Le prime parole di Dalla vita di un fauno di Arno Schmidt (traduzione e cura di Domenico Pinto, Lavieri 2006) fanno riferimento ad alcuni paragrafi di un testo di una setta pitagorica. La storia del protagonista Düring prende il via da un preciso capovolgimento di alcune regole magiche: “Tu non voglia additare le stelle” – ma il signor Düring “aguzza la mano verso l’alto”; “né scrivere sulla neve” – ma il signor Düring scheggia una “K” in una “crosta argentea”; né “al tuono toccare la terra”.
A quest’ultima intimazione rituale, il protagonista-narratore – impiegato e archivista ai tempi del nazismo, coltivatore di sogni di fuga e di isolamento, e stracolmo di risentimenti brucianti – risponde senza alcuna intenzione apotropaica, ma con ironia caustica e sprezzante: “In quel momento temporali non ce n’erano, sennò avrei già fatto qualcosa!”.
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Una volta cominciato il racconto, però, e archiviato (per ora) l’abbrivio illuminista, nel libro di Schmidt si coglie quasi subito un’ossessione maniacale per la scrittura, una profonda consapevolezza accompagnata a una insistente meditazione intorno al gesto della riproduzione della parola sulla pagina, come se i discorsi scritti dovessero pagare una loro insufficienza – ontologica, originaria, etc. –, venendo sottoposti a una martellante punteggiatura innanzitutto, ma anche a una reinvenzione lessicale puntigliosa e a una sintassi quantomeno improbabile, emergente da una frammentazione eccessiva e continua, che non pretende però di rassomigliare o di fare il verso ad alcun parlato.
Sorgere del sole: e lance scarlatte. (Però in fondo tutto rimaneva ancora fisso e blu ghiaccio, per quanto alti Lui tenesse i vuoti gobelin rosa salmone).
Fuori dal finestrino: tutti impietriti i boschi! (E là dietro rosa chiaro e blu); così calmo che Nessuno potrebbe passarvi attraverso (poiché dovrebbe avanzare in equilibrio sulla punta delle dita con occhi spalancati e braccia flesse; (e così forse mettere radici! Un folle desiderio mi prese, di essere io Quello: tirare i freni d’emergenza, lasciare lì le valigie, aguzze braccia funambole, occhi di cristallo, flint & crown)).
Fallingbostel: «Heil»: «‘Rivederci!»: – : «‘Rivederci!!»: – «Heilittler!».
Ufficio del circondario (= la rupe di Prometeo). Colleghi: Peters; Schönert; (Runge era ancora in ferie di partito); la signorina Krämer , la signorina Knoop (dattilografucce); Otte, apprendista.
[…]
«Vorrei essere nei suoi panni, signorina Krämer!» (Schönert, sospirando angosciato. Di nuovo): «Vorrei essere nei suoi panni». Ella lo considerò sospettosa dalla lunga coda dell’occhio (certo anche lei ha le sue preoccupazioni). – «Sicuro», asserì pio, «E se fosse un pezzo così: –» mostrò: circa 20 centimetri. – La sua bocca, in principio sbalordita plissé, si dissolse, in eddies and dimples, poi sbuffò camozza (io stesso ghignai con dignità, da caporeparto: lo Schönert, il porco. Già, quello non era sposato!), e andò di là dalla sua amica, le bisbigliò due frasi, mostrò – : (distanza di circa 30 centimetri), e anche quella rise forte e nervosa (ma durante tutta l’offerta continuò a girare con fare commerciale i suoi angoli di pagina. Poi: i suoi sguardi serpeggiarono prudenti attraverso gli oggetti fino a lui, Schönert).
