Di quando mio nonno torna dalla guerra con la sua grande sbornia bellica

di in: De libris

Tutto era iniziato intorno alla fine di giugno del 1982. La guerra era finita da tempo e io ancora mi sentivo un soldato rintronato dal rumore assordante dei Sea Harrier, rintronato dalle bombe, dagli ordini dei sottufficiali, rintronato dal dover ripetere ogni volta: “Signorsì, signore,” e così via. Quella guerra contro gli inglesi mi era entrata talmente nelle viscere che non riuscivo a scrollarmela di dosso. Due mesi a crepare di freddo e fame per tornare in caserma e sentirmi dire dal sergente Alcalde che, se fossimo stati più coraggiosi, avremmo vinto noi e che ora le Malvine sarebbero argentine.

La cosa però che più mi era dispiaciuta, rientrando a casa, era stato sapere che mio nonno Pasquale era morto da pochi giorni. L’avevano ricoverato all’ospedale di San Miguel il 1° maggio, lo stesso giorno in cui gli inglesi avevano cominciato a bombardarci e in cui la guerra si era convertita in una realtà tangibile. Ed era morto il 14 giugno, il giorno della resa finale. In quel mese e mezzo la morte ci aveva tenuti stretti insieme; lui, nella sua agonia, e me, nel gelo del Sud. Ci tenevo a dirgli che anche io ero scampato alle bombe e alla fame e che, quando vedevo i crateri scavati dalle esplosioni, mi ricordavo delle cose che mi aveva raccontato. Chi altro avrebbe potuto capirlo, se non lui, che era stato due anni dietro un filo spinato? Mio nonno Pasquale, partito per la guerra con mia nonna incinta di mia madre, era tornato quando mia madre andava già a scuola e non ci poteva credere che quell’uomo così malridotto fosse il padre. Si nascondeva dietro le gambe della madre che stentava a riconoscerlo e che le diceva, in quel dialetto molisano che mio nonno riascoltava dopo anni: “Ma è papà, vedi, è tornato per te”.

E io, al mio ritorno da quelle isole laggiù, sentivo che la gente provava qualcosa di simile a quello che aveva provato mia madre mentre si nascondeva dietro le gambe della nonna.
Col rientro delle prime truppe era cominciato il processo di smalvinizzazione e la gente si lasciava smalvinizzare volentieri. Nessuno voleva continuare a pensare ai morti e ai feriti delle Malvine, e il passato si lasciava cadere nel catasto dell’oblio. Su di me, però, questa indifferenza produceva l’effetto contrario e finivo per malvinizzarmi ancora di più. La notte continuavo a sognare i carri armati, gli elicotteri, il fischio dei proiettili, sognavo che mi si incancrenivano i piedi, le mani o che qualcuno mi puntava una canna di fucile dietro alla nuca. Non sapevo dove sbattere la testa, allora salivo su un autobus qualsiasi e, mentre guardavo fuori dal finestrino, mi malvinizzavo: pensavo a Fiorito, a Cardena, al rusito 1 Zukovskij e a tanti altri che erano rimasti laggiù senza memoria. Poi guardavo la gente, tutta smalvinizzata. A volte capitava che l’autista mi chiedesse il biglietto e, siccome non ce l’avevo, scendevo di corsa e camminavo sul ciglio della strada senza fermarmi, poi magari ne prendevo un altro e, se nessuno mi diceva niente, proseguivo fino al capolinea. Andavo dall’autista e gli dicevo: “Guardi, mi sono addormentato, dovevo scendere prima, le dispiace se torno indietro senza biglietto?”.

Alcuni mi rispondevano: “Va be’, tra mezz’ora riparto, resta qui”. Altri invece mi dicevano:

“Ragazzo, sono affari tuoi, un’altra volta sta più attento”.

“Sono tornato dalle Malvine,” rispondevo, “sono stato laggiù e non riesco a riprendermi, allora faccio avanti e indietro con l’autobus”.

Mi guardavano strano: “E quanti inglesi hai ammazzato?”.

“No,” dicevo, “io non ho ammazzato nessuno, non sono mica capace di ammazzare un inglese”.

Ricevevo sempre la stessa risposta: “E vuoi pure scroccare un viaggio, e non sei capace di ammazzare un inglese?”.

La gente non lo faceva apposta, a smalvinizzarsi, voleva solo dimenticare. Certe cose capitano così, senza una spiegazione, gli altri non ci volevano pensare più. C’era chi invece restava ancorato a quei giorni fatidici e pensava che salire su un autobus che portava fino al capolinea o bere della birra fosse il modo più congruo di seguire il flusso degli eventi. Mi capitava anche di arrivare fino alla Casa Rosada, guardare i balconi e ricordare i discorsi del presidente Galtieri mentre ribadiva che l’intero popolo argentino si sarebbe battuto fino all’ultima goccia di sangue, pur di riprendersi quelle isole. E ora, pensavo, quella gente che l’aveva applaudito nella speranza di vedere sventolare la bandiera biancoceleste su quelle isole continuava la propria vita smalvinizzata, senza curarsi dei tanti morti laggiù.

