Una notte, così si racconta, l’imperatore Niceforo fece un sogno straordinario. Sognò, nientemeno, la torre perfetta. La torre esistente era stata iniziata da secoli e già i quartieri imperiali, sistemati agli ultimi piani, venivano spostati sempre più in alto ogni volta che si annunciava il compimento di un nuovo cerchio. Della visione di Niceforo non sappiamo farci un’idea. La torre perfetta è la torre finita, è difficile opporre altre interpretazioni, ma che aspetto avesse la torre finita è proprio quello che nessun abitante dell’isola sapeva né avrebbe mai saputo. Forse Niceforo aveva sognato la maniera di terminare la torre durante gli anni del suo regno e, da vivo, vederla completata. In sogno disegnò i piani della perfezione, in sogno diede gli ordini perfetti, e la torre perfetta gli sorse attorno con facilità sbalorditiva. Ma quando si seccò la calce sull’ultimo mattone Niceforo si avvide, sempre in sogno, che non poteva più uscire dai suoi appartamenti. Guardie, dignitari e rifornimenti riuscivano ad arrivare fino a lui, e ai piani inferiori i traffici con l’isola e il continente continuavano come sempre; ma un protocollo di uscita per l’imperatore non era stato previsto, perché il sovrano della torre perfetta non aveva bisogno di nulla, tantomeno di concedere la sua vista ai propri sudditi. Sognando incessantemente, Niceforo si disperò. La torre era perfetta, ma il suo imperatore comprese di essere imperfetto. La compiutezza della sua opera non gli bastava. Voleva la gloria, l’adorazione del popolo, le sfilate delle truppe: cose insignificanti, ma di cui non sapeva fare a meno. A un tratto, senza che nessun maestro del protocollo l’avesse annunciato, apparve nelle sue stanze un personaggio che si presentò a lui con il nome di Signore dei sogni. L’imperatore si doveva tranquillizzare, gli disse l’apparizione, non tutte le vie erano chiuse. Niceforo poteva lasciare la torre e confondersi con il popolo dell’isola. Poteva perfino, se lo desiderava, passare i ponti gettati sul fiume ed esplorare ogni lontana provincia del continente spostandosi con la rapidità del sogno, nascosto sotto le spoglie del sogno, sicuro, invisibile e onnipresente come nessun imperatore prima di lui, ma solo in sogno. E ora, concluse l’apparizione, poteva svegliarsi.
Nei mesi successivi Niceforo sperimentò la vertigine di celarsi, sognando, sotto le apparenze più diverse, percorrendo ogni strada del suo impero. Godeva infine della semplice gioia negata ai reggitori e concessa ai sottomessi: aspettare la sera sulla porta di una povera casa e contemplare la vista della torre contro il cielo al tramonto. Nessun sovrano tastò il polso al regno meglio di lui, che lo attraversava dormendo. La mattina, destandosi nel suo letto d’avventure, sapeva già cosa avrebbero annunciato gli araldi per le strade. Ministri e cortigiani non riuscivano a spiegarsi come l’imperatore, del quale tradizionalmente avevano poca stima, dal chiuso delle sue camere fosse sempre al corrente di ciò che accadeva non solo nei piani bassi della torre, ma perfino nella più remota provincia del continente. Al contrario di coloro che l’avevano preceduto, questo strano imperatore sapeva sempre, infallibilmente, se la plebe era docile, se crescevano ribellioni, o se le alleanze con i popoli confinanti erano sicure o rischiose.
Niceforo, intanto, ogni notte si ritrovava in un sogno diverso. Addormentandosi, non sapeva chi avrebbe impersonato. Appena sceso nel sonno apprendeva dalla voce del Signore dei sogni il nome che avrebbe dovuto portare fino al mattino, stringendosi addosso i panni della sua nuova identità. Andava a dormire come se raggiungesse all’ultimo momento una compagnia di attori vagabondi senza sapere che parte avrebbe dovuto improvvisare. Con il tempo e l’esercizio riuscì perfino a dividere i suoi sogni in capitoli che si interrompevano nelle situazioni più eccitanti, ma lo sforzo gli fece perdere la lucidità mattutina che l’aveva reso leggendario. Per tutta la giornata restava distratto, svogliato, ansioso che tornasse la notte.