[tratto da Arno Schmidt, Dalla vita di un fauno, pp. 16-17, Lavieri 2006]
All’editore che si apprestava a stampare il Fauno, Schmidt raccomandava di porre la massima attenzione perfino allo spazio tra una parola e un segno di interpunzione, calcolato evidentemente con certosina precisione: “anche la distanza del punto dalla parentesi non è immotivata”. Tuttavia il lettore non sempre trova il modo di fronteggiare e decifrare la sarabanda di artifici tipografici messi in gioco: doppi trattini, sovrabbondanza di esclamativi e interrogativi seguiti da due punti o punti e virgola, ma anche parentesi e doppie parentesi, corsivi a marcare i paragrafi, etc. Schmidt sembra un vero e proprio “pazzo di scrittura”, anche se non è chiaro se la scrittura sia causa di follia o terapia mentale. La sensazione è che nel Fauno l’esuberanza del sistema interpuntivo richiami i guizzi del non senso, come se il pensiero articolabile per iscritto fosse continuamente soverchiato da emozioni inesprimibili ma incomprimibili, una sorta di raffica di tic nervosi, o di balbettamenti, che precedono o rendono possibile l’espressione compiuta, l’espressione condivisibile attraverso parole codificate e comprensibili. Come quando uno si mette, mentre pensa o mentre ascolta, a fare disegnini ossessivi, serie di mandala su cui ancorarsi. L’edificio del Fauno sembra tutto puntellato da tic nervosi, quindi da piccoli interventi di punteggiatura (ma anche lessicografici e sintattici) per tenere su qualcosa che altrimenti sarebbe insensato, o non pronunciabile. Con la sovrabbondanza di punteggiatura di sintassi di lessico, è come se la pagina scritta esplodesse, come se le lettere dell’alfabeto e i discorsi in generale non fossero più sufficienti a manifestare tutto il pensiero e avessero bisogno di essere deformati, fatti a pezzi, riprogettati. O anche ridisegnati: la scrittura di Schmidt è come un pensiero/immagine o calligramma alfabetico, e le continue, ossessive precisazioni fatte di parentesi, sottoparentesi, virgole, chirurgie lessicali e tutto il resto forse segnalano anche una sorta di disperazione per l’impotenza di tradurre in segni scritti una miriade di visioni proprio ottichefulminanti e trascinanti, dalla forza delle quali sembra nascere l’impulso ela necessità di “smaltimento”.
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Ma il sintomo nevrotico è solo la maschera del vero problema; e il vero problema, per uno scrittore, è la scrittura in sé e per sé, la sua funzione. Schmidt vorrebbe far prigioniera la scrittura, quasi impedirle di diffondersi, bloccare la possessione e l’estraniamento che quasi naturalmente la caratterizzano. Enrico Bellone, in L’origine delle teorie (Codice, 2006), formula la seguente ipotesi sulla nascita della scrittura: “… la dimestichezza con numeri e somme e la capacità di ragionare in ambiti aritmetici [erano] preesistenti a tutto il successivo sviluppo culturale della nostra specie, e quindi innate, non apprese con l’esperienza. Non è allora banale la domanda di chi si chiede dove fossero collocate le forme primitive dell’aritmetica. E parimenti non banale è la presa d’atto di una situazione che riguarda lo sviluppo della scrittura e che non è molto intuitiva: la stesura di poesie, i resoconti sulla vita di un re, i primi testi sulle costellazioni e i pianeti, o i documenti sui rituali religiosi e su come rivolgersi agli dèi per ottenere qualcosa, emersero come deviazioni inattese rispetto ai bisogni originari che dovevano essere soddisfatti dal mero computo di anfore d’olio o di vasi d’orzo”.
