Oh Signore, rendici capaci di meraviglia
e di stupore
Non era mai stata al mare in inverno. Con un’amica ci aveva passato due settimane, nella bella stagione, qualche anno fa.
Per la verità, questa non era la prima volta che venivamo. C’eravamo già stati un giorno pieno di nebbia. Era un mese fa. Le case e gli appartamenti abbandonati per lo più, buoni soltanto per l’estate, molti senza impianto di riscaldamento, e i cantieri in costruzione, coi bimattoni arancio, il cemento fra l’uno e l’altro, certi ferri contorti che spuntano, qualche betoniera, dei mucchi di sabbia, conduttore in cemento per le fogne, scavatori con la ruspa abbassata – a riposo come elefanti – erano mimetizzati e avvolti nella nebbia. A Stefania non piaceva quel clima, e neppure a me. Solo – chiedevo – portiamoci almeno verso il mare, almeno vederlo, visto che siamo qui. Ma del mare non si vedeva nulla. Sì, sentivamo il rumore delle onde e a lungo andare, proseguendo diritti sulla sabbia, a meno che non ci fossimo scontrati con qualcosa o qualcuno, ci saremmo bagnati i piedi e insistendo anche le braccia e il petto. Ma a parte questo, si vedeva ben poco. Si vedeva la nebbia. Potevamo credere di essere soli, lì, se non avessimo visto delle persone seguirci, ed altre precederci.
Invece sapevamo che altre coppie o singoli uomini o altre donne o gruppi di amici o patiti del jogging stavano lì, con noi, insieme a noi, immersi in quella nebbia. Era densa e lattiginosa, solo a qualche metro di distanza ti accorgevi di una persona che tutt’al più stava zitta, come noi, o parlava poco o brevemente, causa il freddo, l’umidità e la poca allegria e i pensieri umidi.
Oggi invece il sole scaldava persino un po’, anche se ci stavamo addentrando nell’inverno, e l’aria era tersa, il vento teso, solleticava la gola e le punta delle dita. La limpidità dell’orizzonte ci permetteva di guardare molto in lontananza.
È inverno, ma sembra primavera. A volerla pensare, è la storia del bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto. La primavera giace sotto la coltre protettiva dell’inverno. Nel letargo, attende di germogliare.
Il viaggio in auto era stato un po’ animato. Avevamo parlato di politica e di religione e di responsabilità. La strada per andare a Caorle è molto più lunga che per andare a Eraclea. Io abito molto vicino al mare. Se voglio, in un quarto d’ora mi faccio i 15/20 K
m c he mi separano dalla spiaggia, senza pensarci, senza darci tanto peso, perché sono abituato. Stefania invece deve prepararsi, progettarlo, il viaggio da Treviso è molto più lungo, non si può di sicuro improvvisarlo. Per questo il peso di questa visita è molto diverso, nelle due parti, o così almeno credo.
Però mi sembra che ognuno di noi cerchi di capire cosa può provare l’altro, e questa è una cosa molto bella.
Ci sono almeno due o tre strade, che io conosco, per arrivare in maniera diversa al mare. Una è quella urbana, ed è quella che facciamo. Ce n’è invece una tutta a curve e stretta che a un certo punto passa sopra un ponte e dopo questo ponte, in estate, un campo di girasoli. Ricordo un tardo ritorno con un amico. La strada comunque è immersa nei campi e nei lunghi appezzamenti di terreno, di proprietari e fittavoli a noi ignoti. Ogni tanto qualche cartello segnala un nome, messo lì come una bandiera in una terra conquistata, che tutti potrebbero strappare ma a nessuno importa. Prima invece avevamo avuto a che fare con una strada dissestata, piena di buchi e di salti, le radici dei platani ai lati avevano innervato l’asfalto e come tendini tesi tentavano, e in parte ci riuscivano, di spezzarlo. Sopra, facevano cerchio unendo le braccia, precipitando foglie residue, occludevano la luce del sole.
