Come tutte le forme d’arte del nostro mondo occidentale, anche il jazz ha avuto la sua svolta informale, che nella musica significa disancorarsi dalla tonalità e dal rapporto consequenziale tra armonia e melodia. Questo avvenne al principio degli anni Sessanta (anche se c’erano stati vari prodromi alla fine dei Cinquanta), principalmente a New York e con i lavori di Ornette Coleman, Cecil Taylor, Albert Ayler, Archie Shepp e le ultime opere di John Coltrane. Si trattava di musica d’avanguardia, quindi, che contava diversi stili al suo interno, a volte fortemente politicizzati (come quelli di Shepp e Taylor) e che aveva buttato alle ortiche il modo classico di fare jazz, che si basava sul ritmo regolare, sui cambi d’accordo predefiniti e sulle partiture preconfezionate. Fu un cataclisma, che in un certo senso, dopo alcuni anni, venne riassorbito, trovando però una continuazione ideale a Chicago, con una nuova avanguardia, che allungò gli orizzonti del free jazz recuperando e lavorando su musiche di diversa provenienza, dalle fanfare di paese, come l’Art Ensemble of Chicago, alla musica dotta sperimentale, come Anthony Braxton. Proprio il pianista Cecil Taylor e il sassofonista Anthony Braxton sono stati i protagonisti in Emilia in questi giorni [ottobre 2007, ndr] della quarta edizione di “Concerti contemporanei”, meritoria iniziativa dell’ associazione culturale “Angelica”, per la precisione giovedì al Teatro Comunale di Modena con Taylor in duo col batterista Tony Oxley, venerdì al Teatro Comunale di Bologna con Taylor, Braxton e il contrabbassista William Parker, e ieri al Teatro Valli di Reggio Emilia, dove hanno suonato i quattro musicisti in varie combinazioni.
Uno dei dischi della storia della musica afro-americana, Free jazz di Ornette Coleman, album c he ha battezzato anche l’intero omonimo movimento d’avanguardia degli anni Sessanta, ha in copertina un quadro di Jackson Pollock, White Light. L’accostamento ci può stare, essendo entrambe le opere informali, ma più che a Coleman, l’opera di Pollock potrebbe essere avvicinata invece alla musica di Cecil Taylor, pianista iconoclasta coerente con le sue scelte estreme di poetica ormai da oltre cinquant’anni, oggi che ne ha settantotto. Anche in questi splendidi concerti emiliani (in cui l’incontro fra i due dioscuri della musica improvvisata, Taylor e Braxton, è avvenuto per la prima volta nella storia) è sembrato infatti che Taylor consideri la tastiera come uno spazio su cui le sue dita debbano ballare: di fatto, come la pittura di Pollock scaturisce da movimenti extrapittorici che potrebbero essere visti come una specie di ballo totemico attorno alla tela disposta per terra su cui sgocciola colore, la musica di Taylor scaturisce dai precipui movimenti extramusicali delle sue dita che figurano sulla tastiera le movenze di un ballerino, in entrambi la materia, musicale e pittorica, traducendosi in pittura e musica d’azione: non per niente il critico jazz americano Don Heckman, senza pensare a Pollock, ma alla grande energia profusa in ogni performance di free jazz, lo chiamò anche “action jazz” (come la pittura di Pollock era stata definita “action painting”); e d’altro canto Taylor è stato comunque sempre interessato all’arte del balletto e della danza, collaborando con la danzatrice Dianne McIntyre nel 1977 e anche componendo e suonando la musica per il balletto “Tetra Stomp: Eatin’ Rain In Space” con i ballerini Mikail Baryshnikov e Fleather Watts nel 1980.
La musica di Taylor, anche oggi col suo continuo bagliore ritmato sembra negare speranza, e anche la pur illusoria libertà e addirittura la gioia di vivere e ogni qualsiasi senso alla vita su questa terra, pur se in una maniera più quieta (ma mai docile), più melanconicamente pura ed elegante, dove prima c’era la congiunzione selvaggia dell’umano col ferino. Il suo “tocco” non è da considerarsi come lo si intende nella musica dotta occidentale, e come viene inteso molte volte anche nell’ambito del jazz (il tocco di Bill Evans, il tocco di Keith Jarrett); guai a valutare il modo di suonare di Taylor con i canoni classici e ortodossi: nella black music, è lui stesso che lo dice, il piano deve essere considerato come uno strumento a percussione. Sia con Oxley, estremamente libero, che lo ha assecondato a Modena, che con Parker e Braxton, che assieme a lui hanno disegnato una musica in campiture solenni e magmatiche, percuote il piano meno violentemente che in passato, ma è pur sempre percussione. Ancora in un maelstrom inquietante baluginano lampi di luce fulminanti e intermittenti disegnati con la mano destra ed emergono ombre cupe solennemente declamate con la mano sinistra, arrivando a un punto in cui l’arte e la vita perdono dimensione. Taylor, Braxton, Parker e Oxley nelle tre giornate emiliane si sono disposti in diverse formazioni variamente combinate, sempre incorporando nella musica altrettante vibrazioni distinte, ma che unanimemente si fanno carico di una visione del mondo dolorosa e scoraggiata. Solo a Bologna, verso la fine del concerto, a un certo punto Taylor ha cominciato come a ritirarsi, il suo suono si è fatto come incerto, mentre i compagni continuavano baldanzosi: era successo qualcosa, forse uno scarto di ispirazione con i compagni, che Taylor ha avvertito e come rifiutato, perché all’improvviso si è alzato e se ne è andato dietro le quinte; anche i compagni, lasciati soli, e sorpresi, hanno balbettato qualche nota, e se ne sono andati. Ancora una volta Taylor ha sconcertato: e a ripensarci, le tre note barbuglianti di Braxton lasciato solo, sono fra le cose più inquietanti espresse negli ultimi tempi dalla musica.
tratto da “l’Unità” del 14 ottobre 2007