Se la scrittura, fin dall’origine, è una “deviazione inattesa” dallo spazio astratto del calcolo e della “naturalissima” aritmetica, Schmidt è come se volesse riportarla in carreggiata, studiandone e computandone con acribia pause e silenzi, e neutralizzando il suo potenziale deviante. Domenico Pinto osserva, molto acutamente, che il sistema interpuntivo del Fauno è “un modo per stenografare il pensiero e limare il superfluo della narrazione”. Io aggiungerei che non solo la punteggiatura, ma anche la poetica sommaria del Nostro “taglialemma & architetto della prosa” sono i fondamenti di una intenzione che vuol rendere inoffensiva la lingua e sottrarre alla scrittura tutto il suo potere riflessivo o riflettente, tutto il suo foderamento fantastico, tutto il suo trascorrere insignificante (il “superfluo della narrazione”): in favore di una ecolalia muta, senza soluzione di continuità, quasi senza tempo. Da questo punto di vista, il Fauno è un’opera accuratamente calibrata e metodica, dove la scrittura non conosce abbandoni. Il lettore viene trascinato nel flusso dei discorsi quasi senza più sentire niente, senza più provare alcuna emozione (siamo lontanissimi, ad esempio, da Céline e dalla sua “piccola musica”). In Schmidt il discorso scritto si è fatto, nonostante l’apparenza, granitico e squadrato come un parallelepipedo, inodore e insapore come una medicina molto potente, e il tentativo di immunizzare – “illuminandola” – la scrittura, forse è quasi riuscito. Dico “quasi” perché tutti sanno, i guaritori come i malati, che dalle malattie da possessione, tra le quali potrebbe essere annoverata senz’altro la scrittura, non si guarisce, che periodicamente vi si ricade…
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Si pensi, ad esempio, ai casi di follia da scrittura curati dai guaritori del Mali: gente che aveva completamente perso il senno perché entrata nel labirinto della grafia, della scrittura, non posseduta in partenza, trattandosi di società orali, ma appresa, o non appresa ma frequentata, nei talismani e nei testi scritti dei ricettari di magia arabo-musulmani. Ossia gente impazzita a causa del potere della scrittura, la quale, “viaggia da sé”, ha una sua logica, è essa stessa una “matematica”, come avrebbe detto Vico, ha uno suo specifico e tremendo potere. La causa della “malattia da scrittura” potrebbe proprio essere lo scarto, o devianza: di colpo, io che scrivo, io che frequento le scritture magiche o non magiche (ma anche io che qui scrivo) sono “invaso”, posseduto da quest’altra cosa, posso dunque diventare un invasato. Come in tutti i casi di malattia da possessione, il rimedio è dare sfogo alla possessione, far manifestare in tutta la loro potenza e attraverso un grandioso rituale i demoni che l’hanno provocata.
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È mai possibile, allora, per chi scrive, sottrarre alla deviante scrittura il potere di suscitare l’invisibile e di fare a meno della propria essenza narrativa e possessiva? Può, colui che scrive, ingannare il tempo e guarire definitivamente, invece di essere continuamente trascinato fuori da qui, lontano da qualsiasi idea di salvezza? “La mia vita?!: nessun continuum!”, si affanna a ribadire l’impiegato-archivista Düring: solo un “mucchio di vivaci immagini maioliche”. Ma si può scrivere senza che le immagini suscitino immaginazione, senza in qualche modo far riferimento ai procedimenti fantastici che scaturiscono dalla sensibilità, e che non sono mai “propri” – la “mia vita” – ma sempre estranei e mediati da altri, e in rapporto ad altro? Si può annullare o render vano o ridicolizzare il rituale per la manifestazione dei demoni che presiedono all’atto creativo? Nell’intensificazione di queste domande, potrebbe forse mostrarsi tutta la discrasia tra un programma poetico finissimo e un esito che è sempre, comunque – anche quando vuol assomigliare troppo a un calcolo perfetto – deviante, non potendo la scrittura fare a meno di se stessa e della propria temporalità, della propria anima narrativa e del proprio potere incantatorio (anche se in Schmidt l’incanto assomiglia piuttosto a una catatonia verbigerante che alla meraviglia in senso più o meno classico).