Ma ora la luce c’era tutta. C’era anche la luce dei villini nuovi in costruzione, dove prima era sempre terra. Ci andranno ad abitare persone che cercano casa da molto tempo, si adatteranno. I progetti sono molti, qui. Lo dicono i cartelloni, coi nomi dei progettisti e degli ingegneri, degli esecutori, dell’impresa. C’è da sperar bene. I colori delle case a volte urtano che bisogna far finta di non sentirle per continuare e stonano completamente col resto delle cose intorno e fanno dimenticare che oltre tutto c’è il mare, un poco di infinito per noi di terra. Qualche progettista ha chiuso un occhio sull’estetica, qualche politico ha reso edificabile e ha sfruttato questo terreno intervenendo sul piano regolatore. Piccolo movimenti, piccole cose, piccoli accordi, movimenti in un certo senso, verso una comune direzione, hanno permesso che si edificassero questi nuovi quartieri e questi palazzi. Chi non ha avuto altro di diverso, chi nascerà qui, penserà che è questo lo spazio dato, è l’arena della sua vita.
Quelle mura, quelle scale, il garage per l’auto con gli attrezzi appesi al muro, un pallone, le scarpe per giocare. Un bambino forse non sentirà molto la differenza. Occhi piccoli possono vedere felicità piccole e trarne godimento. Probabilmente un giorno, presto o tardi, bene o male, a caso o volutamente perché ce l’hanno portato i suoi, scoprirà il mare oppure scoprirà questa strada che sto facendo io. Ed allora casa penserà? Tutto quello che aveva fino a prima potrà bastare, o non sarà troppo poco, o non sarà nulla, o sarà stupido e dannoso pensarci?
Mentre guido, e parlo a lei di queste cose, mi infilo un dito nel naso. Senza farmi vedere. Che soddisfazione! Quando ero piccolo, in colonia, mi ero staccato dal mio gruppo per seguire le passeggiate di un ragazzo mongoloide e del suo tutore. I due passeggiavano silenziosi per le stradine di cemento attorno al grande istituto dove dormivo. Ce n’erano molte, a pensarci adesso. Ogni tanto il down faceva qualche domanda. Si chiamava Piero, se ricordo, e il suo assistente Marco. Non si erano accorti di me. Incrociando un vecchio dalla mole davvero massiccia, Piero aveva chiesto a Marco perché era senza due dita, o meglio, perché erano così tronche e corte. Si trattava probabilmente di un incidente sul lavoro o, chissà, di un debito di guerra dovuto al freddo. Marco ci pensò un po’ e poi rispose, guardando dritto negli occhi Piero: “Si metteva sempre le dita nel naso”.
Io non so se a Piero è servito a smettere di pulirsi in modo improprio le narici, o a smettere di fare altre cose sconce per le quali era noto quell’estate. Come, mi ricordo, la cacca sul muro e non in cesso. Ma io da quella volta lì, per un bel pezzo, non ho più osato.
Finalmente arriviamo a Caorle. E parcheggiata la Seat, c’intabarriamo per bene e rischiamo la salute lungo la costa. Anche qui, Coriandopoli. I vasetti di vernice si sono sprecati. Anche qui, guardare ma non troppo, far finta di non sentire. Alieni sono approdati lungo la spiaggia ed hanno costruito hotel. I nomi: StellaMare, RivaMare, Delfino; non c’è da confondersi su dove ci si trova.
