Il resto

di in: Bazar

1.

 

Tutto si era ridotto di misura. Aveva visto suo figlio uscire dal cortile con la macchina: un lungo giro, il rumore delle ruote sulla ghiaia. Sua moglie era partita in mattinata per andare a trovare una zia, ospite in casa di riposo. Così era rimasto un po’ a guardare. Tutte quelle cerimonie erano così stanche, sterili.

Dopo la colazione, era sceso in giardino e si era seduto su una delle sedie che avevano comprato con l’ombrellone. C’era ancora un po’ di tempo. Il giornale dava la giunta per finita.
Sua moglie si era data molto da fare per migliorare il giardino, aveva disposto bene ogni cosa.

Prendersela con lei, a questo punto, sarebbe stato del tutto inutile. Eppure la nuova casa di campagna, così accogliente, non rappresentava in alcun modo un passo avanti.

Da ragazzo, contro la sua volontà, la famiglia lo avrebbe voluto medico. Si era immaginato di girare per i paesi, da un ambulatorio all’altro. Poi, si era visto in una giornata di sole, fermo in mezzo alla strada a consigliare la madre di un bambino che correva lì attorno. Magari anche a guardarle le gambe, la scollatura. Nonostante la familiarità col dolore, quello del medico è un mestiere solare, vivo. Forse avrebbe potuto ancora provarci, darla a bere.

Era difficile credere che fosse riuscito a trovare una soluzione. Eppure, in virtù di qualche espediente di natura formale, aveva avuto fortuna là dove altri avevano dovuto desistere. Le due sorelle sarebbero arrivate a momenti per apporre la firma, chiudere la pratica (ma la soluzione non lo persuadeva del tutto, per questo le aveva invitate a casa).

Forse stava entrando in un’età in cui non c’era più nulla di chiaro. Se gli avessero chiesto che cosa ne pensasse del suo lavoro, avrebbe risposto in un modo che poco tempo prima non avrebbe neppure pensato di poter concepire.

Si alzò per appoggiarsi alla staccionata. Più in basso, oltre la strada, un’asta dell’irrigazione aveva ceduto. Restava piantata in obliquo in mezzo al prato. È difficile spiegare fino in fondo in che modo le persone tendano a identificarsi in quello che possiedono. Nella sua dimensione quotidiana questo aspetto può apparire scontato; quando però si arriva a parlare della terra, delle costruzioni, il fenomeno assume una misura diversamente rilevante. Quando si prendono in esame le particelle fondiarie, accade sempre qualcosa di più radicale e di drammatico, come se le qualità degli uomini trovassero nella terra – ancor più che nelle abitazioni – il mezzo per perpetuarsi, per sopravvivere in uno stato ancora potenziale, inalterato. Per questa ragione la loro destinazione in un’eredità risulta sempre urgente e insieme difficile: perché in fondo è questo il fine cui tende la volontà, certo non quello della giustizia distributiva. Quando uno ha trascorso qualche anno ad occuparsene, sa bene anche senza riflettere che il diritto di proprietà reca in sé un’impronta metafisica.

È questo che rende inutile il resto.

 

2.


Molto prima che la sua adolescenza cominciasse, la famiglia, che non aveva mai manifestato esteriormente alcuna ragione di conflitto, aveva scoperto di avere in sé un corpo estraneo. Che si trattasse di lui, non ci avevano messo molto a capirlo. Del resto, si sentiva tanto isolato in mezzo ai suoi parenti che aveva continuato segretamente a pensare di essere stato adottato (è comune che i ragazzi si raccontino storie come questa; ma per lui durò un po’ più a lungo del normale). Lo aveva confidato a un amico, il quale non aveva trovato nulla da ridire. Tutto sommato, infatti, la tesi poteva trovare solidi argomenti. Ogni suo piccolo successo era stato salutato non come un’affermazione, ma come un enigma da interpretare: invece di gioire, di esprimere soddisfazione per il risultato raggiunto, i suoi parenti si traevano in disparte in un gruppetto e restavano per lo più stupiti a chiedersi: “Come è possibile? Non può essere”. E cominciavano a riflettere, a discutere.

