Ci sono due atteggiamenti comprensibilmente simmetrici nella prefazione di Celati alla nuova edizione di Alice disambientata e nella postfazione scritta da Andrea Cortellessa. Celati mi sembra prenda un po’ le distanze. Quando ad esempio descrive il tipo con il tascapane che alla fine di una delle sue lezioni di letteratura lo sgrida perché non si occupa di problemi sociali. Un tipo del genere, come se ne ritrovano nelle tavole di Andrea Pazienza e in Ecce Bombo di Moretti, credo sia una figura eterna in Italia, forse addirittura dalla nona satira di Orazio, quella del seccatore, e forse anche più anticamente. A noi è toccato in questa versione marxista-leninista, ma non è una novità. Non credo sia stato lui il protagonista degli anni ’70 e certamente non dei seminari di Gianni in quegli anni, dove c’era gente interessante e piuttosto particolare. C’erano ad esempio spesso Luciano Cappelli e altri di Radio Alice, oppure altre persone che si accostavano a Gianni per i suoi romanzi. Io avevo iniziato a seguire il suo corso fin da prima dell’occupazione e non distinguo bene le due fasi, a me pare fluiscano molto bene una dentro l’altra. Ne seguii anzi due, uno più bello dell’altro, dopo quello di Alice uno sulle metropoli e il romanzo. Quello che trovavo molto attraente in Gianni e che trovo tutt’ora piuttosto raro in chi si occupa di letteratura, è l’apertura enciclopedica, curiosa di tutto, che condivideva con Calvino e pochi altri in quegli anni e che si ritrova tutta in Alice disambientata. Non si tratta in poche parole di costruire un fortino chiamato letteratura con cui fare la guerra a altre discipline a forza di specificità (e ahimé per la vita accademica concorsi), ma al contrario di uscire all’aperto, dove ci sono tante idee, dalla linguistica alla psicanalisi, tante altre lingue oltre la nostra, tanti romanzi, canzoni, insomma contaminare e liberare, per parafrasare Silvio Trentin, usare Alice e l’idea di figura (non simbolo, come spiega fin dall’inizio) per seguire nuove idee. Un po’ come dice Diderot quando racconta che le sue idee sono come l’andare dietro alle belle donne che incrocia per strada, si animano per una speranza e si sviluppano in un corteggiamento, incontrano e poi magari muoiono, ma poi si rialzano e riprendono il cammino.
Gianni Celati è stata per me la parte migliore degli anni universitari (e anche dopo ho sempre guardato il suo lavoro e la sua vita con grande ammirazione) e quindi anche del ’77. Direi che in generale c’era in quegli anni troppo politica che ci si era posata addosso nel decennio precedente, un’enfasi sul senso universale di tutto che faceva di Alice, dell’invenzione di Alice, una preziosa via di fuga, per usare il termine deleuziano. Lo stato borghese non solo non aveva un cuore, come credevano le Brigate Rosse, legate com’erano a un positivismo ottocentesco e alla sua visione dello stato, non poteva e non può essere affrontato in questo modo, come se ci trovassimo costantemente in un duello tra noi e loro in cui il noi è buono e puro e il loro il male del mondo. Se così fosse si potrebbe anche tentare una rivoluzione, prendere le armi se necessario; si capisce che la prospettiva di felicità futura potrebbe valere qualche settimana o anno di sacrifici in clandestinità derubando banche e nascondendosi ai propri cari. Ma è una follia. Come spiegava Foucault in quegli anni, immaginarsi il potere in questo modo è del tutto inadeguato, la sua natura molecolare è molto più diffusa, una rivoluzione comunista che parta da queste premesse non si merita altro che Stalin. Come racconta Fedro nella favola in cui le rane chiedono a Giove un Re e lui butta un legno nello stagno, che loro adorano fino a che non si accorgono che non è nulla, e quando lamentandosi chiedono un vero re gli viene mandato un serpente che le fa fuori tutte. Invece il mondo va attraversato, creativamente, capendo in quale modo, dove e come e perché si aprono delle possibilità, cosa esprimono i conflitti e chi siamo noi, a quale mondo e comunità apparteniamo, come questa a sua volta possa cambiare, o costringerci a cambiare. Alice è la strada che io ho poi seguito non solo scrivendo, ma cercando di capire dove spostarmi, con l’altra grande ricchezza di quegli anni, che era la gloria dei pezzenti. Lontani dai modelli consumisti che dominano oggi televisioni e giornali, forse un po’ in seguito alla crisi petrolifera che ci aveva fatto assaporare come una riduzione dei consumi e delle risorse non sia necessariamente una tragedia, quello che ancora mi sembra bellissimo nelle pagine di Gianni (ma anche nella sua vita e in quella di molti che hanno attraversato quegli anni) è una libertà spirituale e intellettuale che non può non cominciare dal prendere le distanze dai modelli comuni di successo e fallimento. Perché, come aveva scritto Gianni in una prefazione mai utilizzata per Boccalone, bisogna farla finita con questa idea del successo, quel che è successo è il successo, è qui sembra di sentir parlare insieme l’Alice di Lewis Carroll e quella di Via del Pratello. Forse anche il tipo con il tascapane.
