Come la Bibbia per ogni buon cristiano così Pinocchio (sono i due libri più diffusi al mondo) occupa un posto decisivo nel cuore e nell’immaginario di ogni bambino. A me successe qualcosa di assai curioso. Avevo una stanza nel Palazzo Ginori a Firenze che dava su una viuzza laterale, Via Taddea. Lì nel ’64, senza riscaldamento, perché nelle stanze a pigione di solito non c’era, compivo il tour de force per laurearmi tra i primi e uscire dall’incubo di studi poco amati. Soprattutto nelle belle giornate di primavera inoltrata, quando mi affacciavo su quella stradina, allora ancora piena di vita e di voci popolane, io ‘sentivo’ di conoscerla già da prima, come se fosse un ambiente che mi apparteneva, che appartenesse alla mia memoria inconscia. Altro fatto curioso è che nel contiguo Mercato di S. Lorenzo dove andavo vuoi per le compere vuoi per l’allegria che davano i banchi di frutta all’aperto nella piazza retrostante e gli altri che vedevano vestiario e roba per turisti nelle vie che dal mercato di dipartivano, non mi ero mai accorto dei facchini che la sera provvedevano a portare nei magazzini, ex stalle, i banchi a due ruote, così che gli spazzini potessero provvedere alle pulizie e la mattina alle 4 iniziavano a riportarli. Circa trent’anni dopo, per i curiosi casi della vita, mi ritrovai in veste di facchino (un lavoro che avrei continuato per quasi vent’anni), anzi di barrocciaio come sono chiamati a Firenze questi portatori di carretti. Passò qualche anno quando (si lavorava per zone) dovetti sostituire per un periodo qualcuno che portava a dormire i carri a lui affidati in un magazzino di Via Taddea e fu lì, una sera, che alzando gli occhi lessi su una lapide che in quella casa (l’unica con tre gradini esterni d’accesso) era nato Carlo Lorenzini detto Collodi. E fu un lampo. Mi rividi alla finestra da studente, capii perché già sentivo di aver conosciuto quel posto. Era quella la casa triste dove di stenti erano morte quattro sorelline e Carlo, per evadere dalla pena che sentiva in casa, chissà quante volte si sarà messo seduto su quei gradini in pietra. E nei due sporti accanto alla sua porta chissà che ci sarà stato? Un piccola stalla? Una bottega artigiana? Un falegname magari, come quello che c’era allora, un mio amico, un falegname bricoleur, anche lui di nome Carlo? E se leggete verso la fine del libro i lavori a cui si dedicava Geppetto, non sono certo per gente di un paesello, e molte delle scene ‘pubbliche’, cioè per la via, descrivono un’umanità più cittadina che paesana. Quando seppi che Benigni stava progettando con Cerami (suo sceneggiatore abituale, ma che è scrittore tutto mentale e costruito) un film su Pinocchio, misi a fuoco tutte quelle mie impressioni, rilessi il libro e poi scrissi un articolo che pubblicai e mandai a Benigni supplicandolo di non progettare il film senza prima essere passato per Via Taddea, magari di sera coi finto-vecchi lampioni, ma che creano molta atmosfera. Pinocchio (che in fiorentino voleva dire ‘pinolo’) era nato lì. Tempo dopo mi rispose una segretaria della Melampo (il cane del libro e la casa cinematografica di Benigni) per ringraziarmi e bla bla. Al Maestro di sicuro il mio articolo e le mie calde raccomandazioni non gliele avevano passate. Il film, poi, ambientato in un paesino medioevale, come è noto, si rivelò un flop.
Di Collodi e di Pinocchio si è detto tutto e il contrario di tutto. Ci hanno arzigogolato linguisti, strutturalisti, psicanalisti e marxisti. Ma Collodi chi era? Un giornalista di successo (locale) che viveva con la mamma e il fratello sposato e che a un certo punto della sua vita si era messo a scrivere libri per le scuole e poi, dopo aver egregiamente tradotto le fiabe di Perrault, ‘per caso’ gli era capitato di scrivere a puntate su un giornale ‘Le avventure di Pinocchio’? Oppure quel ‘per caso’ del capolavoro era nato su una sedimentazione di qualità (intellettuali ed umane) straordinarie?
