Nella mente
Noi siamo sempre in mezzo.
Rocco Ronchi, “Liberopensiero”: “Limite”
Giovedì ventidue gennaio 2009. Ore 07:00. Oggi dovevo essere a Roma. Ci sarebbero stati degli amici cari ad aspettarmi, ma è arrivata l’australiana: febbre a trentanove e mezzo, dolori muscolari, brividi, malessere generale, mancanza di appetito, in rari casi congiuntivite, nelle persone anziane anche stato confusionale. Sono stato fortunato: solo febbre e brividi, e un poco di malessere generale, ma quello, certi periodi, è una costante. Stanchezza diffusa, per fortuna, per ora, niente.
Mi ero fatto, passo dopo passo, lo schemino esatto del mio viaggetto romano, come le chiama – queste mie sortite romane – l’amico che mi avrebbe dovuto aspettare. Prendevo la corriera circa alle sette, arrivavo circa alle undici. Dalle undici in poi due ore e trenta a zonzo.
Appena arrivato a Castro Pretorio – le antichissime caserme delle guardie pretoriane, e caserme ancora –, prendevo il metrò e scendevo a Piazza del Popolo. È da quelle parti che il mio amico stava di casa prima. Due volte sono stato lì, e una mattina mi svegliai presto, e me andai a camminare nel verde mattiniero di Villa Borghese.
Appena dopo i propilei svoltai a sinistra per la bella stradina con il ninfeo, poi in una qualche maniera ce la feci a raggiugere il lago, e lì me ne stetti a guardare il tempietto del dio della medicina (educato dal centauro) con le anatre che gli gironzolano attorno. Ma lì mi disorientai un poco.
È che stavo seduto sotto un albero e pensavo al giorno prima. Ero partito presto, all’ora giusta. Si trattava di vedere “La conversione di San Paolo”, lì, a due passi, a Santa Maria del Popolo.
Ora non ricordo esattamente in quale delle cappelle sta la tela. Dovrebbe essere, guardando l’altare, la prima a sinistra, di sicuro sulla parete destra, abbastanza alta da terra, tanto che guardando la scena, che si svolge in una stalla nuda e cruda, il cavallo pare che ti stia per calpestare, pure a te – ma non lo farà, però è fermo in quel gesto lì, per sempre, di pericolo scampato –.
Stamattina invece tornerò alla Galleria Borghese per rivedere un altro dipinto che amo; è la “Dama con l’unicorno” di Raffaello Sanzio, 1505 circa, olio su tavola, un quarto di metro quadrato – di meno – di perfezione. Lo amo per non pochi motivi, ma il maggiore tra loro è che una volta ci venni a vederlo con mio figlio adolescente, che sgambettava impaziente per ricordarmi la sua giovane età.
Lei, la dama, non ti guarda in faccia. Volge gli occhi tutti a sinistra. Ha i capelli bellissimi, raccolti intorno al viso in una sottile onda. Il volto è tutto incorniciato nel celeste del cielo. Il piccolo liocorno pure lui guarda dove guarda lei, ma è messo di fianco, il suo sguardo è centrato dunque. Chissà che c’è nella stanza dove stanno i due a guardare tanto intensamente.
È forte l’unicorno. Borges nel suo manuale di zoologo fantastico dice che è un cervo-bue-cavallo che non calpesta i pascoli verdi, e non fa male a nessuna creatura, e campa mille anni (mediamente), ma se viene ferito è di cattivo augurio; ma il liocorno di questa dama è piccoletto e giovanissimo – secondo me – e nessuno può ferirlo, e il colore del suo pelame è come il colore dei capelli della dama, o quasi. Lo stesso dicasi per gli occhi.
Dove devo andare non è distante da qui. a piedi ci voglio non meno di mezz’ora, ma sono un poco acciaccato, e ora un poco, diffusamente, stanco. Sono arrivato intanto dove la Salaria incrocia Viale Regina Margherita. Dovrei continuare a nord fino all’incrocio con Via Anapo, svoltare a destra, fare tutta Via Anapo (ma che è? Ah, un fiume siciliano, l’ho appena visto nel web) e Via Panaro (questo lo so che è un fiume). A cento metri, nemmeno, c’è di casa l’amico che ha organizzato il pranzo, o meglio, l’avrebbe organizzato se non arrivava l’australiana. È venuta anche a lui, 39,3 gradi centigradi ieri sera, le gambe gli facevano giacomo giacomo. Australiana pura.
