Era domenica pomeriggio. Sedevamo davanti a un bicchiere di vino e valutavamo se, malgrado tutti i nostri dubbi, fosse possibile realizzare il progetto del film.
Avevamo intenzione di fare un film su Robert Walser. Potevamo partire da uno o dall’altro dei luoghi dove lo scrittore aveva fatto tappa, dalla banca cantonale, per esempio, oppure dall’albergo ospizio Blaues Kreuz. Stavamo discutendo sulle difficoltà del rapporto con Robert Walser, sul rispetto che gli era dovuto e, cosa ancora più pressante, sulla necessità di non avere rispetto; sulla paura di smarrirsi esclusivamente nella leggenda di Walser; ciascuno sulla propria vergogna.
La discussione che era partita felicemente era arrivata a un punto morto.
Non volevamo ammetterlo.
Amavamo Walser e lo amavamo non senza gelosia nei confronti di altri che pure lo amavano. Chi lo pretendeva soltanto per sé l’aveva già perduto.
Ognuno di noi in quell’istante era gravato e oppresso dall’eredità di Robert Walser.
Finalmente decidemmo di andare a vedere il Blaues Kreuz benché già sapessimo che l’albergo non era aperto la domenica.
Una volta davanti all’edificio scoprimmo che la domenica non era l’unico giorno di riposo. Un cartello ci informava che il Blaues Kreuz sarebbe stato ristrutturato e pertanto sarebbe rimasto chiuso a tempo indeterminato.
La piazza centrale di Biel, animata nei giorni lavorativi, era deserta. In cielo si levavano formazioni di nuvole.
Senza alcuna premeditazione, giusto per fare qualcosa, uno di noi attraversò la strada e cercò di aprire il portone. Cedette.
Entrammo nell’atrio.
Ci guardammo intorno.
Il bancone tutto graffiato che un tempo doveva essere stato la reception occupava molto spazio. Al contrario, la scala davanti a noi ne occupava poco. Alla nostra destra, dietro la porta della sala da pranzo solo accostata, si sentivano voci e improvvisamente, senza che riuscissimo a comprendere da dove fosse spuntata, davanti a noi era apparsa una donna.
Era piccola di statura e aveva i capelli grigi pettinati all’indietro raccolti in una crocchia. La signora parlava tedesco non dialettale. I bambini, diceva, per sbaglio non avevano chiuso a chiave la porta d’entrata. Non erano figli suoi, aggiunse, ma l’albergo era chiuso per davvero, probabilmente non sarebbe stato solo ristrutturato ma demolito, la decisione spettava alla direzione edilizia di Biel che avrebbe dovuto decidere nei prossimi giorni. Ci chiese cosa desiderassimo e se potesse esserci d’aiuto.
“In questo albergo ha abitato lo scrittore Robert Walser, perciò volevamo visitarlo”, disse uno di noi. Lui conosceva le date, disse il suo nome e presentò anche noi.
Lei ripeté i nostri nomi.
“Sì, il signor Walser”, disse. “Io lavoro qui da ventotto anni. Allora, quando presi servizio, nessuno era in grado di dire cosa ne fosse stato del signor Walser. Per lungo tempo, una sua valigia che egli non aveva portato con sé, era stata conservata in solaio ma poi, quando fu decisa la ristrutturazione, è stato tutto sgombrato e gettato nella spazzatura”.
“Anche questa valigia?”, chiese uno di noi e lei: “Sì, anche la valigia”. Era stata messa dietro a dei doppi vetri non più utilizzabili, non aveva nessuna etichetta, tuttavia lei sapeva che doveva trattarsi proprio della valigia del signor Walser.
Nessuno se ne era mai interessato fino a quando, più tardi, era venuto un altro signore a chiedere le stesse cose. La cosa le aveva fatto piacere.
L’altro signore voleva vedere la stanza del signor Walser proprio come noi adesso. Lei aveva le chiavi di tutte le camere ma disgraziatamente proprio questa chiave, la chiave della camera del signor Walser, era scomparsa cosicché poteva mostrare anche a noi soltanto la stanza adiacente, e se la cosa ci avesse fatto piacere, da lì ci avrebbe condotto, attraverso il lucernario, sul tetto, in un punto che si trova esattamente sopra la camera del signor Walser.
Le eravamo grati e ci saremmo fatti accompagnare senz’altro ma c’era ancora un dubbio che doveva esserci chiarito: come poteva essere così sicura che il signorWalser avesse abitato esattamente in quella stanza della quale mancava la chiave?