Ora, poiché al termine della riflessione, che poteva durare a lungo, la cosa, ancora, non sembrava possibile, concludevano che in fondo questeperformances riguardavano solo lui – non avendo in alcun modo tratto origine da loro – e si dicevano che non potevano dire di conoscerlo davvero e che per questo, infine, per questa diversità di vedute che sembrava esprimersi nei suoi gesti, non avrebbero potuto sentirsi partecipi di questi momenti, anzi forse neppure andare pienamente d’accordo con lui. In altre parole, avevano capito (come aveva detto uno zio) che “pur essendo uno di loro, non era propriamente uno di loro”. Quindi, ogniqualvolta che l’evento si era ripetuto, avevano preso a comportarsi di conseguenza. Avevano tentato di fargli fare il medico, perché almeno potesse rendersi utile.

Lui all’inizio non se ne era neanche accorto. Trovava soddisfazione nell’andare avanti, nel proseguire quanto aveva incominciato, continuando a fare qualcosa di buono. Eppure, senza troppe avvisaglie, il tempo era cambiato.

Si era consolato come aveva potuto.

 

3.


Salendo in mezzo alla campagna, la strada si restringeva. Si aveva il timore di incontrare qualcuno che scendesse. Dal finestrino, i ciuffi d’erba che sbucavano dal ciglio del muro sembravano molto vicini. Fossero state più ricche – pensava – avrebbero chiamato qualcuno, invece andavano avanti e indietro da sole, con la vecchia auto. Di tutto ciò che aveva visto il giorno prima, alberi, strade, case, le era rimasto in mente il grande fienile ridotto in cattive condizioni e qualche altro campo. La stima era fatta ed era buona. Inutile perderci del tempo. Sua sorella guardava dall’altra parte. La casa che aveva conosciuto da ragazza era scomparsa. Rimaneva qualche particolare, qualche dettaglio, ma perfino la materia non era resistita (l’ampliamento aveva modificato l’intero impianto. Lo aveva visto: si era fermata davanti al deposito di inerti, aveva preso in mano uno dei calcinacci con l’intonaco arancione del salotto). Di fronte a certi avvenimenti si cerca di andare avanti, di fare ciò che è giusto, ma alla fine si resta sempre più soli. Rallentò un istante.

“E tua figlia?”, chiese la sorella.

“Non lo so. Credo che abbia portato la bambina al nido.”

“In ogni caso cercheremo di sbrigarci. Un’ora, un’ora e mezza al massimo.”

Le disposizioni ereditarie sono una pena, soprattutto quando si vende, ma certo la stagione non aiutava. Da poco aveva posto rimedio – almeno temporaneamente – al problema sorto con l’aggravamento di salute di uno zio, ormai incapace di badare a se stesso. Sua figlia, dopo la separazione, le chiedeva sempre più spesso una mano con la bambina. E ora la questione dei beni dei parenti. La stanchezza che di tanto in tanto avvertiva come una minaccia, era diventata una presenza quotidiana. Pensava agli ultimi anni di vita di sua madre.

“Sono così stufa di dover andare avanti e indietro”, disse la sorella, “Mi sembra sempre di perdere tempo. Certo, tu mi dirai che tanto non ho niente da fare, ma sono stanca di tutto questo, di queste cose. In certi momenti, mi sembra proprio che non mi riguardino.”

In fondo, aveva pensato, davvero non le riguardavano.

 

4.


Un giorno, lui e suo cugino avevano spinto fino a casa una vecchia auto da demolire. L’avevano chiesta a un vicino, che gliela aveva concessa dopo una lunga trattativa. Girando per i campi a quel tempo si potevano vedere qua e là molte macchine abbandonate: i proprietari le portavano verso il confine e le parcheggiavano in mezzo all’erba. In qualche modo singolare, tutti speravano che le automobili fossero in grado di sopravvivere al proprio declino. Alcuni contadini, ad esempio, tenevano gli attrezzi, chiusi a chiave nel bagagliaio. Pareva inconcepibile che un bene costato così tanto non potesse in qualche misura essere riutilizzato. Quando da ragazzi vi si entrava, guardando dal parabrezza si poteva notare un panorama che mostrava in tutto il suo chiarore il dispendio di tempo e di energia in cui venivano consumati quei pomeriggi. Si pensava a ciò che si sarebbe voluto vedere: l’Inghilterra, la Francia. Una casa sul mare. Paesi lontani. Ogni tanto, suo cugino si aggrappava al volante e gridava il nome di qualcuno che avrebbe voluto mettere sotto.

