Non s’impara mai bene una lingua, che è infinita”
Pietro Giordani
Sentii parlare la prima volta di Robert Walser per caso, mentre preparavo una raccolta di temi di ragazzini di scuola media, poi pubblicata in volume con il titolo Racconti impensati di ragazzini (Feltrinelli, 1999). Ne avevo letto in un saggio che mi aveva colpito molto perché vi si diceva che Walser scriveva senza mai correggere nulla. Questo modo di scrivere mi ricordava appunto certi ragazzini ai quali avevo insegnato e insegno, che spesso non capiscono mai troppo bene che cosa voglia dire correggere quel che si è scritto, perché scrivono facendosi trasportare da quello che devono dire, quindi da un gesto naturale, piuttosto che dal sapere cosa dire, ossia da una coscienza linguistica.
Poi è arrivato Gianni Celati a parlarmi di Walser con cognizione di causa, citandolo in una lunga lettera con la quale rispondeva alle mie interrogazioni sulla scrittura dei ragazzini e sulla letteratura in generale. Da questa lettera (che si trova come introduzione al libro dei “racconti impensati”) mi sono incuriosito alle opere di Walser, e sono andato a leggermi in particolare il libro intitolato I temi di Fritz Kocher, che ho scoperto essere molto simile, nell’ispirazione, ai testi dei miei ragazzini. In pratica, Walser aveva concepito questo libro come una raccolta di temi di uno scolaro, scritti con una maniera naturale, con una lingua raffinatissima ma semplice, raggiungendo la grazia espressiva con una invidiabile leggerezza.
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Rintracciavo esattamente le stesse cose nei temi scritti a scuola dai miei alunni: naturalezza e grazia, perciò mi appassionavano. Ho cominciato a raccogliere scritture infantili mentre insegnavo in una scuola media in cui si praticava il Tempo Prolungato. Nelle ore del Tempo Prolungato si rientrava in classe alle tre del pomeriggio, dopo che i ragazzini avevano mangiato e giocato a calcio in una lunga ricreazione. Erano sudati, stanchi, sbattuti – e anch’io lo ero dopo una giornata di lavoro. Avremmo dovuto far lezione, ma in quelle condizioni non era certo possibile pensare in termini burocratici o tradizionali. È stato così che ho preso a leggere loro, ad alta voce, delle storie dai libri che mi portavo dietro nella cartella per me stesso. Ho letto storie in dialetto napoletano, ho letto fiabe di Calvino, ho letto dei raccontini di Erodoto, e molte altre cose che erano capitate nella mia cartella. Loro un po’ dormivano, un po’ riposavano, un po’ ascoltavano – in genere abbattuti sui banchi con un’indolenza angelica. Dopo che avevo letto, chiedevo loro di scrivere un riassuntino, o una nuova storia, o quello che volevano. Loro scrivevano qualcosa senza pensarci troppo, e in pochi minuti realizzavano quei testi così felici che poi hanno attratto molto Gianni Celati , il quale, però, come ho scoperto poi, già negli anni settanta, insieme ad Antonio Faeti e Italo Calvino, aveva cominciato a leggerli e studiarli.
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Io penso che Walser scrivesse spesso alla stessa maniera dei miei ragazzini: stanco morto per le sue passeggiate, quasi per necessità, come se “qualcuno” gliel’avesse chiesto o addirittura ordinato, e lui fosse lì pronto a servire le richieste o disposizioni di un superiore demiurgo della lingua. I ragazzini che scrivono a scuola “servono” la lingua più o meno nello stesso senso, ossia mettono sulla carta i segni incerti del passaggio incerto delle incerte parole attraverso il loro orecchio. Forse noi tutti che scriviamo, se siamo veramente liberi da ogni incombenza professionale, facciamo lo stesso: “serviamo” un processo che ci precede e che certamente ci sopravvivrà, con il solo fine inconsapevole di confermare la nostra natura di macchine parlanti. Leggendo i temi e osservando i ragazzini che scrivevano, capivo perché sono vitali e necessari, mentre si scrive, la discrezione e il raccoglimento: non tanto per la nostra “opera”, quanto per le parole in sé e per sé, per la loro salvezza, se così si può dire, perché le parole passano sempre di corsa e pare che si fidino soltanto di chi – come uno sciamano o un ragazzino – riesce, con franchezza (libertà) estrema non disgiunta da una certa cura, a inserirle tra le altre, infinite cerimonie inconcludenti dell’esistenza umana, come direbbe Celati.
