Il mattino seguente piombai sul letto della mamma. Il suo capo tra gli angoli del cuscino come nella storia di Wilhelm Busch.
Santo cielo, e aveva giusto pensato che poteva dormire un altro po’.
Era così bello, fra il sonno e la veglia. Rigirarsi di nuovo.
«Ficca il naso nel cuscino», le diceva sempre suo padre. Non aveva mai capito come dovesse metterlo il naso nel cuscino – ci aveva sempre provato inutilmente.
Mio padre tastò l’orologio a occhi chiusi.
«Ma che ore sono?».
Già le otto? Ancora 5 minuti…
Si era fatto tardi, ieri sera.
Lo scoiattolo si cibava con fatica, ma al farmacista i pantaloni li avevano abbassati a dovere.
«Nel culo dei mori è buio».
«Dio, Karl».
«Peccato che Roberding non sia qui», disse mia madre, «un bravo giovanotto. Minuto com’è… ma in gamba. Un dritto. Non gli succederà mai niente…».
E Urselchen. Stare di nuovo tutti assieme. Come un tempo.
Quant’era bello al mattino, ogni volta, al tavolo per il caffè.
Nella speranza che durante la notte non fosse di nuovo successo qualcosa. Dopo bisognava chiamare. Ma perché proprio sempre a Rostock?
«Anche Rosinat non c’è più?».
«Sì, tutta la strada».
«E adesso dove li vado a prendere i miei sigari? I Loeser & Wolff non fanno più consegne. Assai increscioso. Malanova. – E la Stephanstraße?».
«C’è ancora».
Allora sarebbero potuti andare ad abitare lì nel ’39, se tutto questo si fosse saputo prima. Non sarebbe stato male. Quelle stanze ampie. E vabbè – fa lo stesso. «Fa lo stesso».
Lo stipendio da ufficiale andava dritto alla Deutsche Bank, ammortamento dei debiti. «Fantastico», aveva detto Kerner, «lei fa una cosa fantastica».
Dalla lampada pendeva un foglio giallo di carta moschicida.
«Zuavetto mio, non devi insistere così», disse mia madre, «sennò ti agiti ancora di più…».
«Da me non viene mai nessuno», disse mio padre… e nella vecchia casa, era stato sempre tanto bello. «Non sono strani questi cenerai?», aveva domandato mia madre. «Ma sono gli svastica…». E Hoffmann era socialdemocratico.
«Nero-rosso-senape», l’avevano sempre mandato in bestia così.
«Verissimo».
E poi le riunioni politiche! Oddio, che cosa non erano! La Ziets – una vecchia casalinga grassoccia.
«No bambini, quante ne abbiamo passate».
Come ogni estinto.
Riposa quieto…
«Ora dobbiamo andare via», diceva sempre papà, «la faccenda diventa scottante».
E a darsele con le sedie. Si rompevano eccome!
Ma questo, questo era il bello. Sarà quel che sarà.
Sissì.
Sul comodino c’era un libro. «Il mondo 100 anni fa», sulla sovraccoperta una diligenza, edizioni Reclam.
C’era anche un secondo volume. «La via del Reich».
Come s’era arrivati a questo nonostante tutta la cultura. E il più era accaduto in Sassonia e in Turingia.
«Curioso. E forse sono delle canaglie…».
Mio padre doveva saperlo, ce li aveva nella sua compagnia.
E l’Assia poi! Quelli dicono gal e poia, invece di gallo e gallina. Che fesseria.
Vento contrario.
Mia madre aveva sul comodino «La carlina», di Ruth Schaumann. Era proprio sorda come una campana. O era cieca? E come si poteva scrivere qualcosa di così bello…
Poi anche Timmermans non era male, disse mio padre.
Pallieter. Dove c’è quello che scrive il suo nome pisciando nella neve. Se durante la guerra fosse andato di nuovo in Olanda, sarebbe voluto andare a trovare Timmermans e dirgli quanto trovava bello quel libro.
Nel frattempo era arrivato il ragazzo e aveva preso gli stivali.
«Buongiorno, signor tenente».
Noi ci chinammo.
«Kirmes», disse mio padre, «la polvere è nemica del cuoio».
«Signorsì, signor tenente».