Prima di partire sua moglie gli aveva detto di chiudere l’auto in garage, di regolare un po’ il giardino, in modo da fare bella figura con le sorelle. Aveva invece spostato la macchina e si era di nuovo seduto. Poi, guardando l’orologio, si era accorto di essere ancora più di venti minuti di anticipo sull’appuntamento. Troppo, per restare ad aspettarle. Contando sulla possibilità di ritornare con un quarto d’ora di ritardo, aveva appoggiato gli incartamenti sul sedile posteriore e aveva messo in moto.

Voleva arrivare in piazza, bere un caffé e fermarsi a vedere i portici. Non voleva arrivare in tempo.

Era stanco.

Se si considera la cosa anche con poca attenzione, si può comprendere che c’è quasi sempre un punto nella vita di un uomo, difficile da stabilire, eppure evidente, in cui per stanchezza si arriva a fissare, per così dire, il dominio utile della conoscenza: quasi una forma di messa a frutto delle immagini. Ripercorrendo le situazioni in cui si era venuto a trovare in quegli anni, si era reso conto di aver seguito quasi tutti i percorsi procedurali. Stava perdendo interesse nei casi umani.

Aveva scelto di passare per una vecchia scorciatoia, sperandola ancora libera, un tratto di strada che tagliava attraverso la campagna, passando per le ultime terre che erano state messe a coltura. In mezzo al verde, si vedeva ancora qualche campo abbandonato. Tra i vari gradi di inutilità del suo percorso, questo – pensava – non era per niente il primo.  Saliva in mezzo ai vigneti.

Un po’ più avanti si era fermato sul ciglio di un incolto ed era sceso. Le vigne, storte e cariche di tralci, si reggevano ancora, tenute assieme dal filo di ferro arrugginito. Si era girato dall’altra parte.

Nel campo, si era fatto largo fra un cespuglio di rovi e era arrivato a un cumulo di materiale di scarto e vecchi detriti, vicino alla capanna degli attrezzi. Si era guardato attorno. Dal mucchio aveva tolto due assi, staccandole dalla parte superiore di una vecchia porta, dalla quale erano ormai quasi divelte. Aveva pensato di fissarle a una tavola, di farle incorniciare. Sapeva bene che la sua famiglia non metteva mano al campo da quasi cinque anni.

Di lì in poi, la strada era libera. Arrivò in piazza e parcheggiò la macchina vicino alla macelleria. Poi passò in edicola e andò a sedersi ai tavoli del bar. Non sapeva neppure dove si trovasse, suo fratello, in quel momento. Guardava gli ombrelloni che si aprivano in uno dei primi giorni di sole, i frigoriferi esterni, il condizionatore, la cassa. Pensava alla città, ai distributori automatici.

La rapidità dell’innovazione rende questi oggetti del tutto inadeguati a un aggiornamento che ne interessi la struttura. Certo, si fa quel che si può, li si tira a lucido, ma in breve, apportata qualche miglioria, si arriva a una soglia che non può più essere superata: è questa che ne determina l’obsolescenza, mentre l’oggetto è ancora integro, anzi privo di tracce sensibili di deterioramento. L’invecchiamento, così, è causato da variazioni che il più delle volte non si possono leggere nella storia della materia, nella vita degli oggetti, i quali sembrano conservare una certa innocenza. Pertanto, come già per gli immobili, anche per questo tipo di cose il proprietario si scopre inadeguato. Non sa padroneggiare ciò che possiede e, non appena ha imparato, la sua libertà di disporne dura un tempo molto breve. Non può neanche immaginare di lasciarle a qualcuno, deve già pensare a sostituirle.

Se ci si fermasse alla superficie delle cose, l’intera questione della proprietà potrebbe apparire quasi fallimentare. Non stupisce che molti, non cogliendone appieno il significato, abbiano trovato fin troppi argomenti per criticarla.

Aprì il giornale. Aveva bisogno di distrarsi. Non c’era molta gente in giro. C’era stato il campionato di corsa in montagna. La classifica occupava una pagina intera.

Arrivò il cameriere con un bicchiere di spumante.

“Il signore che sta al banco le offre da bere.”