Avevo bisogno di smaltire quella sbornia bellica. Certe volte mi sfogavo scrivendo su un foglio una sfilza di accidenti contro Margaret Thatcher, contro Menéndez e contro tutta quella gerarchia di teste di cazzo. Poi andavo al Tío Pablo e ci rimanevo fino alla chiusura. Il barista si avvicinava con i suoi occhi strabici per chiedermi se avevo intenzione di saldare il conto.

“Domani ti porto un anticipo, devo andare a riscuotere la pensione di mia zia Albertina,” gli dicevo.

La birra mi riconciliava con la realtà. Poi , insonnolito sul tavolo, sentivo una voce che mi sussurrava all’orecchio: “Ehi Alberto! Adesso alza il culo e comincia a fare qualcosa. È tardi”.

“Tardi? Tardi per cosa?” rispondevo io.

“Non vorrai stare tutta la vita senza fare niente? Dai, alza quel culo. Che cosa ci vuole, per cominciare a fare qualcosa? Muoviti!” mi sussurrava ancora.

Un giorno, tanto per dare ascolto alla voce, ero andato alla redazione di La voz a trovare ilgordo 2Beto che allora era il capo redattore e non usava la parrucca come adesso, ma si pettinava spostandosi con infinita cura i capelli sulla calvizie, partendo dall’orecchio sinistro fino ad arrivare all’altro lato della testa. Quando soffiava, il vento gli sollevava la ciocca e lui l’appiattiva subito col palmo della mano. Viveva portando a spasso quei quattro ciuffi sulla testa. Al Tío Pablo lo chiamavano il Botticelli del riporto. E quel giorno che ero andato a trovarlo, gli avevo detto che mi sarebbe piaciuto scrivere un pezzo sul 16 giugno, ultimo giorno della mia permanenza alle Malvine, e raccontare di quando eravamo sul Canberra. Volevo scrivere della nostra condizione di prigionieri di guerra perché, dicevo al gordo Beto, non mi sarei mai immaginato che gli inglesi ci trattassero in quel modo dignitoso.

“Non saresti capace di scrivere di queste cose,” mi aveva detto il gordo Beto, guardandomi con quegli occhi inespressivi.

“E perché non sarei capace?”.

“Proprio perché l’hai vissuta, non saresti capace di scrivere niente sulla guerra”.

“Che vuol dire?”.

“Lascia stare, piuttosto potresti leggere Fogwill”.

“Non si guadagna un peso leggendo gli altri”.

“Perché, tu vorresti pure guadagnarci?”.

“Il credito al Tío Pablo chi lo paga, il governo?”.

E lui continuava a dirmi che era meglio se leggevo Fogwill.

“Ha scritto sulla guerra, ‘sto Fogwill?”.

“Certo”.

“E allora?”.

“Ma perché ti intestardisci a scrivere su qualcosa che la gente vuole dimenticare? Basta, devi guardare avanti, troppi morti abbiamo sulle spalle per continuare a seppellirli”.

Come potevo spiegare al gordo Beto che non ci riuscivo, che io gli elicotteri e le bombe me li sognavo la notte da due anni?

“È tutto passato, inutile andare avanti con queste lagne da ex combattente”.

“Ma contro chi ho combattuto io?” mi chiedevo, “Che neanche un inglese ho visto al fronte, in quella fottuta guerra! Solo quando ci siamo arresi sono venuti fuori, quei bastardi; si tenevano alla larga dai gauchos, gli inglesi; che, se ne avessi visto uno, magari gli avrei sparato; ci mandavano i gurkha 3 in prima fila, gli inglesi”.

Ecco chi erano gli inglesi, i principìni della corona. Loro, quando erano tornati su in Inghilterra, non avevano avuto mica niente da smaltire, nessuna sbornia bellica, nessuna smalvinizzazione, al contrario di me che, dopo un sacco di tempo, non riuscivo ancora a fare il punto della situazione.

Anche mio nonno si era impegnato a smaltire la sua sbornia bellica, quando era tornato dalla guerra. E la sera si chiudeva in cantina con altri reduci come lui a bere vino rosso: non riusciva a fare altro. Tornava a casa con delle sbornie colossali. Mia nonna lo accoglieva sulla porta e lo aiutava a mettersi a letto. Gli ripeteva che non era più possibile stare a crepare lassù in montagna tra la neve e la fame, che si era stancata di contrabbandare tabacco da un paese all’altro e di vedere i propri figli crescere nella miseria. Si era messa in testa che l’unica soluzione per uscire da quella sbornia bellica generale del dopoguerra fosse andare in America (dove stava suo fratello maggiore) e ricominciare tutto daccapo.