Anche qui, responsabilità, piccoli movimenti in una direzione. Io che cosa ho fatto per impedirlo? Perché è certo, anzi ovvio che posso e devo fare qualcosa. Forse non ho fatto abbastanza. Non potrò ignorare all’infinito. Verrà un punto che scoppierò e non farò nessun rumore. In tutto questo, penso, vorrei poter essere perdonato. Vorrei che fosse possibile. Lo è? Siamo preoccupati per quello che si dice a proposito dell’eutanasia. Io sono indeciso, e possibilista, ma in fondo un po’ manicheo. Grazie a Stefania riesco a capire, grazie alla sua parzialità e partigianeria, che anche tenere in vita ciò che prima naturalmente moriva, anche questa paura, quest’allontanarsi della morte dal territorio della vita, è reato, è peccato, anzi forse un peccato più grande che “graziare” chi soffre o dice di soffrire troppo. Per la verità, ci arriviamo insieme, dopo due ore di infuocato discorso.
Continuiamo a camminare lungo la battigia. Io propongo di toglierci scarpe e calzini e di camminare scalzi sulla sabbia. Fa sentire liberi – dico scherzando. Lei è riluttante ma sotto insistenza accondiscende all’idea. Dopo qualche minuto, ci reinfiliamo in fretta i calzini e le scarpe, lei comunque era rimasta con le calze. Anche una bella idea fa freddo ai piedi.
Mano a mano, si dileguano gli edifici colorati, pronti per accogliere nuovi turisti quest’estate. Ci lasciamo Coriandopoli alle spalle e non resta che mare, una larga distesa di sabbia e vento, un vento tiepido, stranamente. È pieno di conchiglie, qui, per fortuna ci siamo rimessi le scarpe. Anche molti rami e tronchi di alberi, portati qui con braccio possente e paziente dal mare, per noi.
Che ne facciamo?
Se apri gli occhi in quella direzione, ti si riempiono di mare. Se li rivolti attorno, si riempiono di sabbia e puntandoli in alto, si riempiono di cielo. Se li chiudi, senti il silenzio. Non è un vero silenzio, ci sono le onde a spezzarlo, e il vento, e le voci degli uomini delle donne dei bambini dei vecchi degli uccelli dei cani. Per fortuna, forse troppo silenzio ci farebbe male.
Vedo una coppia di persone vestite di nero, una con un velo lungo in testa. Adesso ho capito, sono un prete e una suora! Sono sul marciapiede, che noi abbiamo lasciato da un pezzo, per camminare sulla sabbia. Lei sembra consolarlo e lui sembra piangere. Una scena strana. Stefania se ne accorge quando ormai la mano della suora non è più appoggiata sulla spalla di lui, e scherza su un possibile cambio di vesti. “ Io faccio la suora!”, dico, e lei ride, non sa che
il prete fino a poco fa piangeva.
Qui, adesso, è pieno di bambini. Ci deve essere una famiglia numerosa, e infatti vedo i padri e le madri che dal marciapiede li sorvegliano. Stanno giocando a calcio. Quando calciano i bambini sono troppo forti: sembra ci devono mettere tutto il loro corpo, e infatti se sbagliano cadono per terra, con acrobatici ribaltoni. Sono un pallone anche loro, uno di quei Tele incontrollabili. Non hanno ancora imparato a dosare la forza, ci si buttano a corpo morto, se vogliono dargli un buon effetto. È bello sentire tutte queste grida di bambini, ed è bello sentire le onde del mare. Il vento è tiepido.
Noi stiamo cercando il posto giusto per lo scontro finale, la bella, in poche parole. Certo non di fronte a quegli edifici colorati, con la gente che passeggia, certo non di fronte al prete e alla suora, e ancor meno di fronte a questi bambini.
Avremo fatto almeno un chilometro lasciando dietro quelle grida. Troviamo il posto: non c’è nessuno e sulla pineta, dietro, solo il vento.
Fa freddo, mi scaldo, prima. Anche lei. Manate sulla braccia, skip con gambe e piedi e poi tiriamo fuori
la sciarpa. Uno contro l’altro, il primo a colpire sono io, sul suo testone. Poi ancora io e io. Stefania subisce solo urlandomi: “Cancaro, bastardo”.
