Il Sanfelese si ritirava dalla terra, e il sole si era già fatto due ore di sonno nella pancia della Vergine. Il Sanfelese e l’asina dormivano in piedi, squagliati dalla fatica, e si erano scordati la via. A tutti quelli che incontrava, il Sanfelese chiedeva:
– Bell’uomo! Sapete per caso dov’è la capanna mia?
E la gente, che teneva gli scemi di cuore come cagnolini di Dio, rispondeva a quella domanda senza mettere superbia:
– Prendete quella via e poi quell’altra.
Il San Felese, che puzzava di stanchezza e si sarebbe accontentato di una fetta di sonno salato, proprio come la bestia sua, andava dritto, cambiava strada, si gettava nelle spine. Cammina, cammina, vide comparire, sopra un ciliegio, un angelo con due ali lucenti che uscivano fuori dai rami. L’angelo mangiava ciliege a pugni ma, in certi punto se le pigliava con la bocca e basta. Il Sanfelese, che trattava gli angeli come l’asina sua e quella bestia santa come una figlia da maritare, chiese a quell’anima di Dio:
– Angelo di Dio, che te ne vai volando sopra e sotto, più sopra che sotto, mica hai visto la capanna mia? Perché io e questa compagna siamo più stanchi di un morto che se ne va a piedi al camposanto.
E l’angelo, pure se in quel momento gli era venuto un mal di pancia da cacamento, rispose, bello aggarbato:
– Fratello mio. Quello che vedi è il Paradiso. E allora, due sono le cose: o tu sei crepato a morte o stai sognando.
– Il paradiso di Cristo?!
– Certo… il paradiso… Forse che solo voi sapete piantare ciliegi?
Il Sanfelese si era spaventato; e la compagna sua, a sentire quelle parole, cacciò un tuono da dietro per la meraviglia. Nel frattempo, l’angelo che sapeva l’arte di cacare da sopra le piante e pure volando, siccome non ce la faceva più a resistere, raccomandò al Sanfelese di spostarsi di lato se non voleva avere quella benedizione in faccia. E il Sanfelese, che s’era incantato, assieme alla ciuccia sua, a vedere l’angelo che volava, si pigliò un po’ di quello sfrattamento d’intestini dell’angelo in testa; ma era uno stronzarello duro che rimbalzò sulla sua capozza e si perse nella scurìa. Il Sanfelese guardò la compagna sua dentro gli occhi per trovare consiglio. Poi tirò la cavezza. Era così stanco che non riusciva a seguire la lontananza dell’angelo, che doveva essere bella. Si sognava il suo scaraiazzo di paglia e tanto era cieco di abbattimento che non vedeva il letto della terra, eppure dal cielo veniva una luna con un chiarore così buono che la morte gli fiutava addosso le carnucce di una bambina e se ne voleva fare un boccone. Era chiaro tutto là attorno, ma la capanna sua non compariva. Siccome in quel momento pure i grilli stavano zitti e non si sentiva neanche il sospiro di Dio, all’orecchio del Sanfelese arrivò una specie di lamento. Si affacciò a guardare dietro una siepe e vide sua moglie, spogliata come una bambina. C’era un buon uomo che si appoggiava a lei con tutta l’intenzione. A vedere la moglie, il Sanfelese si fece contento, per il fatto che la capanna sua non doveva essere lontana. E pure l’asina, per l’allegrezza, menò due tuoni. Il Sanfelese si dispiaceva soltanto che la moglie non gli aveva tenuto caldo il letto. E la moglie, con la buonezza del cuore che le arrivava nella pancia, rispose piano, senza lasciare l’arte che faceva:
– Porta pazienza, marito mio, perché questo buon uomo che sta così avvampato, appena tira l’attizzafuoco da dietro, corre alla capanna nostra come una saetta e te lo riscalda lui, il letto, in un momento.
E il Sanfelese, con le lacrime agli occhi per la contentezza, si scordò pure che teneva sonno e arrivò alla capanna cantando. E l’asina cantava appresso a lui.