No, gironzolo un altro po’ e poi prendo un mezzo fino a Piazza Volsinio (un altro fiume? No, non penso). Una via si può chiamare come un fiume. È un fiume una via, ma una piazza… Ecco sono arrivato. Sto suonando alla porta. Spero di non essere arrivato per ultimo. Una faccia diffusamente stanca non deve giungere per ultima. Ci sono sei ore da stare in compagnia. Sicuramente stasera mi accompagneranno alla stazione dei pullman davanti le caserme. Ecco, sta arrivando qualcuno ad aprire la porta. Ora le ore voleranno tutte in un attimo. In un attimo mezzanotte.
È quasi mezzanotte. Di qui a mezz’ora sono di nuovo a casa. No, non è vero. Sono le 8:35 di un giovedì di gennaio.
VIA NOMENTANA
stupito dalla bellezza / mentre tagliava un’arancia
Edoardo Albinati: ‘Elegie e proverbi’: Si affetta le mani
Giovedì 26 febbraio. Stavolta ci vado per davvero a Roma. Sono circa le sette del mattino. Sono seduto sotto la pensilina di Corso Garibaldi a San Giorgio, lungo la Statale Adriatica. Fra un po’ di minuti il pullman partirà. Con me partiranno una bella signora della mia età, con i capelli neri e gli occhi neri, e un giovane ragazzo sui 25 anni, vestito di tutta marca e di tutto punto: scarpe verdi e cuffia verde, jeans nuovi sdruciti e giubbetto nero stretto-non-stretto. Sta già telefonando. Lo farà in continuazione lungo il tragitto. Non meno di quindici volte. Ogni telefonata la chiuderà dicendo: Adesso arrivo! Sto scherzando! Una ragazza lo aspetta a Roma. Corre il rischio di non trovarla.
Hanno gambe robuste le parole, ma sforzate troppo si spezzano le gambe delle parole, oppure divengono una torta subito guasta. Ti escono da dentro – dalla Mente – e ti vengono da fuori – dal Mondo –. Devi stare attento a tale movimento. Ci vorrebbe un semaforo dentro e un semaforo appena fuori, e per giunta non sincronizzati. Divergono e convergono di continuo le parole, ma la risposta alla domanda che pongono ogni volta è sempre una sola alla volta.
No, non farò un percorso a caso per raggiungere i miei amici, però la dama con il suo liocorno non ci torno a vederla come mi ero ripromesso un mese fa. Camminerò piuttosto da Porta Pia a Sant’Agnese. Alle 13,30 sarò da loro puntuale. Andrà così. Se c’è tempo scendo anche nelle catacombe di Sant’Agnese.
Il viaggiatore che mi è davanti sta leggendo Il Messaggero. Lo scorre nervoso. Ogni pagina che svolta è un sobbalzo. Ha la mia età. Digita di continuo sull’ agenda elettronica. Io prendo annotazioni, muovo la mappa enorme di Roma piegata in otto. Ora lui sta sfogliando con la sua tecnica a sobbalzo l’organo confindustriale, quello che pronostica 24 ore di sole al giorno.
10.173 metri. Tanto è lungo il traforo. Mi sono messo a sedere davanti. Era libero. È potente la galleria del Gran Sasso. Un’opera immane, di quelle che fanno la misura di un’epoca.
Ecco, siamo usciti dalla galleria, siamo nell’ovest d’Italia. Il mio coetaneo intanto è giunto al parossismo allo stato puro, io per fortuna non ci sono arrivato ancora con i tragitti da progettare per la mattinata. Ha appena chiesto all’autista se potrà “scaricarlo” alla barriera di Lunghezza, all’ingresso di Roma. L’autista, più giovane di lui di vent’anni, lo guarda come si guarda una persona smarrita.
A compensare la scena di tale e tanto smarrimento ci pensa per fortuna il secondo autista, è molto giovane, parla piano e parco con l’amico al volante. Gli sta dicendo che ha trovato una casa a Roma, che ha girato molto prima di trovarla e che “tanto, di meno, non la trovi una casa a Roma”.
Da un po’ di tempo penso a questa parola qui: “creatività”. Ho letto che l’idea di creatività come atteggiamento mentale esce fuori negli anni venti del novecento scorso. Ralph Waldo Emerson pensava che il potere creativo fosse tutto, poi, però, quando gli accade qualcosa di estremamente doloroso si ricredette e scrisse che “le circostanze contingenti sono la metà di questo tutto”.
Questo ragazzo che sta parlando di questa sua nuova casa è posato, per niente creativo a sentirlo, eppure le sue parole hanno un che di altamente creaturale.
