Consuelo
Dopo quarant’anni, cammino lungo una discarica,
dove bambini e gabbiani si dividono i rifiuti,
e inciampando nella parola «occupazione» abbasso la testa piena di libri,
ciotole vuote in un porcile inondato di merda
Simile a una cagna che per troppo tempo ha allattato cuccioli
abbandonati e ora si cura solo dell’orizzonte,
mi siedo al Café du Grand Dades, mentre un lustrascarpe
girovaga di tavolo in tavolo inutilmente
Dovrei smetterla di rattristarmi:
come scriveva il mio amico Romain, vicino alla città del Male
c’è sempre «un piccolo paese» dove la gente, tossicchiando per il tanfo
dei cadaveri, coltiva tranquillamente i propri affari
È questo che è insopportabile. Che scegliere? La santità?
O appendersi con una corda a un anello di Saturno? Per tutto il giorno
le cicale si sono date da fare e non c’è stato verso
che le abbia consolate. Neppure questo: «Tutte le disperazioni sono permesse»
Abdullah, nessuno della compagnia è stato all’altezza del tuo cazzo,
Gloria mundi, per il resto bassa macelleria d’incontri notturni, una clip
non proprio hegeliana del rapporto padrone-schiava che le sorelle
Papin avrebbero preferito recitare in una prigione di Tangeri
Non importa che tu sappia dove io sia. Ti basti questo:
sono tua madre, la prima goccia. Dopo puoi solo imprecare contro il vento,
il deserto, le fogne, i ratti, il sangue sulle strade,
la solitudine di un lustrascarpe quando piove
Lourdes
Nella città senza mappe del mio incubo la parola volontà
non ha più alcun significato. Che cosa ho davvero voluto?
Aborrire il mio paese? Sposare un bibliotecario di Namur? Guardare
il volto tumefatto di mia madre all’obitorio di Saint Pierre?
O vagabondare per il Sablon con l’urna delle sue ceneri
sulle spalle, sigillata e accuratamente riposta nello zainetto?
Come un neonato congolese addormentato (il peso di un altro
è il nostro peso, più la radice quadrata di ciò che abbiamo perduto).
O che non abbiamo perduto. E che differenza c’è tra il portare
sulle spalle un cadavere o un figlio appena nato? In ogni caso tu
ne sei il prolungamento, il sogno, l’incubo, l’incarnazione vivente
che l’amore e la morte si congiungono in un punto di domanda
E la domanda è: che cosa si prova? Allora ciò che resta da fare è uscire
dalla Storia e tuffarsi nella cronaca, visitare per anni l’archivio
delle tue carni, confrontare i registri, le testimonianze, i tarli
con il nome delle vie, le piazze, i conoscenti, i loro «ripassi più tardi…»
E quando? Il giorno del mio prossimo concepimento? O quando anch’io
sarò inghiottita dal ricordo di qualcun altro? Da quello della vedova Thiénot,
ad esempio, la cui massima ambizione è raccogliere gli escrementi del suo cane.
Da quello di Kawthar, che si sente in patria solo quando il marito la frusta
Nell’incubo di questa città senza mappe, ognuno di noi appartiene
a una persona che ha lasciato questo mondo, o che è appena nata.
Ed è il suo peso a sollev arci dalla paura dell’ignoto sempre in gestazione.
Come una madre che si ostina a non prendere precauzioni
“Queste poesie fanno parte della mia prossima raccolta Scuola di calore. Un po’ tutta la raccolta ha a che vedere con il sud della Spagna, con il Marocco, con terre povere e spesso oggetto di nuove colonizzazioni… La cosa che caratterizza tutta la raccolta è che le protagoniste sono sempre donne. Donne difficili e in difficoltà. Ripudiate, emarginate, senza scrupoli e sensibili… Non chiedermi perché. Non so rispondere. Ma forse basta leggere i giornali” ( Massimo Rizzante – da un commento a un post di Nazione Indiana, dove qui e qui sono leggibili altre poesie da Scuola di calore – e qui su ZIBALDONI).
L’immagine che illustra questo testo è di Eliana Petrizzi (www.elianapetrizzi.com) e si intitola “Casa di carne”.
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