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Il titolo del presente scritto, Accalorarsi in silenzio, viene proprio da uno dei temi di Fritz Kocher, e ancora una volta riporta al modo di scrivere dei ragazzini che vanno a scuola e stanno seduti nei banchi in una classe. “Scrivere significa accalorarsi in silenzio”, dice Walser-Fritz Kocher. “Chi non sa star seduto tranquillo ma deve sempre far fracasso e darsi arie perché sta eseguendo un lavoro, non potrà mai scrivere in modo piacevole e vivace”. Accalorasi in silenzio è un bell’ossimoro, e inoltre non allude certo al mutismo triste della lingua controllata e trattenuta, bensì a una felicità che non ingombra, a una gioia non aggressiva e forse necessaria.
Che cos’è, dunque, “accalorarsi in silenzio”? Non so se c’entra, però io qui penso anche alla chiacchiere appassionate tra amici intorno a qualsiasi cosa, o a cose qualsiasi: “accalorarsi in silenzio” vuol dire forse che le parole vengono fuori con una etichetta speciale dove la lingua è totale, nel senso che ha creato una specie di silenzio intorno, e le uniche cose che contano sono l’intonazione vocale, l’accento di pronuncia, l’abolizione delle differenze tra dialetto e lingua, gerghi e registri, e così via. “In silenzio” vuol dire “raccolti”, distesi, in ascolto di qualcosa che non è il frastuono dell’attualità, ma delle voci sempre un po’ arcane e incomprensibili che ci arrivano da ogni parte. “Quando parliamo – dice Gianni Celati – noi non sappiamo che frasi useremo tra tre secondi, e ancora meno tra un minuto o cinque minuti. Noi parliamo di solito senza pensarci, né prevedere quali parole ci verranno in bocca. Tutto viene fuori da solo, in base a programmi ritmici, che dipendono dallo stato d’animo, dall’argomento e dalla situazione in cui parliamo. Ma non è che noi funzioniamo diversamente scrivendo, perché anche scrivendo non si sa mai che frasi verranno fuori, e dove ci porteranno le parole se le lasciamo correre. In fondo i poeti hanno sempre parlato così, secondo dove li portavano le parole, e i poeti più emozionanti sono proprio quelli che hanno saputo lasciarsi trascinare dalle parole con più abbandono, con più sospensione”.
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Con queste parole Celati introduce un discorso molto profondo sui modi di comporre dei poeti e degli scrittori, dei quali nella galassia odierna delle discussioni “culturali” (letterarie, pedagogiche, etc) non si ha quasi più la percezione e forse neanche la conoscenza (a scuola, ad esempio, la retorica nessuno sa più che cosa sia). Ma oltre a questa attenzione “culturale”, o insieme a questa, Celati dice che la cosa principale che si è perduta oggi, nello scrivere, è la cerimonia vuota che sta intorno alle parole, ovvero l’aspetto di gratuita felicità della lingua. “Qualcosa di cerimoniale – spiega Celati – è sempre anche un po’ gratuito. Ad esempio, un tema in classe, non è una piccola cerimonia? E cosa ci si può aspettare da un tema in classe, se non questa cerimonia un po’ gratuita dello scrivere?”.
La cerimonialità, dunque, della quale si parla piuttosto diffusamente anche a proposito di Walzer; e, all’opposto, la distruzione di ogni cerimonialità (e di ogni retorica) nella pedagogia e nei programmi ministeriali della scuola. Ecco un’altra bella implicazione da approfondire, magari rilevando come la scuola si occupi soltanto e sempre dell’aspetto interno, delle “cose da dire”, mai del “come” (diceva Walser), ossia dell’aspetto esterno e rituale, dei modi in cui offriamo noi stessi al mondo e di come ci mettiamo in relazione con gli altri che stanno insieme a noi nel mondo.
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Quante volte abbiamo sentito dire – dei testi di Walser, come delle scritture dei ragazzini – che sono “semplici”, o “spontanei”. Poi, dietro al semplicismo, viene l’ingenuità, un altro comodo principio esplicativo, come avrebbe detto Bateson, una “scatola nera” buona per tutte le occasioni, buona ad esempio per Walser come per i ragazzini. “Sono ingenui…”.
