Quando ero giovane, per un’estate ho frequentato un mercato sul lago di Garda. Con il nostro banco di chincaglierie ci spostavamo giorno dopo giorno nei paesi del circondario. Se me lo ricordo come un periodo meraviglioso è perché il posto che ci era stato assegnato era proprio di fronte a un venditore di fazzoletti, un piccoletto coi baffi che aveva una particolarità: conosceva a memoria tutte e tre le cantiche della Commedia e tutto l’Orlando Furioso, oltre a una caterva di poesie, in lingua e dialettali. La sua tattica professionale non consisteva nel decantare la merce in vendita, bensì nell’attaccare già dalla mattina un canto dietro l’altro, con grande stile interpretativo, e così faceva grandi affari.
Fino a metà del secolo scorso i romani, usuale lo spirito sapido, chiamavano ‘libri di pellicceria’ quei libri che formavano le biblioteche dei pastori della campagna romana. I più presenti sembra fossero di gran lunga i poemi cavallereschi d’ogni tipo, vera epopea e meraviglia del tutto italiana, ma pure ‘Le riflessioni sacre e morali sul vecchio e nuovo testamento’, ‘I reali di Francia’, ‘La Gerusalemme liberata’, ‘La strage degli innocenti’ di Marino, il poemetto ‘Paris e Vienna’, ‘Il testamento dell’abate Veccei’ ed infine le leggende popolari, specie le vicende di briganti e banditi, tra cui principalissima la storia di Giuseppe Mastrilli che
Con una palla di metallo
Ammazzò quattro sbirri ed un cavallo.
Un mio amico mi raccontava non troppi anni fa di una cuoca di Cosenza che cantava a memoria decine di migliaia di versi di una ‘Chançon de Roland’ in dialetto calabrese. E questi esempi sono solo per saltare qui e là, come le capre o la memoria.
Se comunque si ha la fortuna di approfondire appena l’argomento si hanno delle vere sorprese. A me per esempio è capitato si scoprire, non solo che pratica comune dei pastori in tutta Italia era la lettura ad alta voce, a sera attorno al fuoco, specie per l’appunto di poemi cavallereschi, non solo che erano abili lettori vale a dire possedevano l’orecchio per la letteratura, ma che quel popolo semi-nomade, che ci raccontano rozzo e ignorante possedeva e custodiva gelosamente libri in vere e proprie biblioteche, e perfino che alcuni di costoro, e non proprio pochi, scrivevano in prosa e specialmente in rima.
L’esempio fulgido che posso fare è quello di un tale, di nome Francesco Giulia ni, nominato ‘Chicche ru caprare’ (Francesco il capraio), nato a Castel del Monte in provincia de L’Aquila nel 1890 e colà deceduto nel 1970. In ottant’anni di vita non fece altro che avanti e indietro sul tratturo che dal Gran Sasso portava al Tavoliere delle Puglie, oltre a intagliare artisticamente il legno e collezionare una biblioteca di oltre 400 volumi. È lui a descrivercela in 24 stanze:
Tra le selve e sui monti anch’io pastore
Con il gregge ed a questo affezionato
Nel bel piano di Campo Imperatore
Quante stagioni io vissi beato;
E leggevo con cura e con amore
Dante, Petrarca e l’Ariosto lodato,
Questi sempre compagni e cari amici
Per cui viver potei giorni felici.
Una cavalcata su diecine e diecine di libri antichi ma anche molti moderni, i grandi romanzi italiani e stranieri, novelle, fiabe, poeti e narratori anche minori, da Leopardi a Gozzi, da Manzoni a Guerrazzi fino all’amato Tolstoj, su alcuni dei quali non risparmia giocose critiche. Ma soprattutto:
E da tanti maestri ebbi imparato
L’arte di poetar bella e civile,
Però in alto non mi son levato
Rozzo, non terso il mio povero stile.
A quanto con amore ho preparato
Spero che trovo un buon lettor gentile;
Di versi e prose ecco la mia raccolta
Spero che sia cortesemente accolta.
La sua raccolta, i suoi quaderni, sono stati in parte pubblicati a spese dei figli e col patrocinio del Comune in poche copie, da un editore torinese e specializzato in testi cinematografici, Lindau, nel 1992. Il libro, naturalmente introvabile contiene delle vere perle in prosa, come descrizioni del paese e del circondario, schizzi socialisti e libertari in prosa e soprattutto in rima (nel 1902 riuscirono a realizzare uno sciopero dei pastori) e in generale di presa di coscienza e di riscatto:
Fermamente voi convinte siete
Che lui porta la pace e l’abbondanza,
Non porta nulla, voi ben lo vedete,
Liberatevi un po’ dall’ignoranza,
Cercate di sapere e d’imparare
Quanto ci vuole a non farsi ingannare.