Poi passa al contrattacco, è velocissima. Mi rifila 4, 5 sciarpate sulle orecchie che ora ho tutte rosse. “Io vincerò”, le dico, a denti stretti. “Ma dai”, dice lei, “che quando fai la faccia decisa fai ridere, sembri un bambino!”. La immobilizzo e i colpi arrivano a raffica: sul viso, sulle orecchie, sul naso, sugli occhi e intanto approfitto per palpare qua e là e fare un po’ di solletico. “Non vale”, urla, “dai, non vale bloccare, io ti ho bloccato?”. Allora mi stacco e comincio a colpirla con colpi ravvicinati, poi di scatto mi allontano. Mi sorprende, però, e rifila ancor più sciarpate di prima. Per vendicarsi, dice, e una manata in mezzo alle gambe. “Fa solletico, là?”, urla sorridendo, le guance arrossate, l’amabile “sbesoea”, gli occhi bambini vivi.
“Pausa!”, dice. Ok. Siamo tutti sudati, ci sediamo sulla sabbia. Preso il respiro, la abbraccio, poi baci, carezze, sguardi. Come fanno tutti, non siamo diversi.
Ora possiamo anche tornare indietro. Invece, riprendendo i discorsi fatti in auto, continuiamo ad avanzare.
Una coppia, lui moro, lei bionda coi capelli lunghi, discute sul bagnasciuga e due cani, uno bianco e uno nero si rincorrono e mordono passando anche in mezzo alle loro gambe, come fosse uno slalom.
Per un po’, rimangono lontani l’uno dall’altro, li guardiamo con strana, partecipata apprensione. Non so se è l’effetto della prospettiva, ma allontanandosi mi sembra si siano ricongiunti, avvicinati. Viva la prospettiva!
Ci sono le impronte dei cani, sulla sabbia, e dietro quelle nostre, là dove c’è un altro ammasso di rami e tronchi importati, e come si interrompono, per poi riprendere in diverse direzioni. Quattro zampette a forma di foglia, sono a grappoli sulla sabbia, e poi ci sono quelle dei bambini, che alle volte per levità posso confondere con quelle degli uccelli. Solchi più pesanti lasciano quei due signori tedeschi, con la maglia piena di pancia, sono passi profondi e pesanti e ben segnati. Ma a voler far ordine, sembra che qui si sia danzato, non si capiscono un gran che bene le traiettorie, solo che c’è un nucleo dove tutti più o meno spesso passano, ed è dove la sabbia è più asciutta.
Siamo alla fine della nostra passeggiata, per andare oltre bisogna attraversare un canale.
Qui è un camping. Terra per tedeschi e inglesi, afferro dalle lingue. Lungo l’argine un bambino e suo papà danno delle patatine e della mollica a cigni davvero molto belli. Mi stupivo perché non li immaginavo così grandi.
Tre di loro camminano all’asciutto. Mi fanno ridere perché hanno queste zampe arancio gigantesche e avanzano tutti dondolandosi, come barilotti o come ubriachi. Impettiti e buffi, però rapaci, se il bambino non sta attento gli asportano una mano. Evidentemente sono abituati ai turisti, o agli uomini.
C’è anche qualcuno che, sulla riva opposta, pesca con
la retina. Cosa si può prendere di questa stagione? Io sono ignorante e Stefania ipotizza…
L’aria è brunita e le persone, sparse, si fanno isolate per la minore luminosità. È tempo di tornare indietro. Che lunga camminata. “Come un viaggio”, afferra Stefania.
Ancora qui passi vari e confusi ci si fanno incontro. E’ proprio un ballo, una specie di pariglia dove, solo a giudicare dai passi, ci si scambia compagno o compagna. Così per un breve incontro io mi trovo col cane bianco e Stefania col bambino che camminava carponi, lasciando le sue piccole impronte di animale. I due pesanti signori incontrano la grazia e levità dell’uccello. Alcuni passi restano soli, perché hanno fatto traiettorie che nessuno ha considerato, seguendo una musica diversa, oppure è solo da attendere un altro groviglio, un’altra danza, più in là, con passi compagni. Ma poi comunque tutto ingloba e appiattisce il mare nel suo ventre, portandosi col braccio ogni impronta nella bocca e in attesa di altre impronte da ingoiare.