Roma. Porta Pia. Dire che questo posto è cruciale è il meno che si può dire. Per dire di questa porta toccherebbe partire dal 200 dC e arrivare almeno al 1900. Provo a dire allora di un frammento di essa.
Sono nel cortiletto interno; è qui che sta il monumento a Enrico Toti, il quale “due volte ferito / colpito a morte da un terzo proiettile / con esaltazione eroica lanciava / al nemico la gruccia e spirava / baciando il piumetto con stoicismo degno / di quell’anima altamente italiana” – “Quota 85 Monfalcone 6 Agosto 1916”.
Sono le parole con le quali Enrico venne insignito della medaglia d’oro al valore militare. Sotto la lapide c’è Enrico nel gesto di lanciare la gruccia. Nelle rete ci sono alcune foto di Toti. Sono estremamente commoventi. Di sicuro non gli mancava forza e coraggio.
Pedalava con una gamba sola, e quando arrivò al fronte, ho letto da qualche parte, pare che gli chiesero che cosa voleva e dove andasse mai, e lui disse che voleva andare a Trieste per piantare sul colle di S. Giusto il tricolore; e poi disse che non gli importava se gli mancava una gamba, lui era capace di arrampicarsi come uno scoiattolo, di strisciare come una biscia, di nuotare come un pesce, e sopportava sia la fame che la sete.
È da Porta Pia che prende avvio, verso nord est, Via Nomentana. Di qui a duecento metri sarò nel giardino di Villa Torlonia, con il suo palazzo bianchissimo elevato al cubo. Leggo sul coupon che dal 1925 al 1943 la villa “fu affidata a Benito Mussolini” il quale realizzò nel piano interrato “un rifugio antigas ed un bunker antiaereo” (visitabili su prenotazione).
Fu lo stesso Mussolini a volere davanti Porta Pia il monumento al bersagliere. L’inaugurazione solenne ci fu il 18 settembre 1932 dinanzi a Vittorio Emanuele, a Umberto, allo stesso Mussolini.
Sul sito della Sovrintendenza ai monumenti di Roma leggerò: “L’opera presentata da Publio Morbiducci costituiva una realizzazione di facile impatto sul pubblico ed interpretava in modo autentico il carattere “popolare” del bersagliere”; “Il monumento è costituito da una imponente scultura in bronzo, alta 4 metri, che raffigura il Bersagliere scattante all’assalto”.
Non ho idea di quante tonnellate pesi questo nostro bersagliere. So però che la volta che andammo a Roma a Forte Boccea, per il giuramento da bersagliere di mio fratello, era il ’72, c’era un’aria di festa, leggera; eravamo commossi.
Guardo il colosso di bronzo, sorrido amaramente. Penso a quel 18 settembre, a lui che intuisce quanto sta per accadere di lì a qualche anno, e allora con il suo immane peso scatta in avanti. Eccolo lì a mezz’aria. Di qui a una porzione di secondo il corso della storia cambierà. Ma non andò così purtroppo.
Cammino per Via Nomentana, in fondo mi aspetta Sant’Agnese e un cortiletto dove riposare un po’, e poi ancora mi aspetta una panchina, dove aspettare quieto l’ora di pranzo.
Ho preso una bottiglia di Morellino di Scansano DOCG. La G è importantissima mi ha detto il negoziante: È la garanzia. Il morellino “al gusto” è secco e insieme caldo e leggermente tannico. Ormai sui vini si riescono a dire delle cose incredibili. Tannico per esempio indica una “sensazione di astringenza percepita talvolta con note amarognole”; non capisco assolutamente cosa voglia dire, ma è questo che significa. Ho preso il Morellino in un Alimentari che si chiamava così e basta: “Alimentari”.
La terapeuta
“bisogna opporre all’astrazione concettuale una logica elementare”
Padre Lorenzo, sul pullman da Roma a Fermo
Ci sono ancora dieci minuti prima di avviarmi. Mi alzo. Faccio ancora due passi per occupare i dieci minuti che mancano.
All’inizio di via Bisagno un uomo sta montando la sua bancarella di libri usati. Sta parlando con un altro uomo di circa sessantanni che gli chiede di polizieschi introvabili. Io guardo i titoli, leggo alcuni attacchi. Quando trascriverò queste annotazioni ricorderò un solo titolo e un solo incipit. Gadda: “Tutti ormai lo chiamavano don Ciccio”.