Oppure pacifisti:
Andare in guerra io non voglio mai
Perché in pace sto con la mia sposa,
Viver voglio felice e for dei guai
Che non mi piace una vita rischiosa,
La guerra la può far chi è guerriero
Ma io non voglio farla e dico il vero.
Racconti sulla condizione dei pastori e sulla loro passione:
Nelle sere d’inverno, riuniti attorno a un gran foco si leggeva e tutti ascoltavano attentamente, e i libri preferiti erano: l’Orlando Innamorato, l’Orlando Furioso, la Gerusalemme Liberata , i Regali di Francia, il Guerrino Meschino, le Mille e una Notte , la Storia dei paladini di Francia e Paris e Vienna. (…) Anche la Divina Commedia contava molti lettori (sempre fra i pastori parlando), chi aveva letto i poemi d’Omero e l’Eneide riusciva a capire qualche terzina dell’Inferno, il resto era come non averlo letto. Erano anche molto letti i romanzi storici, i Promessi Sposi, la Margherita Pusterla , Marco Visconti, la Battaglia di Benevento e altri.
Fino ad arrivare alla mirabile descrizione del ‘Diario della Grande Guerra’, dove si svela del tutto l’occhio partecipe e appassionato del narratore. Come quando prende parte a una razzia:
Tappezzerie, morbidi tappeti, specchi, scansie, stipi, e stipetti di ebano e di mogano, lampadari, tazze di porcellana, statuette, idoletti, seggioloni, tende di seta, di velluto; e chi sa quante altre cose che non so farne la descrizione. Passai in una cameretta con un comodissimo lettino; le strette pareti erano adorne di bei quadri e di altri oggetti; sopra un comodino una catasta di libri, un fascio di lettere; in ogni canto oggetti di lusso che di simili non avevo mai visti. Un cappello da signorina adorno di penne di struzzo; vesti di seta, biancheria della quale gli armadi erano pieni. Ebbi il coraggio di prendermi un libro.
O la descrizione di una licenza:
Ogni tanto mi voltavo indietro per guardare il loco dei tormenti che avevo lasciato, e mi auguravo di non più ritornarci. Vedevo la trincea austriaca a quota ottantacinque con la larga fascia dei reticolati, il ferro spinoso era tutto arruginito e a guardarlo da lontano pareva un giovane boschetto nel mese di ottobre, le foglie sono ingiallite.
Per tornare poi sempre alla sua fissazione:
Vi erano nelle vie molti zaini abbandonati ed altra roba, i miei camerati si misero a rovistarli; alcuni si davano da fare a tagliare una grossa forma di formaggio, chi prendeva fiaschi di vino, chi altra roba che non vi mancava nulla. In mezzo a tutto quel rimestamento di roba vidi due libri: le Rime del Petrarca, e la Leda senza cigno di Gabriele D’Annunzio; li raccolsi con premura e li misi nel tascapane.
E la disfatta:
Tutti vili, tutti traditori, nessuno era più buono, nessuno più animato da spirito guerriero e patriottico. Ed io nemico della guerra, soffrivo per quella fuga ignominiosa.
Ma con tutta evidenza è nei versi, nella poesia che Giuliani, il quale come abbiamo detto fu pure abile intagliatore in legno, dimostra la sua sensibilità e la sua arte. Sbaglierebbe però bersaglio chi vi cercasse l’Arcadia belante e zufolante: niente bolle di sapone, egli ci racconta invece di banditi e donne reali, efferatezze dei padroni e vicende quotidiane dei pastori, i languori della lontananza per sei mesi l’anno e, onnipresenti, i libri. Fino a quello che si può considerare il suo capolavoro e che racchiude, in 177 stanze della più bell’acqua, tutti i suoi temi: la ‘Storia Antica del Tratturo’.
Se vi piace ascoltar cari signori
E donne belle, mi venite accanto.
D’antichi cavalier, d’armi e d’amori
Io vi voglio avvertir non è il mio canto,
Ma sol di greggi amante e di pastori
Io questa volta di cantar mi vanto;
Dunque porgete volentier l’orecchio
Che a dilettarvi un po’ io mi apparecchio.
Speriamo che l’ingegno or mi si desta
Tanto ch’io la vo’ dir cosa ch’è nova
Però da poco è vile e modesta
E chi questo dirà certo si trova
Comunque io la fo manifesta,
Fresca la vena nel pensier mio piova,
Trarrò da rozze scene i bei concenti
Per farvi cari miei tutti contenti.
Di Settembre allor verso la fine
Lassù nel nostro Campo Imperatore,
Sull’alte vette, e pur sulle colline
Vi scende della neve il bel candore,
Bianche le valli ed il piano di brine,
Ti punge il freddo; le greggi e il pastore
Non vi ponno più star senza ripari
A partir convien che si prepari.