Quelli dell’ingenuità e della semplicità, com’è noto, sono problemi che si sono posti molti scrittori e studiosi a partire dal romanticismo, ma con obiettivi e intenzioni sempre diversi. Tra questi, voglio ricordare Vittorio Imbriani, che utilizza il patrimonio narrativo della cultura popolare non tanto per risalire a una primigenia semplicità-ingenuità, quanto per smontare in qualche modo i meccanismi fonosimbolici della lingua scritta. Ecco allora che nelle trascrizioni di racconti e novelle popolari utilizza il corsivo per segnalare i cambi di intonazione, oppure introduce segni grafici particolarissimi per indicare i suoni esatti della lingua parlata. Poi, nelle sue opere letterarie, organizza delle vere e proprie intrusioni nella scrittura di un lessico lussureggiante, di una sintassi imperfetta, di fraseggi a ritmo sincopato, di una punteggiatura da parlato – tutti elementi che insomma consentono ai testi di evitare la linearità e la significatività della lingua discorsiva.
Forse nella scrittura moderna le cose più stimolanti e interessanti sono proprio queste intrusioni, che evitano che la pagina scritta resti chiusa in se stessa e fanno sì che i testi si svolgano come partiture sospese tra un’oralità impossibile e un memoria fonosimbolica. Ci si potrebbe chiedere, ad esempio, quali siano gli autori moderni che mostrano chiaramente di avere il problema di sfuggire al “signoreggiamento del significato”, come avrebbe detto Imbriani, avendo come obiettivo quello di restituire alla scrittura la sua naturalità – più che perduta, innanzitutto umana. Tra questi autori io credo ci sia certamente Robert Walser.
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Tuttavia, ancor prima della modernità, alle sue soglie, nelle prime pagine del suo Zibaldone, Leopardi annotava, con acume introvabile tra i letterati odierni, che una poesia o un racconto esemplari, come qualsiasi prodotto artigianale o artistico, sono segnati piuttosto da una “bellissima negligenza” che da un controllo o dominio assoluto di una tecnica espressiva. Anzi, più si sente o si vede un controllo o dominio del genere, più l’opera è malriuscita. Leopardi, con molto anticipo, era riuscito a prevedere le secche nelle quali sarebbe andata ad arenarsi la questione creativa per i moderni romanzieri e scrittori, professionalmente attentissimi al progetto, al “plot” e ai momenti di riflessione dell’opera, ma completamente staccati da qualsiasi slancio fabulatorio e dalla pur minima adesione alle cose del mondo attraverso le parole. Walser chiosava: “Tutti quelli che non creano sanno con precisione come si fa per creare; ormai solo coloro che creano si fanno belli a questo riguardo, cioè si librano sulla ridicolaggine d’un abisso di inconsapevolezza”.
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Cerimonialità, ingenuità e semplicità dovrebbero ora condurre il discorso su quello che potrebbe definirsi un “problema tecnico”: lo “scrivere a orecchio”. Lascio la proal a Celati, che mi scriveva: “Tu ti chiedi quando incomincia la separazione tra “parlare e scrivere”. Qui devo immaginarmi tutto. Ad esempio, un musicista si abitua a sentire gli intervalli musicali con un “orecchio interno” per cui può trascrivere una musica che sente, oppure può scrivere una musica anche senza sentire i suoni eseguiti da uno strumento. Così faceva Beethoven che era sordo. Quando noi ci abituiamo a una lettura silenziosa, forse ci succede qualcosa del genere, cioè acquistiamo un “orecchio interno”. Ma nella musica si torna per forza all’esecuzione sonora di quello che è stato composto mentalmente. Anche nella forma scritta è sempre stato così, finché la letteratura era basata su canoni metrici. Ad esempio si sente la meraviglia armonica di un sonetto di Petrarca solo se lo si legge ad alta voce, oppure le ottave di Ariosto mostrano la loro prodigiosa fluidità solo se vengono recitate. Ma quando si comincia a imporre la lettura silenziosa, con i romanzi e i giornali, non più di duecento anni fa, allora non c’è più la necessità d’un ritorno all’esecuzione sonora. Ognuno legge per conto suo, e non si affida più al proprio orecchio, ma a una cosa molto più fantasmatica, cioè mentale, che riguarda le cosiddette idee di chi scrive. Questo si nota bene leggendo le recensioni ai romanzi settecenteschi, dove già è tutta una questione di approvazione o meno delle opinioni altrui”.