“Il signor Walser stesso l’ha descritta”, disse lei.
“Dalla mia stanza vedo il lago”, ha scritto.
“Quella è l’unica stanza dell’edificio con vista sul lago se ci si mette sull’angolo estremo della finestra, sulla destra, e ci si solleva sulle punte dei piedi”.
Uno di noi disse a bassa voce: “Perché non sono venuto qui molto tempo prima?”.
A questa domanda non c’era risposta possibile.
La signora tirò fuori il mazzo di chiavi da sotto il grembiule, chiavi antiquate infilate in un anello di ferro. Ci precedette. Noi la seguimmo.
Sulla scala, ricordò uno di noi, quello che aveva fatto la domanda, un tempo c’era una corsia rossa trattenuta da bastoncini d’ottone. In una delle stanze lui aveva trascorso la notte di Natale dell’anno 1952 con due pittori che confezionavano quadri con betulle per i mercatini delle fiere annuali, betulle al lago, betulle al fiume, betulle in palude, betulle sul mare (solo su ordinazione). Forse quella notte di Natale aveva addirittura dormito nella stanza di Walser senza sapere nulla di lui poiché il suo racconto, Der Spaziergang, gli fu donato solo due anni dopo, nel 1954, dalla biblioteca di Biel, e solo allora lui aveva scoperto Walser.
Eravamo arrivati di sopra. La signora si volse verso di noi e disse: “È tutto molto sporco, nelle stanze non viene più tolta la polvere”.
Si fermò davanti a una porta, infilò senza guardare una delle chiavi nel buco della serratura. Ci sembrò che qualsiasi altra chiave sarebbe andata bene ugualmente.
Entrammo dietro di lei.
Andò subito all’angolo destro della finestra. A nessuno di noi venne in mente di mettersi vicino a lei per verificare se, per caso, si vedesse il lago.
Nella stanza, su un nudo pavimento in assi d’abete, c’erano un letto, un armadio striminzito, un tavolo.
“A voi la stanza deve apparire misera, disadorna, quasi tutti hanno la stessa impressione, corrisponde all’idea che ci si è fatta del signor Walser. Però loro dovrebbero sapere che il Blaues Kreuz, all’epoca in cui vi risiedeva il signor Walser, era una delle migliori case del posto. Bene, mentre procediamo oltre guardate dove mettete i piedi, in solaio è buio, qualcuno ha già battuto la testa”.
Saremmo rimasti volentieri un po’ più a lungo nella stanza, l’odore ci tratteneva. Lei però non concesse alcun rinvio. Fece un movimento con la mano e già ci trovammo fuori in corridoio.
Il sottotetto che lei aveva chiamato solaio era ingombro di mobili. Sedie, sofà, rotoli di tappeti, tavoli, ceste, scatole, casse e reti erano accatastati l’uno sull’altro e formavano torri traballanti. Ci sembrò che nulla fosse stato gettato nella spazzatura. Senza alcuno sforzo la signora aprì il lucernario e ci trovammo sulla superficie in lamiera del tetto. Il sole ci accecava. Nel cielo erano comparse più nuvole, sul lago volteggiavano nibbi. Davanti a noi si allargava la città, un genere di città che Walser non avrebbe mai riconosciuto come la sua piccola metropoli. La città era diventata più grande e allo stesso tempo più provinciale.
Uno di noi volle sapere se il tetto aveva sempre sorretto il peso della neve. Nel passato ne cadeva molta e ogni tipo di vento aveva un proprio inconfondibile nome: vento del lago, brezza, vento di montagna, föhn.
“Voi siete di Biel, non è vero?”, disse la donna e guardò il suo orologio. Non voleva essere scortese ma doveva pregarci di affrettare la partenza e poi c’era ancora il libro sul quale avremmo dovuto registrarci, poiché lei annotava tutto ciò che aveva a che fare con il signor Walser.
Ci condusse per un’altra scala più ripida, giù nell’atrio, ci pregò di attendere un attimo.
Mentre aspettavamo guardammo i manifesti e gli avvisi, confezionati da un’organizzazione di disoccupati, già di nuovo impolverati, strappati, imbrattati.
Il silenzio si dilatava. Anche nella sala da pranzo non si sentivamo più voci. Il tempo trascorse. La signora ce ne aveva lasciato molto.
Quando ritornò mise il libro sul bancone. Aveva preparato una pagina bianca con la data. Lì scrivemmo i nostri nomi e lei senza fretta prese il libro e ancor prima che potessimo sfogliarlo li lesse ad alta voce.