La partenza è ver che è dolorosa
Che distaccarsi non può far piacere,
Perché si vive una vita incresciosa
Delle Puglie nel vasto Tavoliere;
Chi lascia la consorte o l’amorosa,
I figli, i genitor. Triste mestiere!
Per la miseria e campar la vita
La famiglia non può viver unita.
A chi oggi potrebbe capitare di pensare di vivere in un mondo ormai affrancato, rispetto a un recente passato di brutalità e ignoranza sono dedicati questi versi:
Eravamo una piccola brigata
La sera tutti accolti intorno al foco
Lieti la magra cena consumata
Ma non c’era da stare in festa e gioco;
Fino a che la notte era inoltrata
A novellare con piacer non poco;
Senza la sorveglianza del massaro
Si faceva quel che gli era caro.
È bene notare a questo punto il modo con cui Giuliani sanziona più volte la becera opposizione dei padroni alla lettura e alle riunioni serali intorno al fuoco. Infatti a uno di questi mette in bocca:
Vi permettete di parlar d’Orlando
E grassa è tanta l’ignoranza vostra;
Non si deve andar mai veneggiando
in cose dove il ver non si dimostra.
Non è difficile vedere in quei padroni ignoranti i precursori di chi oggi gestisce la Cultura cosiddetta, nonostante l’opposta strategia di controllo. Difatti, in fondo, l’arma rimane la stessa: il tentativo di sopprimere quella che si potrebbe chiamare la tendenza naturale al narrare, quel luogo focale di ascolto e condivisione, l’abiezione del metodo di avvicinarsi alla scoperta e alla possibile conoscenza del mondo e della natura per mezzo della fantasia, perché è ciò che abbiamo in comune.
Molto, molto lontano da me il credere ai paradisi perduti, a mondi lontani e felici, esenti da rimozioni e privi di conflitti. Ma, con l’affidabilità che hanno le statistiche, pare che al giorno d’oggi un terzo degli italiani sia analfabeta d’andata o di ritorno e che la cifra cresca di anno in anno. Cento anni fa gli italiani che non sapevano né leggere né scrivere erano più della metà e andavano decrescendo. Sta di fatto che attraverso Giuliani e molte altre testimonianze scopriamo che la maggior parte dei pastori italiani della prima metà del secolo, in particolare i più anziani, non solo sa leggere, ma prova grande piacere nella lettura. Nella bisaccia (e in casa) tiene specie i poemi cavallereschi, oltre a romanzi. Scopriamo anche che l’onomastica in certi paesi vede una nutrita presenza di Rolandi e Armide, Angeliche e Orlandi. E scopriamo soprattutto, in Giulia ni, che la lettura non è sentita per niente come un diversivo o vacua evasione, ma invece è un modo per tentare la comprensione delle cose del mondo, oltre all’avvio di un processo di riscatto sociale. D’altra parte, chiunque abbia qualche anno e un nonno contadino potrà raccontare della venerazione, dei gesti sacrali con i quali erano trattati i libri e la loro lettura. E che spesso si trattava di classici italiani, e perfino che leggendo quei libri ci si sentiva parte di una tradizione, addirittura forse di una nazione.
Quel mondo era legato a doppio filo ai modi dell’oralità, e naturalmente i grandi poemi e la poesia da Dante fino al ‘600 la fanno da padrone, e vi si cimentano in parecchi. I versi sono scritti per esser letti ad alta voce, nati per sedurre nel canto, nella voce narrante e la lettura silenziosa, anche sintatticamente parlando non gli rende ragione. Giuliani ci dice di averne imparato il valore e l’importanza da piccolo, quando già pastore aveva ascoltato i versi antichi da un compagno anziano, attorno al fuoco, e aveva scoperto la malia della musica che c’è nelle parole, e che quella musica conteneva immagini.
Può essere che Francesco Giuliani sia un’eccezione, io non lo credo. Sta di fatto che raffinati com’erano, veri esperti del rito cui vanno sottoposte le parole, di quella cerimonia del narrare fatta di ritmi, toni e giusta distanza, c’è da giurare che si sarebbero trovati assai male al giorno d’oggi, quando il sapere della fantasia ha perso ogni credibilità ed è stato inviato all’esilio perpetuo.
In ogni caso è quello che succede e ci ha portato, tutti contenti, all’attuale galera, solo che oggi per essere rinchiusi bisogna leggere, difatti gli attuali padroni li avrebbero incoraggiati a leggere, i rozzi pastori del recente passato, come oggi incoraggiano il rozzo italiano, sebbene
Per lui che di cervello era assai duro
Era peggio che a dirlo a un muro.