Quelli di Spazzavento si sono incontrati una seconda volta, lo scorso 8 gennaio al Teatro ITC San Lazzaro di Bologna.
Qualcuno ha detto che la prima volta non esiste. La prima volta è la vita. La seconda volta è la letteratura. Per quanto vogliamo prendere con ironia o nonchalance i nostri modi di fare ed essere, questi sono tutti incatenati alla “prima volta”, a un’esperienza irripetibile, al fatto che siamo occupati tutto il tempo a fare qualcosa o a essere qualcuno, insegnante, burattinaio, guida turistica… La vita in genere non si preoccupa di se stessa e in genere tutti, insegnanti, burattinai e guide turistiche viviamo nell’oblio di noi stessi. Ogni situazione ci pone dei problemi e ci impone dei modi di risolverli, dei modi di fare e di essere. Lo vogliamo o no, tutti noi siamo prigionieri della prima volta. Se vogliamo non solo vivere ma vedere la vita, se vogliamo passare da una cecità dimentica di sé a una cecità produttiva, non abbiamo altra scelta che la seconda volta dell’immaginazione, ovvero trasformarci in esseri liberi di rendere le situazioni della nostra vita dei temi su cui riflettere. La letteratura, o chiamatela se volete “fantasticazione”, “sogno ad occhi aperti”, “mania”, è questa riflessione immaginaria che ci rivela quello che altrimenti, quando viviamo, non potremmo esplorare, e che ci permette di trascendere le singole situazioni in cui siamo sballottati e prigionieri e di cui, quando viviamo, non comprendiamo non dico il senso, ma neppure la concatenazione.
La seconda volta, a differenza della prima, ha bisogno dei suoi cerimoniali, del suo tempo, dei suoi artifici.
Tutto questo è mancato l’8 gennaio a San Lazzaro. Ma quello che mi chiedo è se questa mancanza è il frutto di sbadataggine, incuria, furia, o invece è consustanziale ai modi di fare ed essere di molti partecipanti di Spazzavento, i quali sembrano abbastanza soddisfatti di raccontare le loro storie, di provare le loro capacità incantatorie, con le loro calate regionali e i loro risvolti comici. Come se fosse la cosa più naturale di questo mondo. Perciò che altro chiedere loro? Se si rincorre il racconto naturale, se si persegue qualcosa che non si chiami “letteratura”, poi non possiamo lamentarci della mancanza di cerimoniali e di riflessione.
Nel corso dell’incontro c’è stato chi ha preso la strada del “testo minore” (Levrini), chi quello della parodia dell“improvvisazione” alla Cage (Cornia), chi ha raccontato di uomini e cani (Maccari), chi di lunghe passeggiate con il nonno (Minzoni), chi ha collezionato frasi fatte e luoghi comuni (Albani), chi ha raccontato la storia vera di un personaggio realmente esistito di Celati (Monti)… Storie semplici, spesso divertenti, a volte malinconiche a cui, è vero, è mancata forse ciò che Cavazzoni aveva auspicato già nel corso del primo incontro del 30 ottobre dell’anno scorso: una teatralizzazione, uno “spettacolino” che avrebbe dato più “contentezza”, come dice Celati. Prove statiche di un teatro ambulante che potrebbe essere lo sbocco naturale di questi racconti naturali. Forse…
Comunque un po’ di arte varia c’è stata: le fotografie “deartisticizzate” di Zaffagnini, ad esempio, e le esecuzioni musicali di Fadanelli alla viola, dal blues a Bach.Personalmente avrei voluto più Bach che raccontini, un confronto tra il racconto e la tradizione romanzesca. Ma la parola “romanzo” sembra bandita da Spazzavento. Incute terrore o disgusto. A parte Nardon e Cenini, che hanno letto alcuni brani tratti dai loro ultimi lavori, non credo che fossero presenti molte persone che pensassero a Gombrowicz o a Juan Carlos Onetti.
C’è molto epigonismo nel romanzo italiano contemporaneo. È vero. Ma ce n’è molto anche in Spazzavento. Forse questa è un’altra ragione per cui i temi lanciati da Cavazzoni sono caduti nel vuoto: il malfatto, la descolarizzazione dei classici, l’esplorazione dell’impubblicabile.
Non proprio nel vuoto, se ricordo bene. Verso la fine un giovanotto, fresco di laurea, ha cominciato confusamente a parlare di «canone» e «controcanone». In sostanza, se ho capito bene, la domanda era questa: «Voi che siete qui a Spazzavento e che leggete queste storie per lo più comiche e che non volete sentire parlare di letteratura, siete sicuri di non essere in procinto di creare un canone? Un canone anticanonico, ma pur sempre un canone?».
Ora, non so cosa Cavazzoni abbia intuito tra le parole del giovanotto, ma la discussione si è prolungata in modo non proprio necessario, a mio avviso. Forse Ermanno stava vivendo per la prima volta qualcosa che io stavo solo guardando. O forse io stavo vivendo per la prima volta qualcosa di completamente diverso da quello a cui molti partecipanti stavano solo assistendo.
Che cosa ha a che fare Spazzavento con il canone? E soprattutto con i sofismi logici sul controcanone? E cioè con uno degli avatar più triti e scolastici della critica accademica?
Questa domanda, e non le sue possibili risposte, dovrebbe essere il punto di partenza della riflessione immaginaria di Spazzavento. La sua terza volta.