In uno di questi cicli impersonò un brigante di nome Nicolao, le cui prodezze erano tanto complicate e appassionanti che Niceforo ricorse a dei sonniferi per allungarle. Accadde infinedurante un sogno che Nicolao, vale a dire Niceforo, esausto e ubriaco dopo una scorreria, cadesse addormentato. Si mise a sognare e Niceforo, che sognava di essere lui, sognò, doppiamente, che sarebbe stato imprendibile finché non avesse tentato di entrare nella torre. Nicolao, che covava un’ambizione sterminata, si ribellò a tale limitazione. Quando per la rabbia si svegliò, la furia del suo risveglio destò anche Niceforo. I due sogni, l’uno dentro all’altro, furono interrotti così bruscamente che si sovrapposero. Il delicato confine che separava il sogno vero dal sogno sognato si confuse, così che Niceforo si ritrovò, da sveglio, nelle vesti del brigante Nicolao, a capo di un esercito di malfattori e a decine di giorni di viaggio dalla torre.
Passarono gli anni. Di Niceforo, l’imperatore scomparso dalla torre, non restavano più tracce. Resi arroganti dalla sua assenza, i ministri si abbandonavano ad arbitrii vergognosi, inventando pretesti sempre più incredibili per giustificare ai maggiorenti, ai gazzettieri e ai diplomatici stranieri la vacanza del sovrano. Nel frattempo Nicolao terrorizzava impunito il paese, creduto dal popolo della pianura un eroe in lotta contro la tirannia della torre. Finché, accecato dai trionfi e dal servilismo che lo circondava, Nicolao dimenticò l’avvertimento del sogno, forse lo derise, e tentò l’assalto alla torre. Lui non ne aveva paura, ma i suoi banditi, che mai avevano sostato una notte alla fredda ombra della tremenda costruzione, ne furono intimoriti e disorientati, e per la guarnigione di guardia alle mura non fu difficile ridurli alla resa. Dopo un processo sommario iniziarono le decapitazioni a dozzine per volta, presso le mura esterne della torre, sotto lo sguardo rassegnato degli abitanti dell’isola. Nicolao doveva assistere alla disfatta dei suoi e morire per ultimo, squartato in due da un tiro di sedici cavalli. Ma dalla torre, inaspettatamente, venne l’ordine di risparmiarlo e di condurlo ai piani superiori.
La scorta che lo accompagnò rimase sconcertata dalla conoscenza dell’edificio che Nicolao dimostrava. Si muoveva nella direzione giusta prima che le catene lo tirassero, si stupiva di cambiamenti architettonici apportati di recente e che non avrebbe dovuto nemmeno notare, conosceva per nome uscieri e funzionari anziani che incrociava nei corridoi e faceva capire di sapere molte cose sul loro conto. Intimiditi, gli ufficiali del plotone non avevano il coraggio di farlo tacere. Nessuno nella torre era senza macchia; era l’unica regola che la rendeva controllabile.
In quel tempo la costruzione era ancora così bassa che la salita durò soltanto un giorno. Passati tutti i piani, meno l’ultimo, riservato all’astronomo imperiale, Nicolao fu introdotto nelle stanze dell’imperatore e condotto alla presenza del ciambellano. Basilio, questo era il suo nome, chiese di essere lasciato solo con il brigante. Non volle sentire ragioni e non ammise nemmeno la guardia sordomuta che assisteva per decreto ai colloqui riservati. Data la sua lunga autorità di facente funzioni, anche il comandante delle guardie dovette obbedirgli.
Non appena la scorta fu uscita, Basilio si mise in ginocchio davanti a Nicolao e recitò la formula rituale con la quale il maestro di palazzo riconsegnava all’imperatore il trono dopo ogni viaggio imperiale fuori dalla torre. Ringraziò il cielo che il sovrano fosse ritornato sano e salvo, gli procurò la più fresca delle concubine e lo lasciò, perché era già notte.