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Così stando le cose, forse il residuo d’incanto presente nel Fauno consiste nei frammenti di vita giustapposti – perché la vita è proprio così, una giustapposizione di immagini; oppure sta nelle riflessioni sul proprio tempo mescolate alla vita quotidiana – perché anche qui è la vita a essere così, a dispetto di tutto quello che possiamo pensarne noi: un mescolìo continuo di significatività e insignificanza. Nel Fauno è come se la poetica dell’Autore fosse continuamente smentita dalla scrittura medesima, dal Rituale atavico che segnala in continuazione, piuttosto che problemi estetici, il fatto che non si può ridurre il gesto di chi scrive ad esecuzione di una intenzione intellettuale, ad archivio muto e calcolato di un “pensiero”. È indubbio, insomma, che Schmidt ce l’abbia messa tutta per far fallire la (sua) scrittura, sottoponendola a un duro programma razionalista e architettonico, per sottrarre alla narrazione il superfluo. Ma probabilmente, e forse per fortuna, è stato lui in quanto Autore a fallire.
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Chissà se non si debba pensare, magari senza nessuna prova paleo-antropologica, che la scrittura abbia origine da un Rituale (la scrittura come testo, come “narrazione”, non come lista e computo). Perché, ad esempio, i Dogon, ma anche tanti altri “orali”, non riescono a fare a meno di tracciare segni? Non scrivono ma tracciano segni. Gli antropologi dicono che questi segni sono “connessi a rituali”. È vero? Forse proprio no. Forse la scrittura non è “riferimento a un rituale” ma un Rituale nella sua essenza, ovvero un rituale spoglio, libero da credenze e da riferimenti, libero da miti più o meno risaputi e riconosciuti. Una “matematica” sic et simpliciter – un rituale vuoto di altro. Il quale ha poi dato origine a segni “forzati” a finire in parole compiute oppure a segni come quelli che le scimmie studiate dagli etologi dipingono, solo successivamente cioè agganciati a un senso e a un contenuto per giustificarne la produzione, con l’ossessione, forse propria degli occidentali o mediterranei, di dare un senso a tutto. Un dogon se gli si chiede perché sta facendo quel segno, dice che è perché così si è sempre fatto. “Così si è sempre fatto”, come dicesse: fa parte della specie Homo. Nello scrittore, allora, potrebbe essere rimasto un residuo di quel Rituale, di quel non senso, che però, in autori come Schmidt ma non solo, genera nevrosi proprio a causa della ricerca ossessiva, quasi un obbligo sentito da chi scrive, di trovare motivazioni interiori (la vita esemplare di Düring) o collettive (la critica al nazismo) o culturali (l’illuminismo ostentato) a questo “gesto innato”, a questo immotivato atto – immotivato nel senso che non siamo più in grado di recuperarne, noi che dobbiamo sempre destinare ogni nostro gesto a una “produzione”, l’intrinseco valore di espressione “biologica” o naturale.
Schmidt invece ha bisogno di motivare tutto: controlla e prende come le misure a ogni parola o segno che deve tracciare, quasi timoroso di provocare, nel passaggio sulla carta, un qualche danno irreparabile. Ma, in fondo, da che cosa si sente minacciata questa scrittura, da che cosa sente di dover difendersi, da che cosa mette quindi in guardia anche il suo lettore? Probabilmente, la scrittura di Schmidt deve difendersi proprio da se stessa, dal “superfluo della narrazione”, dal suo ardore magico e intrinseco spalancato sul vuoto e sull’insignificanza che a pie’ sospinto, e a volte leggero, accompagnano sempre qualsiasi opera scritta. È dalla malattia senza cause, dalla possessione dell’immaginazione, dal Rituale vuoto di gesti cerimoniali inutili che nascono e finiscono nel buio, che si sente minacciato l’illuminista Schmidt. È da tutto questo che tenta di scappare il Fauno, e lo stesso archivista Düring – da tutto questo, prima che dal nazismo o dalla Storia.
