Ho ripensato a che cosa succede a Starbuck quando il Capitano Achab tira le cuoia nel Moby Dick di Melville quella sera d’ottobre all’Alumni House in University Street a Grand Forks nel North Dakota. In effetti credo che la follia vera che Melville ha voluto rappresentare con Moby Dick raggiunga in quel preciso momento il suo apice, in quello che succede a Starbuck quando Achab muore. Poi assieme a Starbuck m’è venuto da pensare anche a Bartleby e poi alle parole del bag-boy del supermarket nella pellicola dell’orrore The Mist. Prima però devo raccontare che cosa mi è successo all’Alumni House.
Era una sera fredda. Uno spesso strato di neve ricopriva le strade. Il vento soffiava forte. Ero stato tirato dentro a una festa di membri di alcuni dipartimenti dell’University of North Dakota per festeggiare importanti riconoscimenti professionali che alcuni di loro avevano ottenuto. I membri accademici offrivano ai convitati anche vivaci resoconti delle loro esperienze. Giravo all’interno dell’ampio salone della casa in stile vittoriano osservando dalle finestre gli strati di neve sulle strade e l’infinità del cielo blu scuro attraversato da qualche chiarore tenendo un piattino pieno di cose da mangiare tra le mani. Per lo più me ne stavo in disparte. Non volevo entrare troppo in confidenza con le altre persone perchè all’epoca mi sentivo ancora parecchio impacciato con l’inglese per sostenere una reale conversazione. Più o meno tutti sapevano chi ero. Pochi mesi prima avevo partecipato a una Writers Conference all’università, che è l’evento più prestigioso a Grand Forks. Perciò i professori mi conoscevano, qualcuno di loro mi apprezzava persino. Ciononostante preferivo stare in disparte. Mentre me ne stavo così, per i fatti miei, sentendo i suoni delle voci ma senza riuscire a capirne il significato, osservando le persone spostarsi da un punto all’altro della sala, raccontar storielle, ridere, battere le mani, tutto all’improvviso, dopo mezz’ora, un’ora, un’ora e mezza, due ore m’è venuto un pensiero lugubre: ho pensato che niente di quel che stava succedendo lì avesse un senso e che tutto fosse inutile. Va detto che io non sono un tipo particolarmente depresso. Sono stato dallo psichiatra solo un paio di volte in vita mia e ho assunto dell’antidrepressivo per il periodo di tempo piuttosto limitato di sette mesi. Inoltre è stato ormai parecchi anni fa. Forse allora quel pensiero lugubre deve essermi venuto per il fatto che non capivo la maggior parte delle cose che mi accadevano intorno. Riuscivo solo a cogliere il significato dei movimenti, delle posture, delle espressioni del viso: ma tutto il resto mi sfuggiva completamente. È così che a poco a poco credo di aver preso coscienza di una verità tutto sommato persino lapalissiana: quando non capisci una cosa te ne sfugge il senso. Poiché io non capivo nulla di quello che avevo davanti, tutto quello che avevo davanti non aveva senso e mi sembrava inutile. Nella sera fredda e nevosa quelle persone all’interno della casa per me adesso avrebbero anche potuto essere fantasmi.
Ora, forse perché mi trovavo a calpestare un pavimento fatto di lunghi e scricchiolanti listelli di legno e gli infissi delle porte e delle finestre erano di legno, e le sedie, e i tavoli, e il mobilio: tutto quanto era di legno, ma all’improvviso mi sono sentito come su un enorme barcone gettato nel mezzo di una tempesta dell’Oceano Atlantico. Per dire con precisione come mi sentivo mi sembrava di essere Bartleby lo scrivano sul Pequod del Capitano Achab. Tra l’altro all’Alumini House ogni volta che qualcuno mi avvicinava e mi offriva di unirmi al resto della chiassosa ciurma io declinavo il più gentilmente possibile. Probabilmente un paio di volte devo persino averlo proprio detto: «I would prefer not to». Il fatto è che avevo improvvisamente ricevuto quella che si dice un’illuminazione. Con Bartleby lo scrivano e Moby Dick Melville ci aveva voluto raccontare se non la stessa storia, la stessa condizione esistenziale: ossia la più tentacolare esperienza possibile del non-senso e dello smarrimento totale.