La mattina dopo Nicolao trovò una rosa rossa accanto al suo letto e ne aspirò il profumo. Chiamò i camerlenghi, gli scrivani, i sacerdoti e i direttori del protocollo, e mentre il barbiere si avvicinava con in mano bacinella e rasoio iniziò a governare. Era passato molto tempo da quando Niceforo se n’era andato e molti servitori avevano preso servizio nella torre senza aver mai avuto il privilegio di vedere un imperatore. Che Nicolao fosse o no il vero sovrano, a loro importava poco. Non avrebbero mai rinunciato alla soddisfazione di tornare la sera nei loro cubicoli e di raccontare che avevano aiutato il signore della torre a infilarsi i calzoni. Nicolao lavorò tutto il giorno, familiarizzandosi con incredibile sveltezza, come se già li conoscesse, con i colossali problemi dell’amministrazione dell’impero, ma non volle chiedere di Basilio. Solo la sera, già disteso sui suoi cuscini, lo fece chiamare.
– Perché hai fatto credere a tutti che io sia l’imperatore? – gli chiese.
– Ora lo sei – gli rispose Basilio. – La torre ne aveva bisogno.
Prese la rosa che Nicolao aveva lasciato accanto al letto, l’aspirò profondamente e la rimise al suo posto.
– La mia armata è distrutta ed è già proibito menzionarla – riprese Nicolao, notando appena il gesto di Basilio. – Le tracce della mia marcia sulla torre stanno per essere eliminate. Le guardie che mi hanno portato quassù sono state accusate di tradimento e giustiziate. Presto tu sarai l’unico a sapere che io un tempo sono stato un bandito. – Ricordò, in quel momento, di una notte in cui lui, il bandito Nicolao, aveva sognato di essere l’imperatore Niceforo. – Non lo posso tollerare.
– Lo so – assentì Basilio. – La rosa che ho appena odorato è intinta con un veleno inodore al quale gli imperatori legittimi sono immuni per nascita. Se sei solo un brigante che assomiglia al nostro sovrano scomparso moriremo entrambi, tu per i tuoi delitti e io per l’errore che ho commesso. Se sei il nostro imperatore che un giorno si è svegliato da brigante sotto l’incantesimo del signore dei sogni morirò solo io, perché la verità si estingua con me.
– Apprezzo la tua morte – disse Nicolao – ma temo che sia inutile. Io non so se sono l’imperatore Niceforo o se sono il bandito Nicolao che sta sognando di essere un suo sogno. Ma se diventerò imperatore terrò il capo di tutte le fila. Saprò tutto, e quindi anche quello che non dovrei sapere, di essere stato un fuorilegge.
– Perché ci sia una verità bisogna essere in due – ribatté Basilio. – Ho preso le mie precauzioni. Già ora, se tu affermassi di essere Nicolao, non saresti creduto. Se tu insistessi, saresti preso per pazzo e come tale tramandato dalle cronache. Se tu lo scrivessi, dopo la tua morte i tuoi diari verrebbero provati falsi e screditati. Nel momento in cui io morirò, e sarà tra poco, il fatto stesso che tu sia stato un ribelle svanirà. La torre detiene la memoria. Ciò che la torre non ricorda non c’è mai stato, è il battito di un’ala sola che non si alzerà mai da terra. Anche tu conosci la legge. Il trono della torre non può rimanere vuoto nemmeno per un istante. Se l’imperatore lascia la torre, ogni suo passo deve essere registrato. Negli anni in cui Niceforo è stato assente, questa legge è stata infranta. La torre, che Niceforo voleva perfetta, non lo è più, né lo sarà mai, a meno che il ricordo dell’infrazione non venga completamente eraso. Io, che ne sono l’ultimo testimone, devo far sì che la torre non precipiti in una piega di nulla, tornando su se stessa come la risacca di un’onda.
Detto questo, morì. Per la torre, per i suoi archivi e per il popolo che le prestava fede, Nicolao era divenuto Niceforo, l’imperatore che è stato, che è, e che sarà.