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In risposta a un amico che gli raccomandava di non affaticarsi troppo a scrivere, Schmidt diceva che il lavoro dello scrittore è un lavoro mortale. La descrizione che la moglie di Schmidt dà dello scrittore negli ultimi anni di vita, sembra corrispondere perfettamente a una tale consapevolezza che lo scrittore aveva della propria missione, ancorata a un lavorìo indefesso e infinito, da non eroe, intorno alla lingua, per depurarla da tutto quanto di mondano e di ritualmente vuoto possa avvolgerla (derivazione parlata, movimenti liberi e fantastici, etc):
“Non più passeggiate – nessun riposo in giardino – nessuna domenica – a malapena la possibilità di una conversazione: solo risposte assenti e nervose alle domande: nel migliore dei casi. Le sue labbra si muovevano, provando le parole, in un continuo mormorio. Totale noncuranza della propria salute”.
Il nodo ultimo e fatale della scrittura del Fauno, sembra essere il lavoro, o meglio un’operosità vuota e ossessiva intorno a cui far girare tutto, a cominciare dalla propria vita, dal proprio “io”. Scrivere, per Schmidt, sembra piuttosto una condanna professionale, che una pratica liberatoria e creativa, seppur illusoria. Sostenere da questo punto di vista che il lavoro dello scrittore porta alla morte, è più che lecito. Del resto, qualsiasi lavoro porta alla morte, qualsiasi operosità è mortale. La scrittura, tuttavia, porta alla morte dello scrittore, ma ancor prima porta alla morte della scrittura così come l’abbiamo intesa, e probabilmente ancora in pochi la intendono, e cioè strumento per raccontare e per creare, per esorcizzare con una cerimonia magica l’inquietudine insormontabile della vita.
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Ma più che sulle nevrosi dei nostri più o meno grandi scrittori, probabilmente faremmo meglio a riflettere sulle culture che non scrivono. Perché non scrivono? Ed esistono culture che hanno abbandonato la scrittura? E se l’ossessione per la scrittura (di Schmidt e di altri, forse anche di tanti dilettanti grafomani moderni), se questa malattia così lucida e calcolata, annunciasse proprio un abbandono del genere?
Chissà se in un certo senso proprio noi non abbiamo già abbandonato la scrittura. Lo scrittore al quale eravamo abituati era uno che affrontava un’impresa, consapevole di dover mettere la scrittura al servizio del pensiero, ma anche di doversi a sua volta mettere al servizio di un mezzo che è allo stesso tempo informe, e dunque potenzialmente flessibile all’infinito, sebbene già tutto “strutturato”, animato da una sua implacabile logica, che ha un suo andamento, perché la scrittura appunto “si fa da sé”. L’impresa consisteva nel riuscire a comprendere come pensiero e scrittura potessero modellarsi reciprocamente. Ecco, se passiamo da questo modo di entrare in relazione con la scrittura, che sembra obiettivamente il modo, l’unico, a quello attuale della iper-scrittura, della scrittura dei Barbari di Baricco ad esempio, delle pagine e pagine dei giornali, ma anche di molte delle migliaia di pagine in vendita nelle librerie, sembra che la scrittura sia diventata da noi oralità, una vuota, nevrotica, ossessiva oralità sganciata completamente dal pensiero, dalla sua potenza collettiva e fantastica. Esprimersi, parlare, srotolare parole. Tutti parlano dalla mattina alla sera. E tutti scrivono moltissimo, inutile dire; ci sono persone che non fanno che pubblicare libri, che evidentemente non hanno nulla a che fare con la scrittura, sono solo ansia di esserci, perché si è se si scrive, così come si compare alla televisione.
La scrittura, abbandonata a se stessa, sganciata dalle immagini del pensiero universale, è diventata una chiacchiera colossale e mortale, e Schmidt è stato forse uno dei primi a captarlo, proponendo le sue soluzioni iperformali e astratte quasi come un accanimento terapeutico, sviluppando i suoi pezzettini di pensiero che assomigliano ai post di un modernissimo, raffinatissimo blog, dove tutti però – autori e lettori – sembrano aspettare niente altro che una salvifica iniezione letale.
– Dedico questo scritto, con amicizia e affetto, a Barbara Fiore.