Dio odia i tristi”
R. W. a Lisa, 1902/03
“Esiste una specie di pensiero che potrebbe essere chiamato con piena verità il pensiero girovago. Ordinariamente si presenta ai monaci sulle ultime ore della notte e conduce la mente da
una città all’altra, da paese a paese, da casa a casa”.
Questo pensiero girovago è una malattia che Evagrio Pontico, monaco egiziano del IV secolo, da cui ho tratto questa citazione, sa curare. Ma una volta vinto, dice “la vittoria ti lascerà una grande sonnolenza, una pesantezza alle palpebre, un senso di freddo, sbadigli e languore fisico, ma con la diligente preghiera allo Spirito Santo disperderai queste penose tracce”. Mi domando se tutti i fannulloni e i buoni a nulla non siano le vittime di questa vittoria sul pensiero girovago.
Fra le vittime del pensiero girovago annovererei Robert Walser e tutte le creature che vagabondano con passo lesto e svagato nelle sue prose. Vagano e poi tornano a casa. Ma com’è triste questo ritorno! La casa non è né una tana né un rifugio, è semplicemente il luogo che scopre la solitudine.
Faccio la mia passeggiata,
essa mi porta un poco lontano
e a casa; poi, in silenzio e senza
parole, mi ritrovo in disparte.1
L’aperto apre il vagabondaggio, il chiuso mette in disparte.
Nel ‘Diario del 1926’ il girovagare è un po’ diverso che negli altri libri di Walser, non si svolge né al chiuso né all’aperto, ma direttamente nella scrittura. È lì che l’autore vagabonda.
Ma anche il vagabondaggio nella scrittura conosce una via di casa, una via del ritorno. Ed è proprio sulla via del ritorno che Walser passeggia in questo diario, viaggia dalla divagazione verso il centro vuoto del pensiero, il luogo ‘in disparte’.
Che sia sulla via del ritorno ce ne accorgiamo dall’accelerazione delle frasi verso la fine del diario, dalla fragile consistenza che assumono alcune figure sullo sfondo. In particolare quella di un vecchio compagno di scuola. Fra lui e il narratore esiste una ruggine, una gelosia. Il compagno di scuola era in collera con lui perché lui, “secondo il suo modo di vedere, non ha concluso un bel niente, ma non per questo ha perduto la propria gioia di vivere. È questa circostanza che lo fa arrabbiare, perché non è capace di comprenderla” (p.80). Il suo compagno lo odia perché lui è un buono a nulla, ma un buono a nulla allegro. Il compagno non si fida di questa allegria. “Non sa bene, dunque, se deve considerarmi in buona o cattiva fede”.
Questo dubbio, a dire il vero, lo nutriamo anche noi. E non sbagliamo troppo, a non fidarci della sua allegria:
Di nuovo mani stanche,
di nuovo gambe stanche,
un buio senza fine,
rido così forte che le pareti
si girano: ma è un inganno,
in realtà piango. 2
Robert Walser è un manierista. Il suo manierismo consiste appunto nella rappresentazione della felicità e della naturalezza come forma scritta della disperazione. “…ho scritto e ho redatto dei libri nei quali ho avuto modo per così dire di camuffarmi e di mascherarmi. Dei libri nei quali è entrato in gioco qualcosa di disinvolto e di inesatto relativamente a ciò che si riconosce come ‘vero’”, ammette alla fine del diario (p.102). “Questo dar vita a personaggi troppo rosei, troppo piacevoli”, confessa ancora, gli è costato amari rimproveri che entro certi limiti erano “semplicemente e assolutamente giusti”. Per ammissione dello stesso Walser, la rappresentazione che dà di sé è falsa.
La letteratura, ha detto Giorgio Manganelli, è menzogna. Ma la menzogna è il suo rigore: “tutto è esatto e tutto è mentito”. Cerimoniale bugiardo, essa “possiede e governa il nulla”. Niente di tutto questo in Walser. La sua scrittura non mente e ancor meno governa il nulla. Piuttosto indossa una maschera o meglio assume delle spoglie. Disindossate, le spoglie cascano a terra, si disincarnano. Indossate, sono inguardabili. “Semplicemente non è in grado di sopportare la realtà rappresentata dal mio volto”, dice del suo compagno.
Una maschera è una specie di volto letterale. Una maschera del pianto è la letteralità del pianto. Una maschera del riso ghigna letteralmente. È questa sua letteralità a renderla inguardabile. La sua mancanza d’ombra, di mezze luci, di contraddittorio, respingono lo sguardo, non lo lasciano riposare, non gli danno né tregua né alloggio. Walser di tanto in tanto si toglie la maschera, o meglio la sposta, così che non si sovrapponga più al viso. Ed è allora che vediamo, accanto all’allegria del buono a nulla, la povertà di un volto infantile.
“L’origine del buono a nulla la conosciamo”, scrive Walter Benjamin, “le foreste e le valli della Germania romantica”. E quelli di Walser da dove vengono? Dalle montagne o dai pascoli dell’Appenzell? Per niente. Vengono dalla notte più nera e dalla demenza. Sono passati per la demenza e ne sono tutti guariti. La loro allegria è quella dei convalescenti.
Convalescenti della demenza, questo sono per Benjamin i personaggi di Walser. Questo è il suo buono a nulla. In un film recente di Lars von Trier, “Gli Idioti”, i personaggi sono invitati a lasciare uscire il piccolo idiota che è in loro. Il buono a nulla che popola le prose di Walser è come quel piccolo idiota che si annida nelle viscere e viene a galla nella scrittura.