Lontano il camping, rivediamo la coppia di prima. Evidentemente, sono tornati indietro. Ma non ci sono più cani. Chissà dove li hanno lasciati. Sono rimasti indietro? Oppure li hanno messi in macchina perché li seccavano o perché non potevano ascoltarsi veramente dovendo stare attenti ogni momento a dove andavano e cosa combinavano quei due irresponsabili giocoloni?
Tengono per mano, in mezzo a loro, una bambina con un cappellino azzurro. Ma da dove salta fuori? Non c’era, prima, o almeno non l’ho vista, va bene la prospettiva ma adesso mi fa davvero strani scherzi. “L’avranno appena partorita!”, scherza Stefania.
Ogni tanto la sollevano da terra, alzandola per le braccia insieme. “Oppellelae!”, dicono. E lei ride. “Oppellelae!”, dicono, e lei ride. Oppellelae Oppellelae Oppellalae! La bambina ride, ride tanto, convulsamente.
Incrociandoli li salutiamo come se li conoscessimo ed anche loro ci salutano. Guardiamo la bambina, è proprio carina col nasetto a patata e gli occhietti spalancati.
Appena superati, cerco di alzare Stefania e dico “Oppellelae!” ed anche lei ride.
Dopo un po’ mi giro, ci giriamo, e vediamo che stanno fermi, loro due, di fronte al mare, e la bambina ancora più vicino, sulla sabbia bagnata alternativamente dalle onde, con gli occhietti spalancati e le manine l’una nell’altra, che pensano. Poi si guarda cosa succede ai suoi piedi quando arriva l’onda. Io penso che succede che ti entra della sabbia tra le dita, che quando l’onda si ritira ti resta un orlo di granelli sui calcagni. Chissà se lo pensa anche lei, o lo sta scoprendo.
Poi i due fanno una cosa, ci sorprende a me e a Stefania, per qualche secondo pensiamo che siano pazzi; infatti stiamo quasi per intervenire.
La bambina viene sollevata incredula per i due piedi da mamma e papà e, caduto il cappellino, la portano sospesa all’ingiù verso l’acqua. Tra l’altro dev’essere freddissima per loro due, immersi fin sopra le ginocchia. Poi lentamente l’abbassano e la sua testolina viene bagnata prima dalle onde sulla cresta e poi dal resto del mare, la immergono fino al mento sotto, senza che lei pianga o si lamenti, forse troppo stupita o forse davvero contenta di quel gioco. Dura qualche secondo, poi la tirano fuori e lì comincia a piangere. Mi sorprendo a pensare, e poi in macchina al ritorno scoprirò che anche Stefania lo ha pensato, mi sorprendo a pensare – dicevo – che forse piange non perché vi è stata immersa ma perché l’hanno tirata fuori. E questo battesimo sembra pacificare la bambina, che ora gioca senza paura sull’orlo del mare, fra spiaggia e bagnasciuga e con le onde, come se avesse solo ora una vera confidenza, se fossero state fatte le presentazioni.
Mi viene in mente che qualche tempo fa, quando ero studente a Parigi, avevo visto sulla mia minuscola televisione nella mia minuscola camera tre metri per tre un documentario sul deserto. Era un documentario inglese. Una donna viaggiava a piedi con un indigeno e due leoni, uno maschio e una femmina, per riportarli al loro luogo d’origine, dopo aver vissuto alcuni anni in cattività, come capii poi, e con speranza che si riproducessero.
Durante il viaggio la notte mettevano la tenda e l’indigeno, con bastone e a torso nudo, raccontava sempre delle storie molto divertenti, col senso dell’umorismo un po’ macabro per i miei gusti di certi popoli africani.