«Prima davanti, poi dietro. La polvere è sempre nemica del cuoio». Quando Kirmes fu di nuovo fuori: «Dio, Karl, non puoi proprio fare così, è pur sempre un uomo adulto».
«Perché? Non è vero forse? La polvere è sempre nemica del cuoio». O non era vero questo?
«Levataque».
Si alzò dal letto, indossò i pantaloni alla cavallerizza e le ciabatte, poi si fece la barba.
Le bretelle penzolavano di dietro.
Il contropelo con prudenza, attento, caso mai si screpolava. Poi esaminare il «risultato», i peli rasati nel catino.
«Buono all’uovo».
E ora lavarsi.
«Drin-drin! Motore di babordo a mezza forza…». La pelle un po’ screpolata. Diluire in acqua il Kaiser Borax con un cucchiaino di legno.
Sbruffando. Uff ! A gambe larghe. Pantaloni che scivolavano. Si era di certo lavato così nel ’14-18, quella volta a Fermé Burghof, sotto la pompa. «La vita delle retrovie».
«Ci sono delle belghe carine», aveva scritto e: «Che cosa si pensa dell’America da voi? A noi in fondo ci starebbe bene arrivare al dunque…».
I pantaloni scivolavano giù del tutto? No, si tenevano su.
«Non ti devi sbrigare?», chiese mia madre. «Un tenente non può proprio arrivare in ritardo…».
«Come vedi, sono quasi pronto». Corse piegato all’armadio e rovistò fra tutte le camicie.
E comunque non arrivava in ritardo. Non arrivava mai in ritardo. La puntualità era la cortesia dei re. E ora qui a Gartz lui era il sovrano di tutti i russi. Capiscete vous?
Un fazzoletto nuovo fu spruzzato d’acqua di Colonia.
Zaff-zaff-zaff!
Spazzolare i capelli, caricare l’orologio, metterlo in tasca.
«Gentlemen, eccomi qua».
Poi andammo dal guardaboschi Schulz su un carro a due cavalli.
Era una fredda giornata di aprile con un forte vento. Si dondolava, e gli alberi scorrevano uno dopo l’altro.
«Che dice la mia pelle?».
Avevamo messo delle coperte sulle gambe ed era molto piacevole.
«Vedrete, il guardaboschi Schulz è un uomo gentile, ha polli e conigli. Lì c’è molto da mangiare».
Puzza di cavallo.
«Strano che riescano a farla anche mentre camminano…».
Chi cade dal cavallo che scoreggia?
Cade chi con il Kaiser sdottoreggia.
«Durante la guerra mondiale», disse mio padre «la prima guerra mondiale», adesso bisognava dire più correttamente così, una volta aveva messo un pezzo di legno sotto alla sella. Il cavallo : imbizzarrito. Povera bestia.
Mia madre aveva indossato il cappello, quello con l’uccello finto, e una veletta
giusto davanti alla faccia.
Non poteva essere estate? Doveva esserci tutto questo vento?
Tipico, che si viaggiava proprio in questa stagione.
E poi: perché non aveva portato con sé il cappotto invernale? Che peccato, adesso magari brucerà pure.
Uno come la fa la sbaglia. Una sciocchezza madornale. Meno male che ora non pioveva! Sennò la scalogna sarebbe stata completa.
Nel frattempo si ispezionavano i corpi di guardia.
«Imbocchi un attimo a destra».
Un anziano soldato del paese con 5 russi che tagliavano gli alberi.
«Diamine, l’ha caricato il fucile?».
Sissignore, ovviamente aveva caricato, rispose l’uomo.
«Perché “ovviamente”?», urlò mio padre e levò la sicura.
L’uomo aveva il cappello sulle orecchie, i baffetti alla Hitler. (I russi continuavano a lavorare).
«Quello stronzo non ha proprio caricato!», e a Kirmes: «Ma guardi! Sorveglia 5 russi e non ha caricato il suo fucile!».
In un primo momento aveva pensato, ma quello non l’ha levata la sicura? Devo controllare un attimo, aveva pensato, e ci aveva visto giusto! Sulla luna accadon fatti, che al vitello son sospetti! Come se l’avesse fiutato! Pure lui era turingio. Si beccherà gli arresti . no a schiattare.