“Tanti vanno in America,” aveva detto un giorno a mio nonno, “si sta bene, c’è lavoro, c’è tutto”.

E mio nonno, che non riusciva a fare il punto della situazione, le aveva chiesto: “E come facciamo?”

“Vendiamo la casa e ci imbarchiamo, così facciamo”.

“E se poi succede qualcosa?”.

“Cosa vuoi che succeda?”.

“Non so, qua abbiamo la nostra vita, siamo nati in questo paese”.

“Eh, mo’ la vita, il paese… La vita, tu non ce l’hai da nessuna parte, che vita è andare a bere tutti i giorni in cantina?”.

Mio nonno ci pensò un po’ e quello stesso giorno prima di coricarsi prese una decisione: “Sai che ti dico, Alfunsì? Andiamoci pure noi, giù in America”.

Avevano venduto la casa e nel ‘50 erano partiti con tre figli e cinque valigie cartonate per l’Argentina. Il porto di Napoli in quegli anni era un formicaio d’emigranti. Partirono col Francesco Morosino e dopo diciotto giorni arrivarono a Buenos Aires. Nello scalo di Dakar mia madre accarezzava i capelli neri e crespi dei bambini africani che la guardavano e sorridevano aspettando in cambio una moneta. Mio nonno aveva smaltito subito la sbornia bellica in Argentina e si era fatto una casa a Don Torquato, un quartiere pieno di compaesani con le strade sterrate; un’altra sbornia anche quella, ma almeno non c’erano i tedeschi, diceva. Così vala vita. Aveva la sua famiglia vicino e qualche anno più tardi l’avrebbe circondato una schiera di nipotini, che gli avrebbero preso a calci i fiori, i pomodori, staccato le prugne dalle piante per tirarsele addosso. Lui scuoteva la testa e ci guardava da lontano.

“Che vuoi che sia,” diceva a mia nonna Alfonsina, “per due pomodori”.
In fondo era quello che voleva lui, invecchiare e fare il nonno, perché fare il padre in tempo di guerra non gli era riuscito, era stata troppo dura. Non aveva avuto né il tempo né la forza. Nel ruolo di nonno invece si trovava a suo agio, anche se era in Argentina, lontano dal paese, con i capelli bianchi, le orecchie e le narici imbottite di peli.

E io ora invertivo la rotta. Questa svolta, però, la devo a mio nonno che il 30 aprile 1982, il giorno del mio compleanno, appena aveva iniziato a sentirsi male, mi aveva lasciato una catenina d’oro per quando fossi tornato. Il nonno sapeva che adesso toccava a lui, l’aveva vista troppe volte in faccia la morte e capiva che questa volta faceva sul serio. Si aspettava che un giorno vendendo la sua catenina d’oro sarei potuto andare a vedere il suo paese, la sua gente e salutare la sua terra. Voleva che fossi io a portare a termine quel ritorno, che a lui non era riuscito. Quindi, di lì a un paio d’anni, avrei guardato quel paese con i suoi occhi, avrei sfiorato le facciate erose delle case con le sue mani e magari avrei sentito delle voci lontane, vecchie di mezzo secolo, che gridavano ancora: “Pasquale! È tornato Pasquale”.

E io, nelle vesti di mio nonno: “E certo che sono tornato, che mi facevo ammazzare da quei tedeschi?”.

E poi, con le sue gambe, avrei camminato per quelle viuzze strette fino alla porta di casa sua e per un po’ sarei diventato quel vecchio pieno di reumatismi che mi guardava scuotendo la testa, mentre gli prendevo a calci i pomodori. Mi sarei ritrovato con i suoi morti e con i suoi vivi, e tutti mi avrebbero abbracciato e mi avrebbero detto: “Ohi Pasquà! Sei tornato dall’America, Pasquà. Che si dice, là in America? Fa freddo come qua? E Nannì, come sta Nannì? E Carmelì? Racconta, racconta”.

E io, ancora nelle vesti di mio nonno, giù a raccontare delle cose: “Tutti bene… tutti bene…” Più tardi, però, sarei diventato di nuovo suo nipote e avrei sentito delle voci che tra i saluti mi dicevano: “Salutaci la mamma Costanza. E salutaci pure la nonna Alfonsina e dille che noi, a Riccia, la pensiamo sempre e che preghiamo sempre per l’anima di Pasquale, che Dio lo benedica, povero Pasquale nostro!”.

E poi me ne sarei andato e mio nonno mi avrebbe ringraziato per aver salutato la sua gente e io gli avrei ridato i suoi occhi, le sue gambe, la sua voce e lui se ne sarebbe andato tranquillo per una stradina buia piena di sassi fino a confondersi con la sua ombra che camminava radente ai muri del paese.

tratto da Sud 1982 di Adrian Bravi, Nottetempo 2008

  1. Diminutivo di “russo”.  
  2. “Ciccione”.  
  3. Nome con cui si indica una brigata di soldati nepalesi arruolati nell’esercito britannico.