Poi durante il giorno lei spesso giocava con questi leoni. Mi colpiva molto questa cosa che se loro volevano potevano staccarle un braccio e invece, come diceva lei, che li aveva allevati fin da piccoli e aveva dedicato buona parte della sua vita a educarli e amarli, bastava stare attenti e non dargli corda quando si vedeva che si animavano troppo. I leoni d’altra parte amano molto giocare e si vedeva infatti che sempre la seccavano, anche nei momenti più intimi col suo partner che a un certo punto del viaggio l’aveva raggiunta. Ma perché racconto questo? Perché a un certo punto, verso la fine del viaggio, si accorsero che il posto dove li avevano portati era inospitale, non c’erano alberi, né piante, ma solo deserto e soprattutto sparse qua e là carcasse e scheletri di animali, nulla di cui potessero nutrirsi i due leoni che avrebbero dovuto ripopolare quel posto. Il deserto era avanzato e poi erano avanzati loro, ancora. Oltre una duna videro il mare. Lei subito si precipitò in acqua mentre lui la guardava titubante per poi unirsi, mentre i due leoni giocavano ignari sull’acqua, non sapendo nulla a proposito del fallimento di quel viaggio.
Ma l’indigeno cosa faceva? L’indigeno tremava come una foglia, appoggiato al suo bastone, travolto dall’emozione, le braccia lunghe, come sgonfie, sui fianchi, percorso nella carne da tremiti e brevi spasmi come correnti elettriche. Gli scendevano dalla testa e poi nel petto e sulle braccia, gli attraversavano i testicoli strizzandoli e finivano sulle gambe i cui ginocchi erano piegati e sui piedi nudi, i tendini in mostra. Poi risalivano da lì e continuavano come una molla, propagandosi in brevi scosse convulse attraverso il corpo balbettante. Era la prima volta che vedeva il mare e stava partorendo le parole per dirlo.
E questo durò lungamente, mentre i quattro giocavano. Un rivolo di piscia gli rigò la gamba e scese verso terra. Poi si sedette e guardò. Per ore. Finché tornarono indietro e lui non disse una parola fino a quando tornò al suo villaggio. La prima sera forse tutti attendevano che lui raccontasse che cosa aveva visto e che cos’era successo nel suo lungo viaggio, in compagnia della donna bianca. In piedi, attorno al fuoco, mimò sollecito il suo stupore e scherzò senza vergogna a proposito della pipì che si era fatto addosso, addirittura esagerando nel descrivere la sua reazione e aggiungendo particolari coloriti. “Il Signore era davvero grande e infinito e buono come nessuno di noi può pensare”, diceva, “se ha fatto questa cosa meravigliosa, come nemmeno noi possiamo pensare”, e ogni iperbole gli riusciva inadeguata a descrivere ciò che aveva visto e toccato. “Allah è veramente grande”, aveva concluso.
Ecco, ora mi veniva da pensare a quell’indigeno, alle sue gambe e alle sue mani e a quelle della bambina, che pure non aveva avuto di quei tremori… ma quanto dolce era l’immagine di lui che se la faceva sotto! Il suo corpo lacrimava.
Un mio amico di Napoli, un sacerdote, mi aveva regalato una statuetta di un uomo a torso nudo, sorpreso negli stessi gesti, con un braccio alzato, la mano poggiata sulla fronte, come a proteggersi da una gran luce, gli occhi spalancati e la bocca socchiusa, una pecora sorretta con l’altro braccio. Nel presepio napoletano, accanto a S. Giuseppe, i Re Magi, Gesù e Maria , non manca mai: è la figura dell’uomo della meraviglia.
Il tempo è cambiato. Certi gruppi di nuvoloni si sono riuniti e se va tutto bene porteranno la pioggia. Anche l’aria è più fredda, ora, il vento brucia le parti scoperte. Non si può più vedere lontano e ci si sente come subito un po’ più soli, isolati.