«E se quelli le si avvicinassero con l’ascia, eh?».
Cambiare musica, vento contrario.
E salendo in macchina: «E noi dovremmo condurre una guerra con quelli. Se fosse successo con Handke, «ti prego», lui non l’avrebbe passata liscia. Avrebbero fatto la figura dei cretidioti, o dei pazzi. Con le truppe al fronte le cose andavano diversamente. Aveva tantissima voglia di tirarsene fuori.
«Ci si sfinisce».
La casa del guardaboschi proprio come ce la si immaginava.
«Ma è un amore!».
In mezzo al bosco, con il comignolo fumante.
La mogliettona del guardaboschi («una santa donna dal cuore buono»), tre figlie
grasse.
Non s’erano maritate, dicevano, perché lì fuori non c’era possibilità di fare alcuna conoscenza.
(Si portavano dietro la puzza di sudore).
Un tavolo rotondo nel soggiorno buio, dietro di esso un divano di pelle. Alle pareti innumerevoli palchi di corna. Davanti alle minuscole finestre tende nere con perle di legno. Fiori da vaso rampicanti che si incrociavano.
«Oh, la spina di Cristo, quant’è bella!».
Un cane da punta, dei knödel fra le zampe, mi annusava. Lo attirava il puzzo di bruciato.
Invece di scodinzolare con la coda mozza correva veloce avanti e indietro alle nostre spalle. Un cane simpatico.
Ci venne incontro ciabattante anche l’anziano guardaboschi Schulz.
«È veramente troppo bello avervi qui!».
«Dice davvero? ’Giorno».
Gambe storte, di tanto in tanto le raddrizzava.
(«Un uomo magni. co, un uomo onesto…»).
Avevamo già avuto notizie da Rostock?
No, non si riusciva a prendere la linea, un brutto presentimento.
Per pranzo c’erano uova strapazzate, impeccabili. «Bimbo, mangia tanto ora, gli idioti non ingrassano…».
Belle saporite e con dentro l’erba cipollina.
«La mano sinistra lungo il bordo del piatto!».
Poi il dolce nel latte caldo.
Sissì. Era giusto quel che ci voleva.
Mio padre offrì delle sigarette Old Gold che gli avevano dato allo stalag. C’entrava in qualche modo la Croce Rossa. Piccoli pacchetti grigi.
Mia madre era corsa di sopra almeno mille volte, disse, 50 gradini alla volta. E forse tutta quella fatica era stata inutile.
«Sì», disse mia madre, quando aveva visto la città in fiamme ci sarebbe stato da mettersi le mani nei capelli. «Veramente pensavo di avere le traveggole! No, ma è mai possibile. Mi venga un accidente…».
E mio padre disse: «Peccato, giovanotto, che tu non abbia portato i frammenti di bomba. Avresti potuto farli vedere».
Poi si passò ad altri argomenti. I turingiani nella compagnia, insopportabili.
«Gnocca virdi», stava per «gnocchi verdi». Che imbecillità, una vera capocchieria.
Mica erano cose da nulla.
Per esempio quel tale di oggi: sorvegliava un mucchio di russi e non aveva caricato!
Poi abbassarono la voce e ci si guardò intorno.
Nel vicino distretto forestale avevano visto al lavoro alcuni detenuti del campo di concentramento.
«Passate veloci», aveva detto il soldato delle ss.
Avevano un’aria cattiva. Malvagia.
«Campo di concerto», fecero, e: «La pagheremo cara».
Però tenere la bocca chiusa – «Ragazzo, hai sentito?» – Il signor Hitler doveva pur saperlo.
Mio padre si era dimenticato le compresse di carbone vegetale all’«Aquila nera», insistette per partire. E poi: «Vogliamo vedere se il ragazzo ha mandato un telegramma».
Dall’oste c’era un telegramma. Tutto a posto.
Per lei era come quando l’ascensore scendeva, disse mia madre. Un tale sollievo.
Le gambe facevano giacomo giacomo. Ascoltavamo il notiziario. Rostock era stata di nuovo attaccata. L’annunciatore sottolineò il «di nuovo», come per dire adesso basta.
Guardai nello specchio. Che aspetto avranno le persone che sono bruciate…
da Tadelloser & Wolff di Walter Kempowski, Lavieri 2007