La Firenze del nostro immaginario collettivo è quella di Lorenzo, il Pericle della modernità. Ricordo Maurice Partouche, un amico francese, scrittore che era venuto a trovarmi nella bella casa dove abitavo sulle più prossime pendici di Monte Morello, a due passi da Villa Colletta dove veniva a frescheggiare dal suo amico generale il Leopardi: “Mais Carlo ici on tue le temps”. Scendendo nella stradina fra olivi e cipressi apparivano campanili, cupole e torri e Maurice aveva splendidamente sintetizzato: ti svegliavi la mattina nel XX secolo e subito venivi proiettato in quell’età dell’oro (il Rinascimento), ecco perché l’amico poteva concludere che a Firenze ‘si uccide il tempo’. Con l’abiura cui la Chiesa costrinse Galileo era finita qualsiasi libertà artistica e intellettuale e Firenze si era riempita di conventi e la sua vita si era murata, compresa quella della sua aristocrazia tesa oramai unicamente a perpetuarsi mantenendo proprietà e privilegi (un’insegna fiorentina di oggi infatti tranquillamente recita: Principi Antinori, viticoltori dal 1300).
Quella stessa aristocrazia (i Ginori Conti) sotto la cui ala in una casa miserabile destinata alla servitù era nato Collodi. Di vivo allora vi era a Firenze solo una plebe becera ed allegra e certamente non priva di humour e intelligenza. Così come oggi di vivo vi è solo il commercio della moda e del turismo. Nello Zibaldone, qualche anno prima della nascita di Collodi (1821), Leopardi poteva annotare riguardo a questa povera Italia: “purtroppo a differenza della Germania, non è neppure una nazione, né una patria”, mentre Firenze “ora è inferiore a molte altre città negli studi, scrittori ec. e fino nella cognizione della colta favella…”. Anche per Leopardi di vivo restava solo il popolo minuto: “Il popolo fiorentino racconta ancora di Dante e dello stesso Machiavello”. Ed ecco Collodi sulla sua Firenze: “Prima della malattia della Capitale provvisoria (brutta malattia che lasciò al Municipio fiorentino un ingorgo fra la coscia e l’inguine, di circa duecento milioni di debito) Firenze somigliava, per il suo fabbricato alla Firenze falsa de’ nostri giorni, salvo che aveva un mercato inutile di meno, e un duomo senza facciata in più”. Benevolmente Collodi omette di citare lo sventramento operato nell’area mediovale (allora ghetto ebraico) per erigere quel pomposo inno alla borghesia trionfante, che è l’attuale piazza della Repubblica. Gli unici ideali degni di essere abbracciati erano stati per Collodi quelli di Mazzini e per due volte fu volontario nelle guerre d’Indipendenza. E poi cercò ancora l’azione fondando giornali volti a creare una coscienza civile e non solo. E poi, sentendosi andare verso la fine, stanco di quel mondo e di quella società per i quali aveva tanto lottato e che avevano sostanzialmente tradito i suoi ideali, decise di rivolgersi unicamente al mondo dei ragazzi prima coi manuali scolastici e poi con quel conclusivo capolavoro universale.
Ed ecco in chiusura una sua notarella giornalistica a proposito della novità della luce elettrica che, al moderno Diogene del “cerco l’uomo”, avrebbe purtroppo illuminato (leopardianamente) un essere degradato dalle sue stesse, perverse contraddizioni: “Invece dell’uomo si trova quasi sempre un mammifero, che crede in buona fede di aver avuto l’uso della ragione, perché il Creatore, lì per lì, si dimenticò di fargli la coda… un mammifero che in barba ai suoi principi democratici e repubblicani si regala da sé il titolo di ‘re degli animali’ per avere così il diritto di mangiarseli… che fonda gli ospedali e gli ospizi marini, e nel tempo stesso studia il perfezionamento della dinamite… un mammifero che adopra il cloroformio… e poi fabbrica le mitragliatrici e le palle esplosive… se questo mammifero qui, che nel linguaggio scolastico si chiamerebbe “una antitesi” o “una contraddizione di termini”, a voi piace chiamarlo “uomo”, padronissimi tutti!”. Che Collodi abbia cercato di dominare quella febbrile, insonne disperazione che è dei grandi (e la solitudine che le è compagna) con l’alcol, il gioco d’azzardo, il fumo, è mal di poco. Pinocchio certamente fu, per lui vecchio e stanco, un dono della Musa dai Capelli Turchini.