né l’altra – la giustizia – andassero a svanire, Calogno procurava che si cavasse un occhio al figlio e uno a lui stesso.
XVI. Essere in pena per gli altri
San Paolo vescovo era uomo di somma misericordia, a proposito della quale si racconta una storia siffatta. Una giovane donna gli chiedeva un giorno di intercedere per un suo figlio caduto in disgrazia e rinchiuso in prigione. San Paolo, non potendo intervenire in alcun modo politico efficace, si recò presso la galera e chiese di essere rinchiuso al posto del giovane per pagare al suo posto il suo peccato.
XVII. Proprio tutto
Piero, famoso tavoliere, ovvero uomo di affari e proprietario di grandi ricchezze, divenne un giorno tanto misericordioso da donare tutti i suoi averi ai poveri, per amore di Dio, e poi da vendere addirittura se stesso rimettendo ugualmente ai poveri il ricavato, fino all’ultimo centesimo.
XVIII. Il fantasma del re
Carlo Magno, essendo in guerra contro i Saraceni, sentiva la morte avvicinarsi e faceva questo testamento: “Lascio le mie armi e il cavallo ai poveri”, e affidava a un barone il compito di eseguire questo suo volere. Ma il barone non eseguiva un bel niente, e si teneva tutto per sé.
Dopo qualche tempo, Carlo dall’altro mondo si presentava al barone e lo apostrofava, dicendogli che, per colpa sua, adesso si trovava in Purgatorio a subire otto diversi tipi di pene al giorno; ma aggiungendo che di lì a poco anche lui, il disonesto barone, l’avrebbe duramente pagata. Difatti – e moltissimi uomini furono testimoni – all’istante un terribile fulmine e un tremendo tuono vennero giù dal cielo sprofondando l’infido barone nell’abisso.
XIX. Il Re Giovane e Generosissimo
Il re Enrico il Giovane era divenuto re facendo guerra, su consiglio di Beltramo, a suo padre.
Prima di tutto era andato a reclamare la sua parte di eredità, e poi, avendola ottenuta, l’aveva donata – sempre su consiglio di Beltramo – a cavalieri poveri e a tanti altri. Era insomma generoso e buono, e si racconta – tra le tante altre cose – che una volta un gentile signore gli aveva fatto richiesta di un qualche dono, ma egli aveva ormai già donato tutto. Senza perdersi d’animo, però, rispondeva così: “Tuttavia ho ancora un dente cariato in bocca, e mio padre ha promesso una gran quantità d’oro a chi riuscisse a convincermi a cavarlo. Tu va’ da lui e digli che mi hai convinto”. E così il signore otteneva il dono richiesto.
Poi ancora si narra che un giullare gli aveva chiesto duecento marchi, ed egli ordinava al siniscalco, ovvero al tesoriere, di provvedere. Ma il tesoriere, al quale sembravano un po’ esagerate tutte quelle regalìe, provò a dissuadere il sovrano spandendo i duecento marchi su un tappeto e facendo sotto il tappeto un rigonfiamento, in modo da far apparire le monete molto più numerose. Quindi chiamava il re ed esclamava: “Sire, vi rendete conto quanti sono duecento marchi?”, e indicava il monticello artefatto sul tappeto. Il re, per tutta risposta, sapete cosa rispose?
“Non credevo che duecento marchi fossero così pochi e occupassero un così piccolo spazio; un giullare valentissimo non merita una somma tanto esigua: gli si diano perciò quattrocento marchi”!
XX. Altri atti del Re Giovane e Generosissimo
Ci sono ancora altre storie da raccontare di questo Re Giovane e Generosissimo.
Si trovava un giorno, il Re Giovane e Generosissimo, ad aver dato un sontuoso banchetto.
Mentre sta seduto tra i convitati, sbircia un cavaliere che trafuga il coperchio d’argento di una coppa, probabilmente col pensiero di poter arricchire con quello lui e la sua masnada. In conclusione del banchetto, il siniscalco, nel far la conta dell’argenteria, nota il furto e ordina di perquisire tutti i cavalieri che stanno per uscire. A questo punto il re Enrico, accompagnato come al solito dall’idea fissa della generosità a tutti i costi, avendo individuato il ladro, si fa consegnare il coperchio d’argento, così l’avrebbe portato fuori lui, perché a lui non avrebbero fatto perquisizioni.
Quindi, giunto fuori senza essere perquisito, dona al cavaliere non solo il coperchio, ma anche la coppa, anch’essa tutta d’argento.
Un’altra volta il Re Giovane stava dormendo nelle sue stanze, dove un gruppo di cavalieri poveri si intrufola all’improvviso per fare un po’ di bottino. Uno di questi cavalieri adocchia una ricca coperta che quella notte ricopriva il re, e voleva portarsela via. Ma, mentre tirava, anche il re tratteneva la coperta dalla sua parte, e non riusciva perciò a fare il furto. Intervenivano anche gli altri cavalieri poveri a tentare, tirando, di strappare la coperta al re, ma il re dopo un po’ di tira e molla si stufava, montava su e diceva: “Questo è troppo, questo non è più un furto, ma è violenza bella e buona!”. Alle quali parole i cavalieri, spaventati, scappavano via, non pensando che il re fosse sveglio addirittura.
Un giorno il padre di questo generosissimo sovrano domandava al figlio: “Dov’è il tuo tesoro?”. Il figlio rispondeva: “Io ho un tesoro molto più grande del tuo”. A cosa si riferiva? Era da credere? Il padre lo sfida a mettere a confronto pubblicamente i rispettivi tesori. Il re giovane si presenta nella grande pianura all’appuntamento e osserva tutte le ricchezze spianate del padre, il quale di nuovo fa la domanda: “Dov’è allora il tuo tesoro?”. Il Re Giovane estrae dalla vagina la spada e intima ai cavalieri che sono con lui: “Prendete tutti questi tesori e spartiteli secondo le vostre necessità!”. Il vecchio re allibito non può far altro che ritirarsi sconsolato, e in seguito, pur avendo tentato di recuperare il tesoro, non ci riuscirà, poiché Re Enrico resterà chiuso in un castello ben munito e sorvegliato da molti cavalieri.
Venne anche il giorno in cui il Re Giovane si trovava in punto di morte, essendo stato colpito proprio nel mezzo della fronte da una freccia partita per caso dall’arco di un barone (questo re Enrico era anche perseguitato dalla malasorte). Si presentavano a lui tutti i suoi creditori, proprio in quel momento fatale, e chiedevano il dovuto. Ma il Re Giovane rispondeva: “Poco ho da donarvi, questo corpo ormai infermo e l’anima che sta per dipartirsi non possono fare quasi più nulla”.
Aveva detto “quasi”, perché un’ultima idea gli era venuta. Fece convocare un notaio e dettò queste volontà: “Che la mia anima sia tenuta in prigione dai miei creditori finché a loro non sia restituito il dovuto”. E spirò.
I creditori si presentavano dal re vecchio con la notifica del figlio appena morto e chiedevano risarcimenti. Il re sulle prime, riconoscendo in quei cavalieri proprio coloro che insieme al figlio l’avevano defraudato, non voleva sentir ragioni. Ma poi, leggendo le ultime volontà trascritte nell’atto del notaio, si capacitò che un uomo così straordinario come era stato il Re Giovane non poteva patire una prigionia tanto avvilente, deliberando perciò di liquidare i creditori con quanto richiedevano – e infine li perdonò.
(II – continua)