La mattina dopo Niceforo si svegliò a fatica, come se fosse appena tornato da una lunghissima impresa di sogno. Il corpo di Basilio non si trovava nella stanza. Forse, tra le sue ultime volontà, il ciambellano aveva disposto che i camerieri lo ritirassero durante la notte. La rosa del giorno prima era ancora accanto al letto, stranamente scarlatta e odorosa, come appena colta. Niceforo ne aspirò il profumo e iniziò le abluzioni. Nel pomeriggio, mentre condannava distrattamente a morte un brigante di strada di cui non ricordava il nome, si ricordò che quella stessa notte aveva sognato di essere lui. Più tardi volle dare disposizioni per i funerali del maestro di cerimonie. La sua maestà imperiale non poteva essere contraddetta, gli venne risposto, ma al servizio della torre non c’era nessun ciambellano di nome Basilio. Era vissuto, si diceva, molti anni prima, ma per ragioni sconosciute la sua morte non risultava trascritta. Di lui non si sapeva nulla. Forse lo si era confuso con una leggenda.
Niceforo annuì, pensoso. Rivolse domande casuali ad alcune guardie sugli avvenimenti dei giorni precedenti. Dalle loro risposte deferenti ricavò che non era accaduto nulla di rilevante, l’imperatore non era uscito dalle sue camere e nessuno era stato ammesso alla sua presenza. L’ingresso di Nicolao nella torre e l’inizio del suo regno erano spariti dal registro delle cose come un quaderno che venga scritto da cima a fondo senza che nessuno si accorga di due pagine bianche rimaste incollate. Basilio aveva mantenuto la promessa. Cancellando i segni dell’assenza di Niceforo dalla torre aveva cancellato se stesso e, così facendo, anche il giorno in cui aveva deciso di cancellarsi. Niceforo tornò nella sua camera. La rosa stava ancora accanto al letto. Era vissuta ventiquattr’ore di troppo, come se volesse sopravvivere a Basilio e si rifiutasse di seguirlo nell’oblio. Ora, come era giusto, stava appassendo. Niceforo la gettò via. Non aveva più nulla da temere.
Ma lo stesso giorno di un anno dopo, l’astronomo imperiale, che non scendeva mai dall’osservatorio dell’ultimo piano, chiese di conferire in privato con l’imperatore. Unico suddito avente iI diritto di vivere più in alto della sala del trono, l’astronomo comunicò a Niceforo che mancava un giorno ai calendari della torre. Il movimento degli astri glielo aveva rivelato, e gli astri non potevano mentire. Il cielo è amico del tempo, disse l’astronomo con voce severa e un accento di rimprovero che stava indisponendo Niceforo, e gli astronomi sono i confidenti del cielo. Senza il cielo, che è il suo fine, nemmeno la torre esisterebbe. L’enigma del giorno cancellato permetteva una sola spiegazione, e l’astronomo non aveva paura di enunciarla. Una sacra legge della torre era stata violata, forse quella che imponeva sempre di sapere dove si trova la testa su cui posa la corona, così che l’imperatore aveva fatto uccidere tutti coloro che erano a conoscenza del misfatto, distruggendo poi di propria mano i protocolli della giornata. Niceforo tacque mentre l’astronomo deponeva il suo tono da giustiziere e passava al suo vero scopo, il ricatto.
Fu quella mancanza di reazione che diede origine allo strapotere che la casta degli astronomi acquisì poi per intere dinastie, fino a poter eleggere e deporre imperatori a suo piacimento. Secondo alcuni storici il senso della leggenda sta solo nel penoso tentativo di giustificare la debolezza di un regnante inetto. Altri, con un’interpretazione meno brutale, hanno avanzato l’ipotesi che il silenzio di Niceforo fosse dovuto alla sorpresa con la quale, scrutando attentamente nella luce del mattino il volto dell’astronomo imperiale, vi aveva riconosciuto le lontane, quasi dimenticate fattezze del Signore dei sogni.
Tratto da Skyline di Alessandro Carrera, Manni 2009