E davanti a lui si rivela la bellezza.
“Ma io non sono nulla, non posso nulla, non possiedo disgraziatamente nulla e nell’immensità del mondo non sono che un uomo povero, debole e impotente,’ concluse e in quella gli balzò agli occhi la bellezza del mondo e rivide quegli animali, vide quanto tutti i suoi amici, uomini e animali, siano abbandonati alla propria sorte, e non poté più proseguire. Si accomodò sul prato, non lontano dalla strada, e pianse amaramente la sua stupida esistenza di sbarbatello”.3
E non solo la bellezza del mondo, anche la bellezza della prosa si rivela. “Ho trovato degna di nota la questione posta da Kerr, se sia propizio, ai fini della produzione letteraria un certo grado di rimbecillimento. Nel concetto di stupidità riposa proprio qualcosa di buono, di una bellezza abbagliante, qualcosa di indicibilmente fine, che proprio i più intelligenti hanno rincorso con bramosia, cercando in seguito di impossessarsene”, scrive nella lettera a Max Rychner.
Il buono a nulla, quando torna a casa, ha una forte tendenza a rovesciarsi nel Gehülfe, nell’aiutante o assistente (in francese, l’homme à tout faire ), cioè in colui che, non essendo specialista di nulla, è pronto a tutto in modo servizievole. In altre parole, il buono a nulla, che è propriamente colui che non serve a nulla, è pronto, proprio in virtù di questa sua qualità, a servire a tutto. Questa qualità la condivide con il Taugenichts di Eichendorff, anche lui pronto a servire.
Ma il buono a nulla di Eichendorff è una creatura dell’aperto, la forma nordica del picaro, un picaro senza furbizia, senza insidia, innocente della sua ignavia, così come il picaro lo è delle sue truffe. L’assistente di Walser, invece, suona a una porta, scende le scale e si infila nel chiuso. Il buono a nulla dunque ha due passi: la falcata del vagabondo all’aperto, il passetto del servitore inutile al chiuso. E’ una porta a dividere queste due forme dell’essere.
Parlavo di vittoria sul pensiero girovago. Il buono a nulla sarebbe qualcuno che ha richiamato a sé i pensieri vagabondi e si è trovato di colpo senza forze, quasi addormentato, come se qui al centro dell’essere il pensiero tornasse solo per cadere imbambolato. La vittoria sul pensiero girovago, quella grande sonnolenza, la pesantezza alle palpebre, il senso di freddo, gli sbadigli, il languore fisico di cui parla Evagrio Pontico, sarebbero allora il prezzo da pagare per la concentrazione, per la rinuncia a divagare? Oppure sono semplicemente il rovescio del vagabondaggio della mente, il rovescio del desiderio? Se la mente smette di divagare, perde le forze? Il buono a nulla è il girovago tornato a casa? Ma che cosa c’è nel vagabondaggio che disperde la buonanullità, o la porta alla sua perfetta evoluzione?
“Ogni volta che il desiderio è tradito, maledetto, strappato al suo campo di immanenza, c’è sotto un prete”, dicono Deleuze e Guattari in Mille Plateaux 4. Il buono a nulla di Walser ricorda molto il corpo senza organi dei due grandi filosofi francesi. Il corpo senza organi ha freddo, è dolente, non risponde a un principio organizzatore, non si specializza, si riduce a zero. Il corpo senza organi oppone all’organismo, al significato, alla soggettivazione – la disarticolazione, la sperimentazione, il nomadismo. È una strada in cui la follia e la perversione ci precedono, di cui ci mostrano la grandezza e le possibilità. Ma che possiamo sperimentare per gradi. Il corpo senza organi è l’intensità zero come principio di produzione. È l’uovo, è il bambino, non come regressione dell’adulto, ma come suo contemporaneo, “un’involuzione creatrice e sempre contemporanea”. Al corpo senza organi risponde, se così si può dire, lo spazio nomade: spazio liscio, segnato semplicemente da tratti che si cancellano e si spostano insieme al tragitto.5 Il nomade non è colui che si muove, anzi è colui ‘che non si muove’, o si muove seduto (in sella, sulla pianta dei piedi): immobilità e velocità, catatonia e precipitazione. Il nomade è colui che ha un movimento assoluto, cioè una velocità; il movimento vorticoso o ‘vorticante’. Il nomade fa il deserto. È in un assoluto locale (deserto steppa ghiaccio o mare).
Se trasferiamo la definizione del corpo senza organi e dello spazio nomade deleuziani nei termini più familiari, più walseriani di buono a nulla e vagabondaggio, ritroviamo gli stessi concetti potenziati da un’energia produttiva fortissima, e capiamo perché il suo precipitato apra al mondo la bellezza. In realtà, la produce. È la condizione perché la bellezza sia e si riveli.
Questa lettura ci permette di vedere nella forma dell’essere walseriano qualcosa di più dell’abbandono, qualcosa di meglio di un’aporia (“cado in disparte e precipito nell’abbandono”), ma la lunga sperimentazione a cui la pazzia ci invita e che, finché la reggiamo, consente di toccare la particolare bellezza dell’inarticolato, del disorganizzato, dell’insignificante. La bellezza della prosa di Walser.