La mia discesa in Grecia ha ristabilito i vecchi contatti intrattenuti da anni. All’inizio mi sono sentito un poco spaesato, ma ben presto mi sono ben ambientato. Luoghi, persone e cose mi sono oramai abbastanza noti. Non ci vado per turismo. Mi attraggono le cose più semplici e scontate: la luce del sole, che laggiù ha un colore particolare e infonde una sensazione diversa da qui, il pacifico mare, la rilassatezza che ti pare di palpare un poco ovunque. La signora che da tempo mi conosce mi ha ospitato anche questa volta, anzi lo desiderava proprio. La sua casa sta sulle colline di Tessalonica, l’ha progettata lei, essendo architetto. È una villa con giardino, ulivi e molti alberi da frutto. In casa vive con il marito, oramai in pensione, e il figlio. Ha sui sessant’anni ma è molto attiva. È una cristiana fervente ma non ha nulla di melenso né di intellettuale, nonostante abbia una laurea in architettura e una in Lingua e letteratura italiana. Il suo stile è sempre più sobrio, essenziale, rispetto ai primi tempi in cui l’ho conosciuta. Mi capita di passare da lei quando, nei giorni seguenti, devo visitare l’Athos, la penisola che ospita numerosi monasteri ortodossi. Lei è la mia “anticamera” per l’Athos: questa donna ha tutta la sobrietà di comportamento e di parole che si può trovare – in forma più evidente – negli ambienti monastici atoniti. In lei si nota pure qualche estremismo che ha il sapore di quel particolare mondo. In casa sua, però, l’ospite è trattato come un principe e si preoccupa personalmente che tutto gli vada nel migliore dei modi. Il suo stile ricalca quello di una ospitalità antica, tradizionale per il mondo ellenico e orientale, sempre più estranea al nostro mondo.
Dopo qualche giorno passato da lei sono entrato nell’Athos. Oramai non ci vado più come turista. Moltissime cose le conosco già e non mi interessano. Sapere che una chiesa è fatta in questo modo, un edificio in quest’altro, che in quel monastero c’è quel codice o quell’oggetto bizantino non mi attrae più. Quello che mi attrae sono “ta mystikà”, le cose nascoste. Per avvedersi di queste bisogna avere gli occhi ben aperti, non gli occhi della testa, però, ma quelli intimi del cuore.
Per quanto, in teoria, certe sensazioni si possano provare ovunque, è pur sempre vero che ci sono luoghi privilegiati dove si notano alcune cose. Al centro di New York forse è un po’ difficile provare la calma profonda che si prova in certi luoghi atoniti, nonostante ogni anno la penisola sia presa d’assalto da moltissimi visitatori e nuove strade vi vengano aperte abbattendo parti di macchia mediterranea.
Appena entrati nell’Athos si prova una sensazione di ordine fisico: la fame. Non è una fame lancinante, insopportabile. È un languore tenue ma sempre presente. Il rigore ascetico seguito dai monaci si infonde un poco anche negli ospiti. È una fame che deve portare l’uomo a sentire bisogno di cose spirituali, più che corporali. Le sensazioni del corpo, infatti, sono strettamente legate a quelle dello spirito secondo una conoscenza antica e sapiente.
La seconda sensazione che si prova è di ordine interiore o spirituale, che dir si voglia: ci si sente cadere da dosso qualcosa come diversi strati di polvere. Questo è molto paradossale! In un posto così, si ha una certa riluttanza ad affidare il proprio corpo ai pochi servizi igienici, soprattutto a quelli molto “vissuti”. La conseguenza è che il corpo fa presto a impolverarsi, a sudare, e non ci puoi fare granché. Alla fine della prima giornata ci si sente già sporchi e non si sa proprio come alleviare questa sensazione. Eppure, per converso, dentro di sé ci si sente lavare, come se si fosse un’automobile che passa attraverso uno di quei lavatoi disposti presso i benzinai.
Cosa farà nascere questa sensazione? Me lo sono spesso chiesto. Ho dato una prima parziale risposta pensando che le lunghe ore di preghiera passate di notte nelle chiese dei monasteri creano una energia tale da avere un impatto su chi, coscientemente o meno, la incrocia.
Qualche volta l’impatto è addirittura stordente, come una volta in cui entrai nel cortile deserto di un monastero al cui centro si trovava una grande chiesa: vigeva un silenzio “soprannaturale” così intenso che era in grado di stordire, di meravigliare. Era un silenzio completamente fuori da qualsiasi silenzio da noi provato nel mondo “comune”. Quel silenzio era ricco, denso, pieno di energia o, per dirla con linguaggio cristiano, pieno di “grazia”. Un silenzio che magnetizza l’animo, lo cambia senza che ce ne avvediamo.
Vedendo questo ho compreso che quanto cambia l’uomo non sono le molte parole, le “acrobazie teologiche” o le apologie fuori luogo, tanto più fastidiose quando non richieste. Queste cose, in realtà, producono proprio l’effetto indesiderato: l’ostinazione a rimanere quel che si è, a riempire il mondo con vuoto rumore. D’altronde delle vuote parole o delle parole svuotate non possono che produrre per reazione vuoti atteggiamenti.
Ciò che cambia l’uomo è, invece, questa straordinaria, ma delicata presenza di un silenzio ricco, denso. Il silenzio pare attestare che dietro al fenomeno di ciò che i nostri sensi percepiscono esistono mille altri mondi in grado di cambiare profondamente e rappacificare un cuore frantumato e distrutto.
Così la volta in cui il mio soggiorno termina e anch’io torno ad essere un uomo come tutti gli altri, appiattito nella grigia ferialità, lascio dietro a me un mondo che non può essere facilmente dimenticato. Questo mondo, assieme alla sua particolare luce solare, al mare rappacificante, alla rilassatezza ellenica, lascia in me una strana dolce nostalgia che si fa sentire come una ferita dolorosa per lunghi giorni. Non ho provato questo in nessun altro luogo da me visitato.