Si girò verso il locale e sulla porta riconobbe suo cognato. Sembrava eccitato, ma lui non era in vena di conversazione.

“Sorpreso?”, gli disse, venendogli incontro.

“No.”

“Non volevo disturbarti. Ti ho visto tanto intento a leggere.”

Sapeva che il cognato voleva parlargli per chiedergli un consiglio. Si era da poco separato, senza raggiungere un accordo ragionevole con la moglie ed era sempre intento a progettare nuovi investimenti. Fuggire da lui per tornare al lavoro era un po’ come passare da un tavolo all’altro. Si mise perciò a osservare la facciata della chiesa. Il cognato gli diceva che avrebbe avuto bisogno di parlargli.

Dopo il restauro, la facciata aveva riacquistato il colore grigio, chiaro di un tempo. Gli archi della loggia, e in parte il rosone, restituiti a un candore nuovo sembravano aver perso un po’ di nitore nella linea, come se si fossero avviati a diventare in qualche modo una rovina: si avvertiva subito che lentamente, ma senza sosta, la polvere continuava a cadere.

Eppure, l’epoca romanica era piena di una speranza concreta, quotidiana, molto più di quella gotica.

Accanto alla chiesa, sulla facciata del palazzo che ospitava alcuni servizi degli uffici comunali, per due decenni la meridiana era stata rivestita da un pesante strato di intonaco ocra, che ne aveva cancellato il quadrante e i riferimenti. Solo l’asta piantata nel muro aveva continuato, sia pure in modo molto più astratto che in precedenza, ad assolvere il suo compito.

Mentre il cognato gli diceva che c’era poco tempo, che gli avevano lasciato solo una settimana per chiudere l’affare, guardò verso la sua macchina. Era il momento di sbrigarsi, ma gli piaceva rimanere seduto, aspettare ancora un po’. Disse al cognato che gli avrebbe fissato un appuntamento per metà settimana. Poi tornò a guardare la facciata della chiesa e si avviò verso la macchina.

 

5.


Una sera erano addirittura usciti a giocare a bowling. Se lo ricordava bene. Lui era a disagio, anche se poi aveva finito per non darlo a vedere. La scena aveva in sé qualcosa di inatteso. Era stato divertente, si era detta che le serate ridicole lasciano sempre dei ricordi buffi. La cosa la aveva messa di buon umore. Dalla finestra della cucina osservava le due sorelle in giardino: passeggiavano, guardavano le piante. In fin dei conti avrebbe potuto almeno lasciare scritto qualcosa, se non aveva voglia di telefonare. Era venti minuti in ritardo. Cominciava un po’ a seccarsi. Aveva accolto le sorelle, poi, grazie al cielo, si era offerta di preparare il tè. Aveva preso il vassoio dalla vetrina, appoggiato le tazze. Secondo i giornali andavano incontro a una stagione che sarebbe stata particolarmente umida, a causa delle correnti. Insomma, le vacanze al mare erano a rischio. Pensava a un vestito che aveva visto il giorno prima, e a quello che avrebbe dovuto portare a sua madre. C’era tempo.

Proprio mentre stava versando l’acqua nella teiera, si fece avanti una delle due sorelle: “Mi scusi se vengo a disturbarla”, disse. “Ma avrei una cosa da chiederle. Come sa, quello di oggi non è un vero e proprio incontro, siamo state convocate solo per la firma. Io però avrei ancora una richiesta. Lei crede che l’esclusione di un bene dall’accordo, ferme restando tutte le altre condizioni, comporterebbe un rinvio troppo lungo? Non credo che quello che ho in mente possa suscitare grandi discussioni (certo non sposterà di molto il valore del patrimonio) ma mi chiedevo: c’è bisogno di un lungo lavoro per ritrascrivere la pratica? Ho fatto un po’ di conti e credo che, dopotutto, a stima fatta, non dovrebbero esserci molti impedimenti. Si tratta solo di rivedere gli importi, no?”

“Credo di sì, ma perché me lo chiede?”

“Perché non volevo arrivare davanti a suo marito senza averne fatto parola con qualcuno. Non mi andava di discutere con mia sorella e soprattutto temevo – e temo ancora – la reazione di suo marito.”