Tutto questo mi sembra ancora molto bello e lì, in mezzo a noi, basta mettersi in ascolto o guardare e un coniglio bianco che corre gridando “sono in ritardo, sono in ritardo!” lo possiamo vedere, e dietro di lui scorrere una storia, un filo da seguire.
La congiuntura favorevole bolognese del ’77 fu che dietro al coniglio si misero a correre tutti. Si sciolse Lotta continua e credo più o meno tutto quel che restava di organizzazioni post-sessantottine, persino il PCI subiva negli individui anche se l’organizzazione era ufficialmente schierata contro di noi, un’emmorargia inevitabile di simpatia e partecipazione all’insguimento del coniglio bianco. Ce n’era così bisogno! Imbalsamati in un filosovietismo che aveva fatto perdere parecchi treni della modernizzazione, perché restare schierati in un partito e non fare come Cosimo del Barone Rampante di Calvino, perché non correre gli spazi aperti di una società postideologica tanto attraente?
Finì tragicamente, come sappiamo. Carriarmati e poi l’omicidio Moro. Ma quella ricchezza che è come una grande fiducia nella società umana e nel mondo, un andare verso gli altri e le esperienze, più a fondo di quanto non consenta la politica che è la disciplina con cui convenzionalmente ci occupiamo della cosa pubblica, resta palpitante in qualche libro e qualche rievocazione, tanto che Guido Chiesa riesce a raccoglierla abbastanza bene nel suo film su quegli anni.
Da questo pieno e caldo mondo di persone Gianni mi sembra prenda un po’ le distanze, un atteggiamento che in lui ha varie ragioni e che in parte anzi sono proprio come è lui e del resto ognuno è fatto com’è fatto. Forse grazie a queste distanze riesce a continuare un percorso profondamente idiosincratico e interessante e a non cercare consensi lusingando i suoi seguaci. Ma questa distanza mi incuriosisce perché al contrario Cortellessa, che biograficamente è venuto dopo di lui e anche dopo me, mostra un’aspetto nello scrivere di Alice che è il contrario di quello di Celati, come vedesse o intuisse una sorgente e volesse farsi indicare come arrivare a berne qualcosa.
Non sono un profondo conoscitore del lavoro di Cortellessa, l’ho letto occasionalmente e ho partecipato con lui a qualche conferenza. Mi è smpre parso un bravo studioso che inevitabilmente, come tutti quelli che in qualche modo ne vivono, fa il fortino della letteratura, con una discussione sulla contemporaneità che è nel suo caso fatta di poetiche e stili, dichiarazioni di intenti e compagnia cantando. In questa battaglia vince sempre ovviamente per lui la neoavanguardia, che si è occupata per oltre quarant’anni di sistemare i suoi cannoni e spiegare a se stessa e agli altri che idea di romanzo si dovesse avere, cosa sia lo stile, approfondendo tutte le questioni teoriche che si potevano approfondire e discutendole fino a esaurimento dell’avversario, svuotamento della platea e annichilimento del senso di quanto predica. Invece è letteratura anche la marca di un tabacco, una canzonetta che ascoltiamo per strada, la frase di una pubblicità.
Letteratura può essere un biglietto della spesa, qualcosa che ancora non è parola e ci fa immaginare. Leggendo Cortellessa ho finalmente sentito che questa sua disciplina si faceva contagiare da qualcosa che si metteva in moto e anche se Alice disambientata forse è datato e certamente nel ’77 non c’è alcuna risposta che ci riguardi o ci parli oggi, leggere il suo desiderio di avvicinare questa materia mi ha fatto pensare che, come i militanti che in quegli anni uscivano dai gruppi e si facevano delle storie, anche per lui ci sia un senso di liberazione in Alice e che di questo la sua intelligenza critica e la sua erudizione non potranno che avvantaggiarsi, perché chissà quali conigli bianchi sarà in grado di vedere uno come lui se invece di aspettarli sulle griglie della trasgressione stilistica vedrà il prato aperto in cui i libri si danno forma in quel tragico e curioso insguimento di forme ereditate, vissuti inenarrabili e appuntamenti verso cui siamo in ritardo che è il romanzo.
pubblicato su l’Unità del 27 febbraio 2007