Mi riferisco a Nietzsche, e non al filologo che si è dedicato allo studio del verso ditirambico, ma proprio al filosofo, al teorico del nichilismo e dell’eterno ritorno, cioè il pensiero dei pensieri intuito durante una passeggiata nei boschi di Silvaplana, nell’alta Engadina, in Svizzera, cantone dei Grigioni, 6000 piedi di altezza, un luogo al di là dell’uomo e del tempo. Mi riferisco al filosofo che ha elaborato il pensiero più demoniaco e più divino che sia mai stato concepito, indicando all’uomo la via dell’amor fati, cioè a volere la vita così com’è, senza residui, e non una volta sola ma all’infinito, ammesso che sia possibile dissolvere lo spirito di vendetta e liberarsi dal peso del risentimento e del rimorso. E mi riferisco soprattutto al filosofo che interrogandosi sul problema dell’alimentazione ha scorto l’origine dello spirito tedesco nella dieta tedesca, cioè nell’abitudine di bollire la carne all’eccesso, con le verdure che diventano grasse e farinose, l’abitudine di cucinare dolci talmente compatti che degenerano in fermacarte, e poi di bere in abbondanza dopo il pasto, col solo effetto di gettare lo stomaco nel disordine. Ecco dove s’annida lo spirito tedesco, nella cattiva digestione, perché tutti i pregiudizi vengono dall’intestino pigro che s’addormenta in ambienti chiusi e saturi di cattivi odori. Si dovrebbe diffidare di pensieri che non nascono all’aria aperta, quando l’organismo è in allegro movimento – il vero peccato contro lo spirito santo è il sedere di pietra.
Ecco, per un filosofo che afferma una cosa del genere io avverto una simpatia immediata, prorompente, come si prova per uno che si lascia andare allo sfogo dell’umore, incurante delle circostanze e delle convenzioni di buon vicinato. Quando il genio è nelle narici, nel soffio di furore che scorre da ogni condotto a disposizione, quello è un genio inequivocabile. E non importa che il Nietzsche in carne ed ossa fosse un’altra cosa. Forse, come diceva un suo collega, Nietzsche non era nemmeno capace di tirare una sana scorreggia. Può darsi. E può darsi che gli adoratori di Nietzsche nascondano qualche scompenso di natura psichica, delle manie. Si dice che uno massimi sacerdoti del culto di Nietzsche in Italia sia stato sorpreso nell’atto di far friggere il crocifisso nella padella, e che la sua fidanzata abbia deciso, prudentemente, di chiudersi in convento. Ma non c’è dubbio che almeno sulla carta Nietzsche si lascia travolgere dal fiume dell’impeto. Se non un superuomo, è un infumanato che parla nello stato di esaltazione, quindi non gli si può imputare niente di quello che afferma. Sarebbe come imputare a un marito le offese rivolte alla moglie nel pieno del litigio, mentre si lascia trascinare dalle furie. Sono momenti in cui non si addice l’elaborazione del concetto e il pensiero non segue il filo cartesiano dell’argomentazione logica. Idee chiare e distinte in un momento simile?
Il marito sta litigando con la moglie e le parole sono attrezzi, leve, pietre da scagliare, prolungamenti del braccio; preferirebbe un bastone da darle in testa ma non può prescindere dall’evoluzione della specie, tanto più dall’evoluzione culturale. Sa che ormai il neolitico è lontano più di diecimila anni, e nel frattempo c’è stata la civiltà greca, l’invenzione della carrucola, la carità cristiana, la macchina a vapore. C’è stata Giovanna d’Arco e anche la regina Vittoria, e il marito è costretto a tenerne conto, quindi si accontenta di usare la parola che fa le veci del bastone. Eppure nel dire stronza gli sembra di vibrare un colpo, ma solo perché il marito crede nel simbolico. E a volte ci crede così tanto che arriva a vederla nelle sembianze dell’escremento. A volte il marito è talmente schiacciato dal peso della civiltà che è costretto a tener conto anche di Hegel, dell’aufhebung, dell’identità di soggetto e oggetto nella prospettiva dell’Assoluto autocosciente, e allora quando scaglia l’offesa contro la moglie vede anche se stesso in forma di materia fecale, ma solo per un momento. Poi subentra di nuovo il furore dionisiaco, e insiste coi lanci – brutta merda che non sei altro, frasi del genere, offese destinate a ferire. Però non sono le ferite di una martellata. Bisogna ammetterlo, le parole non producono lacerazioni ai tessuti cutanei. Rimane il colore cianotico della contusione? Ci sono fratture? Occorre l’intervento del pronto soccorso? La moglie lo sa, le parole faranno male, ma sono un segno di progresso, di avanzamento civile. Eppure si guarda bene dal riconoscerlo e finge di essere ferita a morte, finge dolore, si contorce, piange. È solo una sceneggiata; la moglie ne approfitta per realizzare un desiderio segreto, perché per tutta la vita ha sognato di fare l’attrice ed essere ammirata sul palcoscenico: avere una passerella davanti al pubblico, essere una diva con gli spettatori che cadono in visibilio. E allora finge di subire come se le offese fossero randellate. Ma così facendo contribuisce con la sua arte attoriale all’autoinganno del marito, facendogli credere che la parola sia identica alla cosa. E il marito, che è un bambino cresciuto male, ricade nel pensiero magico. Crede alla verità della parola; se dice stronza, sente la puzza. E se la chiama testa di cazzo la vede per davvero nelle sembianze dell’organo eretto, l’organo alla massima distanza dal cervello, il più tirannico, il meno dialettico, abituato da millenni alla prepotenza. Il marito usa le frasi al posto della vanga credendo di coprire la moglie di terra come coprirebbe l’escremento di un cane randagio che avesse sporcato nel giardino. Ma intanto sul piano del simbolico è libero di muoversi come vuole, è un momento di libertà.