Rifacciamo in fretta, parlando poco, la strada che ci separa dal parcheggio. Sembra che non ci sia più nessuno. Dobbiamo essere proprio gli ultimi in spiaggia. No, ci sono ancora la coppia e la bambina, ma certamente anche loro stanno tornando, anche se non li vediamo, dietro, né per terra distinguiamo quasi più le impronte.
È stata una giornata molto lunga – dice Stefania. E forse capisco cosa vuole dire, è stato come se avessimo attraversato più spazi, più tempi, e forse siamo un poco più vecchi, oppure, al contrario, siamo ringiovaniti.
Prima, passando, avevamo visto dei ragazzi con la tuta aderente da sub tentare di prender il volo con delle specie di paracadute. Non so di che sport si tratti, ma c’era scritto qualcosa sulle loro maglie. Per un pezzo eravamo rimasti lì a vedere se decollavano o no, curiosi di come funzionassero. Invece il vento non veniva, o dovevano aspettare qualcuno o non erano capaci di partire. Nel frattempo, continuavano a parlarsi fra loro, bevendo birre, alcuni di loro persino a torso nudo.
Ora, pensavamo che se n’erano già andati, invece erano ancora lì, ma nessuno di loro aveva preso il volo. Solo continuavano a bere birre e chiacchierare, i paracadute o quel che erano già tutti raggomitolati e piegati. Sembravano piccoli ora, sembravano coperte.
Tra di noi non ci si vedeva più bene. Una signora consigliava ai ragazzi di andarsene, prima che si facesse più brutto il tempo. Era la signora del chiosco lì vicino e che aveva venduto per tutto il giorno le birre ai ragazzi. Ma forse loro aspettavano solo questo. Aspettavano che venisse la tempesta, il vento carico, i tuoni i rombi e l’aria elettrica. Probabilmente avevano ripiegato i palloni perché non si strappassero, o aggrovigliassero, in attesa di un vento più forte, del momento giusto per partire. Erano rimasti tutto il pomeriggio lì a fare nulla e bere birre e ora volevano mandarli via.
Anche noi aspettiamo un po’ prima di andarcene. Non per loro. Che volino o non volino poco ci interessa. Solo vorremmo vedere come sarà quando scoppierà il temporale, da questo punto. Iniziano a cadere le prime gocce, le sentiamo per terra, sul marciapiede, vediamo che segnano tondi più scuri sulla sabbia. Anche i ragazzi sentono che sta per arrivare ma non si agitano molto. La notte arriva con un’ora di anticipo, credo, perché ora tutte le nubi hanno coperto una parte del cielo e la luce s’è dimezzata. Nell’altra parte del cielo, invece, sembra ci sia il sole col tramonto, sembra non succeda niente. A un certo punto, uno può decidere dove stare. Oppure no?
Corriamo perché ora piove davvero e non c’è da star incantati, e come viene giù sono aghi freddi sulle mani di me e Stefania, unite, e sul collo. Sento Stefania, il suo respiro ansioso, il mio, stranamente rilassato, le onde più forti, più cariche, il vento ora presente completamente. I ragazzi non li vedo più, dietro. Se li sono portati via? Rotola una birra e dibatte una porta fra i cardini, oltre un cortile che non vedo. Non succede nulla. In mezz’ora passa tutto. Siamo quasi al livello dei marciapiedi di prima, e di Coriandopoli. Tanta fretta per nulla, anche se già era tardi. E ora resta mezz’ora di luce da godere. L’aria è persino più dolce di prima e l’orizzonte più limpido, eppure è tempo di tornare a casa. Le figure che vediamo ancora passeggiare lì, sulla spiaggia, sono pochi coraggiosi o indifferenti, ritagliati in nero contro un nero poco più profondo. Mi ricordano un gioco che facevo da piccolo, quello di chiudere poco a poco gli occhi e vedere cosa resta. Non c’è niente qui di cui non abbia bisogno e tutto è provvisorio.