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Adesso, per concludere il mio discorso, dovrei forse parlare della scuola, perché secondo me la scuola, se presa bene, è come una palestra ideale per fare esercizi di vita. E tutto questo c’entra con Walser per il solito motivo, perché Walser ha avuto la forza e il coraggio di restare per tutta la vita un semplice scolaro nell’aula della letteratura, senza mai pretendere di diventare un maestro, un insegnante, un professionista o un professore. Una volta Guido Ceronetti ha scritto, a proposito delle polemiche sui libri di testo scolastici: “Il centro di tutto, per una rivoluzione mentale del genere, è il corpo del maestro, come nel teatro di Grotowski il lavoro si fa innanzitutto sul corpo dell’attore. I libri di testo sono dannosi e superflui. Deprimono lo slancio, opprimono il cuore. Pensate agli insegnanti, sono da riscoprire, da reinventare… Il libro che viene per insegnare va buttato senza rimpianti”.
Forse ci sono alcune cose che si possono imparare, riguardo allo scrivere, molto poche, i rudimenti diciamo. Poi è tutta una questione di ascolto e riproduzione: ascoltare e scrivere, ascoltare e scrivere, ascoltare e scrivere, per raggiungere gli automatismi giusti che liberino la mente. Io correggo pochissimo i compiti dei miei alunni, e mi piace in genere il modo sano in cui affrontano la scrittura perché si vede che si impegnano moltissimo per “farsi capire”. Correggo pochissimo e cerco di fare in modo che ognuno di loro faccia venir fuori la sua natura, e quindi la sua propria scrittura, il proprio talento compositivo, come avrebbe detto Tolstoj. Secondo me, soltanto questo può fare chi “insegna italiano”, o una lingua in genere: essere discreto e ascoltare l’altro intensamente, perché questo è l’unico modo per non confondere la padronanza di uno strumento con la ricerca esistenziale che ogni uomo, in completa solitudine, porta avanti sulla faccia della terra.
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Perciò il “secondo apprendimento”, l’esercitarsi, mi sembra l’unica strada consigliabile, se parliamo di scrittura o di qualsiasi altro mestiere in cui la mano abbia un potere esecutivo. Scrivere è una questione di mano, innanzitutto – e qui non intendo il termine mano solamente in senso meccanico-anatomico, ma proprio in senso automatico, combinato con una mente locale che ha un disegno e dei desideri, segue delle voci, immagina soluzioni e vie d’uscita. Se scrivere arriva a essere un processo automatico, forse si è superata finanche la “letteratura”: si pensi ai microgrammi di Walser, al progetto che esprimono complessivamente, alla disciplina del braccio e della mano e al tipo di carta “riciclata” su cui sono scritti, alla grafia minutissima e alla realtà più banale che diventa raccontabile attraverso di essi. Dai microgrammi di Walser io capisco che lo scopo di tutto quello che facciamo è semplicemente il buon funzionamento, o armonia, della vita – la nostra e quella del mondo esterno.
Tutto il resto serve a ben poco, e solo occasionalmente: la grammatica, la sintassi, lo schematismo critico, l’analisi, la perfezione stilistica. Forse serve a “riflettere sull’attività dello scrivere”, ma non a “imparare a scrivere” (o a vivere), per cui è necessaria una disciplina ben diversa, personale, che porti ciascuno a rinvenire quella che Leopardi chiamava “la propria originalità”: che non è un marchio di grandezza, ma significa ritmo frastico e sintattico che non sentiamo da nessun’altra parte e in nessun altro libro, se non in certe strane parole che ci attraversano qui e ora, che possono avere la facoltà di suggerirci con discrezione come scrivere il riassunto, comico o tragico, del nostro cosiddetto destino.
NOTA. È Benjamin a parlare di “involontarietà e intenzione” a proposito di Walser che scriveva senza mai correggere neanche una virgola. Benjamin dice che Walser scriveva con un’”imperizia casta, raffinata in tutte le cose del linguaggio”, tipica del “pudore dei contadini svizzeri”, inciampando di continuo in una lingua che non gli apparteneva: perciò quasi si scusava a usare uno strumento tanto difficile. Questa “trascuratezza”, o imperizia raffinata, è analoga a quella dei ragazzini. Inciampo e imperizia sono gli attributi più evidenti della loro scrittura.