Bartleby è una storia strana, molto bella, ambigua, ma che lascia con un sapore d’insoddisfazione nella bocca. La riassumo in due righe per chi non la ricordasse. È la storia di un copista di documenti presso uno studio legale. Un giorno semplicemente egli si rifiuta di svolgere il proprio lavoro e si rintana in un ottuso silenzio senza più far nulla. Risponde solamente «I would prefer not to» ossia «Preferirei di no». Bartleby a furia di rifiutarsi di fare qualsiasi cosa finisce in carcere e lì muore. Forse è proprio il sapore di incompletezza la forza della storia. Tuttavia ho sempre avuto come l’impressione che preso singolarmente il personaggio di Bartleby non funzioni del tutto. A essere onesti nel testo manca una spiegazione vera e propria del perchè il vecchio copista s’abbandoni in quel modo. Melville però questa spiegazione in fin dei conti forse ce la mette, anche se in modo un poco ingegnoso e raffinato. Si limita soltanto a piccole allusioni. Ecco infatti che cosa si legge nel racconto a un certo punto: Eppure [Bartleby] mi faceva pena. Non esagero dicendo che mi metteva a disagio. Se appena avesse fatto il nome di un solo parente o amico gli avrei scritto immediatamente sollecitandolo a portare quel povero disgraziato in qualche posto adatto. Mi sembrava solo, assolutamente solo nell’intero universo. Un relitto nel mezzo dell’Atlantico. Poi alla fine: Ecco la notizia: Bartleby era stato un impiegato subalterno nell’ufficio delle lettere smarrite a Washington, dal quale era stato all’improvviso licenziato per un cambio di amministrazione. Quando penso a queste parole a fatica riesco a esprimere le emozioni che mi pervadono! Lettere smarrite, lettere morte! Non suona come uomini morti?. Leggendo queste parole (Un relitto perso nell’Atlantico; Lettere smarrite, lettere morte!), mi viene voglia di credere che Bartleby e il Pequod siano parte di uno stesso gesto di creazione e che in queste righe Melville abbia voluto suggerire al lettore di pensare alla sua opera più importante (Moby Dick) per rintracciare le ragioni profonde di quest’altra opera. Bartleby s’è perso e va a fondo con tutto il senso della sua vita così come il Pequod si perde e va a fondo con tutto il suo equipaggio. In entrambi i casi siamo in presenza di oggetti smarriti, per i quali si è interrotta la loro relazione con il resto delle cose e che pertanto hanno perso senso, sono precipitati nella follia. La Balena Bianca è solo una maschera per attirare la ciurma d’uomini verso la consapevolezza d’essere persi e quando il Capitano Achab muore e Starbuck si trova solo gettato in un’impresa che gli è sempre sembrata folle, anche quella maschera sottile cade. Ecco il non-senso emergere del tutto: si forma chiara in Starbuck come in noi la consapevolezza che l’equipaggio non si è perso mentre inseguiva la Balena Bianca, ma era perso fin da quando era salito sul Pequod, era perso fin da quando era sul molo prima di salpare, era perso fin dall’inizio, tutti loro erano persi, persi sempre.
Anche nella pellicola horror The Mist a un certo punto si ha questa soffocante percezione. È la storia del supermarket di una cittadina che viene circondato da una nebbia dalla quale escono creature spaventose provenienti da altre dimensioni. I clienti restano intrappolati nel supermarket e cercano di difendersi in ogni modo possibile da mosche abnormi, uccelli preistorici mastodontici, ragni enormi fino a quando il protagonista (che si chiama David) assieme a un gruppo di altre persone disperate decide di uscire dal supermercato e di andarsene altrove, di scappare. Proprio qui emerge forte la follia della situazione. Non c’è un vero motivo né per restare né per andarsene. È solo questione di tempo: i mostri prima o poi li prenderanno. Tutto è inutile. Nessuna soluzione ha un senso e non l’aveva fin dal primo momento. Infatti la pellicola termina con l’automobile che senza più carburante si ferma in mezzo alla nebbia tra i versi disumani di mostri terribili. David e i suoi decidono di togliersi la vita con una rivoltella piuttosto che affrontare il pensiero di dover morire dilaniati da quelle aberrazioni agghiaccianti. Credo però che le parole decisive nel film vengano pronunciate dal bag-boy del supermarket – per la verità piuttosto cresciutello per essere un bag-boy ossia per infilare la spesa dei clienti nei sacchetti alla cassa, una mansione che per quel che mi è dato di sapere esiste solo negli Stati Uniti. L’uomo si chiama Norm. Succede questo: sul retro del supermercato c’è un guasto. Una porta elettrica non funziona bene. Allora un gruppo di uomini decide di riparare il guasto. Per farlo gli uomini devono uscire fuori dal supermercato, nella nebbia, tra i mostri. David cerca di dissuaderli. Gli uomini però non gli danno ascolto, non vogliono crederci che fuori ci sono i mostri. Vogliono solo riparare il guasto, accidenti. Così, prima che possa scoppiare una colluttazione, Norm prende David in disparte e gli dice queste parole: «Sono confusi perché non sanno che cosa sta succedendo. Ora però hanno un problema da risolvere, è qualcosa che capiscono e vogliono risolverlo. Non li fermerai». Ecco. Hanno un problema da risolvere. È qualcosa che capiscono. Quel guasto alla porta elettrica del supermercato non è così diverso in fondo dalla Balena Bianca del Capitano Achab, da un modulo da consegnare alle poste entro oggi pomeriggio alle tre, da una bronchite da curare o dal trovare un posto dove andare a mangiare ora che siamo in un’altra città. Serve solo a dimenticare per un periodo di tempo più o meno lungo che siamo chiusi in un luogo gettato chissà dove nelle coordinate del non senso, che andare di qua e andare di là non cambierà questa situazione e che al limite siamo anche circondati dai mostri. Non c’è una sola, maledetta via d’uscita. Si è persi. Quando si prende coscienza di questo si può stringere i denti e continuare a risolvere problemi oppure inseguire fantasmi oppure si può cercare di non pensare al non senso e al non-essere che ci circonda, che ci chiama, oggi ci sei domani non ci sei più, in un momento, in un battito di ciglia, in un solo movimento della lancetta dell’orologio. Però a dirla tutta non c’è mai una vera soluzione, mai.
Ecco è proprio questo brivido dopotutto che l’orrore procura. Budella sparpagliate sul pavimento. Bulbi schiacciati sotto i piedi. Gole sgozzate. Orbite vuote. Morti che camminano. Denti che morsicano una gola. Mummie che corrono con le braccia levate e le bende al vento. In qualunque caso, l’orrore ti sbatte davanti alla faccia questa faccenda qui: non c’è soluzione, non c’è via d’uscita, non c’è scampo. Puoi andare dove vuoi. Pensare quello che vuoi. Cercare di fare quello che vuoi. Non c’è scampo.
Buona lettura.
Questo testo è la prefazione all’antologia “Orbite Vuote – Sedici racconti dell’orrore e una poesia”, edita da INTERMEZZI e in uscita a fine gennaio 2011