Alzo la testa, sto per avviarmi finalmente. Sono quasi le 13,30. È adesso che accade la cosa che mi convincerà a trascrivere queste annotazioni. Una ragazza di passaggio, veloce, nervosa, intelligente nel ricordo del viso, mi si fa accanto e in un soffio, il brevissimo tempo che basta, mi dice: ”Mi può dare venti euro, li devo portare subito alla mia terapeuta”.
Io la guardo. Ho il tempo solo di capire l’assurdità di quella richiesta, ho il tempo solo di mostrare un sorriso mezzo amaro sul mio volto, e lei è già scappata via, come offesa, come avvilita, come disperata.
Nella stanza
A partire da questi diversi segni possiamo constatare che lavoro resti ancora da compiere.
(Anne Carson tradotta da Antonella Anedda in http://www.nazioneindiana.com/2008/05/03/i-liquidi-di-dio)
Ora sono qui, al mio tavolo. Ho dormito poco stanotte. In due porzioni per giunta. Tra la prima e la seconda ho pensato diverse volte a quella ragazza che camminava velocissima per Roma – via Bisagno, via Bisogno per lei -, alla scena dell’uomo che sta componendo una libreria all’aperto, a lei che passa velocissima dentro il suo sgomento, e prova allora ad inventarsi una storia assurda da farmi bere. Tanto assurda che io non potrò prestarle ascolto.
Ora sto guardando sullo schermo del PC la “Dama con liocorno” di Raffaello Sanzio. Al centro del quadro c’è un grande rubino bordato d’oro da cui pende una perla. È livemente discosto dal corpetto sul quale sta la sua ombra. Il dipinto è dell’inizio del ‘500.
Ora sto guardando “La conversione di San Paolo” di Caravaggio. Questo è dell’inizio esatto dei ‘600. È trascorso un secolo. Al centro del quadro ora c’è una scena intera la quale si compirà soltanto nella mente di chi guarda in quel dipinto.
LE COSE DI OGNI GIORNO
Una cosa impossibile da fare è trascrivere di notte nel buio della stanza, in silenzio, i propri pensieri. Devi accendere la luce e prendere una penna , oppure ti puoi mettere a registrarli al buio su di una macchinina portatile ad alta voce. Non mi pare che vi sia altro modo, per ora, e spero per sempre. I pensieri nel buio e in silenzio sono intrascrivibili. È forte questa faccenda. In una qualche maniera ha a che fare con il sogno.
Ebbene, poco fa, nel letto, nel buio e nel silenzio della stanza, pensavo alla camminata per Via Nomentana. Rifacevo i passi e avevano la in-consistenza dei pensieri, e non potevo in nessun modo trascrivere quei passi-pensieri, e ora, se volessi farlo, dovrei usare sgangheratamente il tempo dei verbi, mettere insieme presente, inperfetto, remoto, futuro e anteriore futuro.
Roma è un poco così. È viva nella totalità dei tempi.
Dimenticavo. Poi non ci fu modo di scendere nelle catacombe di Sant’Agnese. Ero arrivato circa le 12, e l’ultima visita del mattino partiva alle 11,30. Anche San’Agnese era chiusa. Ma davanti la chiesa c’è un cortiletto speciale per ammirarla.
Sto guardando il complesso monumentale su google hearth satellite. Ora sono lì con gli occhi, con la mente. Sulla parte di fondo al cortile di Sant’Agnese si accede a un vialetto in salita che porta al mausoleo di Santa Costanza. È di forma circolare il mausoleo, e dunque non ha un prospetti principali o secondari; non è, voglio dire, come la basilica adiacente che rivolge l’abside a est, alla via Nomentana. È indiscutibilmente perfetta la forma di Santa Costanza. È un cerchio: ha innumerevoli lati e insieme nessun lato, e non ha spigoli. Sul tetto poi, come non bastasse tutto ciò, si eleva la cupola emisferica, e questa getta la sua ombra sulla superficie conica sottostante (dello stesso tetto). Si forma dunque un’ombra ad unghia di circoferenza, un’ombra a forma di luna calante, luna crescente. Tra i due edifici ve ne sono altri; principalmente ve ne sta uno conformato a questa maniera:
con il lato in basso che corre parallelo alla Via Nomentana che gli è immediatamente davanti. Dietro il lato in alto ci sono tre campi di bocce. E appena sotto un bel baretto dove l’altra mattina arrivava il sole di mezzogiorno, e c’erano alcune signore a parlare contente.
Come me anche loro non erano arrivate in tempo per scendere nelle catacombe di Sant’Agnese, e ora se ne stavano lì, a dirsi le cose fondamentali di ogni giorno.