Ma poi cosa sono tutti questi urti? Nient’altro che scariche utilizzate per cercare sollievo riducendo la pressione interna. La pressione che la moglie ha generato con le sua richieste, il suo rivendicazionismo esasperante. Il venerdì sera voleva andare al supermercato per condividere il momento della spesa insieme al marito, e il marito l’ha accompagnata. Il sabato pomeriggio voleva passeggiare in centro storico, e il marito non si è tirato indietro. La domenica mattina desiderava una gita nel grande magazzino svedese dell’arredamento giovanile, e il marito ha passato quattro ore nel chiuso della luce artificiale, ingoiando di tutto per il quieto vivere, in silenzio. Poi arriva la domenica sera e la moglie accusa il marito di egoismo: non è legittimo un impulso assassino? Almeno simbolico? E occorre una soddisfazione compensatoria per poterla lasciare in vita. Il marito può usare frasi che valgono come morsi, perché al culmine, quando inizia la caduta nell’irrefrenabile, prova il desiderio di sbranarla e masticarla, di ridurla a brandelli e distruggerla completamente: sa che lasciando anche un solo frammento vitale, quel lacerto basterebbe alla moglie per riaversi; e appena rianimata rinnoverebbe l’accusa. Il marito potrebbe anche pensare all’invidia del pene come attenuante, e trattenersi un’altra volta cedendo all’indulgenza. Ma se lei pretende di andare al cinema, la domenica sera? Proprio quando il marito si pregustava un’ora di oblio davanti alle sintesi filmate della domenica sportiva? Davanti all’accusa di egoismo cos’altro può fare il marito? Sei una gran testa di cazzo, le dice.
Ecco il punto, si possono usare frasi del genere come capi d’imputazione? Cos’avrebbe dovuto fare, Nietzsche? Cos’avrebbe voluto sua moglie, se ne avesse avuta una? Avrebbe preferito essere sbranata per davvero? È successo alla moglie di un giapponese; e lui l’ha conservata nel freezer per mangiarla un po’ alla volta. Ma si tratta di un’altra cultura; mangiano anche il pesce crudo e non hanno avuto Voltaire, in Giappone. È vero che la radice umana è unica, siamo tutti figli della stessa mamma: parto naturale, in ginocchio, tre milioni di anni fa, Africa orientale. Ma tre milioni di anni sono tanti nell’evoluzione della cultura. Al culmine del litigio avrebbe anche potuto volare uno schiaffo, tra Nietzsche e la moglie; può darsi, cose che succedono. Ma la moglie non è una concubina, in Occidente, e si sarebbe difesa con le unghie lasciando le tracce dei suoi graffi. E dopo l’esplosione? Quando fosse subentrato lo stato di abbandono? Cosa sarebbe successo dopo? Nessun uomo sarebbe mai disposto a sottoscrivere quello che afferma in uno stato di alterazione, di accecamento – certo, a volte lo sei per davvero, avrebbe ribadito Nietzsche, ma non sempre, avrebbe aggiunto, e se fossi meno stronza non litigheremmo più. Ma anche questa dichiarazione sarebbe stata falsa, come ogni frase umana. La verità e la menzogna dipendono dalla prospettiva. E poi il litigio rientra nel ciclo naturale delle stagioni che caratterizza lo scorrimento della vita matrimoniale, il ciclo vitale della coppia. Sono intemperie che fanno apprezzare il bel tempo che torna, lo scatenamento primaverile, avrebbe detto Nietzsche. E sua moglie avrebbe interpretato le alterazioni del marito come prove di coinvolgimento emotivo: se mi affronta con tanto vigore è segno che non è indifferente, si sarebbe detta preparandosi all’abbandono erotico.
Ma come non si può incolpare Nietzsche per quello che avrebbe detto nel pieno del litigio con sua moglie, così non lo si può inchiodare alla croce per quello che scrive nei suoi aforismi. Meglio ascoltarlo, seguirlo, abbandonarsi alla meraviglia, come si fa nell’ascolto di un poeta ispirato.