Poco prima del perfezionamento di un accordo c’è sempre un momento nel quale una o entrambe le parti mettono in gioco gli ultimi ripensamenti. Si tratta per lo più di semplici scrupoli, ma talvolta, in certi casi, vi si può leggere una diversa motivazione, l’espressione di una volontà che si sente troppo stretta nelle condizioni del contratto, che non vuole risolversi interamente, come se dovesse rivendicare a tutti i costi la propria autonomia. È una risposta frequente in chi non è abituato a questo tipo di operazioni. L’interlocutore riconosce la ragionevolezza dell’accordo, ma cerca, in un certo modo (e proprio a partire da questa circostanza) una via per trovare una soddisfazione esterna a quanto accaduto, ovvero qualcosa su cui rilanciare la parte di sé che  non è stata interessata dal contratto.

“Se posso permettermi di dirglielo, al di là delle questioni tecniche – delle quali non le so dire nulla – presumo che dovrà andare incontro a un momento di discussione.”

Si spostò davanti alla finestra.

“È gentile, ma se si tratta di mia sorella, non si preoccupi. Sono preparata. Poi, le ripeto, il valore del bene non è tale da fare sorgere contrasti. Non ho detto niente fino ad ora perché non volevo che la questione si facesse troppo lunga, ma ora credo che sia giunto il momento. Ma, davvero, era soprattutto suo marito quello che mi preoccupava.”

Riprese in mano la teiera. “Se si tratta di mio marito, non ha niente da temere. Sono sicura che sarà in grado di accogliere la sua richiesta.” Guardavano entrambe verso l’altra sorella. Si era alzato un po’ di vento. La prima sorella si sporse dalla porta:

“Arriviamo subito”.

C’era qualcosa di moderato e insieme di febbrile in quella donna. Era nervosa, eccitata per la situazione anche se, sia pure fatica, riusciva ancora a trattenersi. Portava degli orecchini antichi.

Due pendenti in oro bianco con una perla opaca.

La osservava.

Un pomeriggio di molti anni prima era dovuta andare a controllare i lavori di scavo per conto di suo padre. Era rimasta qualche ora in mezzo al campo, con la giacca a vento, quasi sul ciglio dello scavo. Per non dare troppo nell’occhio e soprattutto per evitare che i lavoratori le parlassero, durante l’arco di tempo in cui si era fermata aveva guardato la distesa di campi neri che si stendeva verso la campagna. Data la stagione invernale, sembravano tutti incolti.

 

6.

       Al di là di qualunque significato simbolico che si voglia loro attribuire, i soli congegni meccanici che si sottraggano al fenomeno dell’invecchiamento, dell’obsolescenza, sono forse gli orologi. Privi di oggetto esterno, dotati di una funzione che coincide, di fatto, col loro semplice funzionamento, gli orologi realizzano concretamente l’ideale di una macchina perfetta e inutile, molto più di quanto non lo facciano, ad esempio, alcune invenzioni dei Patafisici (che spesso si possono ricondurre a un modello simile). Per affermarsi nella sua oscura sterilità l’orologio, infatti, non ha bisogno di esprimere un’intenzione, di dichiarare la sua destinazione d’uso, sia pure la più fantasiosa e improbabile. Basta, semplicemente, che funzioni. Quando un orologio riemerge in mezzo alle cianfrusaglie, a ciò che resta dopo aver rimesso in ordine la casa, basta poco perché riacquisti la propria dignità. Per quanto il suo meccanismo possa essere complesso o, al contrario, del tutto elementare, l’orologio non va mai incontro a quel deperimento che troviamo presente in quasi tutte le macchine: non ha bisogno di essere aggiornato. Per questo è in qualche modo disumano. Invecchiando, non diventa mai un oggetto desueto.

 

7.


“Certo, bisognerà rifare tutti i calcoli, correggere gli importi, rivedere i termini dell’accordo.

Questo richiederà un po’ di tempo, almeno una settimana, anche di più. Poi dovrò parlare con gli acquirenti. Non credo che cambierà molto, ma vi dico subito che dovrete aspettarvi senz’altro una variazione. Del resto, spero che comprendiate: è più che probabile che si infastidiscano.

Vorranno fare un’altra offerta. E qui bisognerà avere pazienza, riprendere in mano i termini della questione. E poi, se tutto andrà bene, saremo daccapo, preparerò le carte, vi chiamerò e a quel punto, se vorrete, finalmente firmeremo.”

Non l’aveva presa neanche tanto male. Meglio di sua sorella, che prima aveva reagito chiedendo tempo per proporre anche lei una richiesta, poi aveva smesso di parlarle. Ci era voluto un bel po’.

Mentre scendeva in macchina verso il paese si sentiva contenta di quello che aveva fatto. Sua sorella, dopo alcuni momenti di incertezza aveva accettato la soluzione che le assegnava semplicemente una quota maggiore dal ricavato della vendita. Si era sfogata. Aveva pianto. Era rimasta molto dispiaciuta nel constatare che le loro prospettive sull’operazione non erano le stesse: si era sentita sola. Eppure non erano poi cose cui tenessero molto. Sua sorella viveva in un’altra città da più di vent’anni. Era contenta di aver chiesto per sé quel campo lontano, dove un tempo avevano una baracca di campagna. Nel giro che avevano fatto tutti assieme non l’aveva colpita, ma ora – per così dire – sentiva di averlo riacquistato. Non aveva mai avuto alcuna inclinazione per l’agricoltura, neppure per l’orto o le piante: certo non le sarebbe venuta d’un tratto proprio ora.

Doveva solo andare in quel campo e fermarsi lì, restare a guardare. Si era perfino detta: adesso finalmente posso dire di aver fatto qualcosa di buono. Il sole era ancora alto.

“Scusami, possiamo fermarci a bere qualcosa? Credo di aver preso freddo.”

“Va bene, ci fermiamo in paese.”

Avvolta nel soprabito fino alla testa, la sorella stava appoggiata contro il finestrino. Non erano posti cui fossero così legate, ma in fondo – come capita sempre – non era rimasto niente. Sapeva bene che avrebbe dovuto impiegare il denaro della vendita in qualcos’altro, ma non se ne sentiva più la forza.

Continuavano a scendere.

Sulla piazza centrale del paese non c’era molta gente. I portici davano comunque un’impressione di movimento, come se il mercato si fosse chiuso da poco e i commercianti avessero giusto ritirato i loro banchi.

 

8.


Frequentava ancora la scuola elementare quando fu introdotto l’obbligo di demolire le vecchie auto. A D’un tratto, senza alcun preavviso, le macchine erano state fatte sgombrare dai campi in poche settimane. Non ne era rimasta neanche una. Ricordava che tempo prima suo fratello si era fatto un taglio in una mano tentando di ricavarne dei pezzi da vendere. In fondo, anche l’auto che avevano spinto a casa con suo cugino era durata poco. Pensava che la perdita degli oggetti su cui si erano stratificati i loro ricordi (e in primo luogo i sacrifici familiari che avevano permesso l’acquisto della stessa automobile), era sembrata, allora, liberatoria. Non era che un altro aspetto della questione.

Aveva pensato molto alle sorelle, dopo la loro partenza. Sua moglie si era detta un po’ preoccupata per ulteriori possibili sviluppi della vicenda, ma lui sapeva bene che la cosa sarebbe potuta andare molto peggio. Mentre salivano in macchina, si era detto che tempo prima avrebbe pensato di appartenere ancora al loro tempo. Una generazione cui era stato consentito di sperare, che ne aveva conquistato, con molta fatica, i mezzi, che aveva posto in atto ciò che tendeva a queste aspirazioni e che infine, in termini elementari, si era potuta accontentare. Sapeva che l’ambito del possesso fonda il confronto sull’oggetto, non sull’espressione, sulla competenza, per questo non aveva voglia di tornare sulle loro pretese. Per sé, invece, aveva ancora molto lavoro da fare. Aveva raccolto i libri e li aveva riposti sul tavolo, poi era uscito in giardino.
Sua moglie rompeva le noci per preparare un dolce. I contadini erano venuti a sistemare la canna dell’impianto di irrigazione. Dopo averla raddrizzata, l’avevano ancorata a un melo con del filo di ferro.

Guardava davanti a sé le cime delle piante del frutteto. Dietro le prime si poteva scorgere ancora il cielo, mentre le altre, più in basso sul pendio, ormai si negavano alla vista. Sui rilievi lontani il segno dell’ultima nevicata era scomparso.