G. P. Innanzi tutto, perché questo titolo, “Brevi dal Nord”?
G.M. Quando Enrico De Vivo mi ha contattato per sapere se avevo qualcosa da proporgli per la nuova collana di narrativa che avrebbe diretto per la casa editrice QuiEdit, stavo lavorando a una raccolta di pezzi brevi e brevissimi. L’opera era ancora abbastanza in fieri e non aveva un titolo, nemmeno provvisorio; accettando l’offerta di Enrico, che vive in Campania, mi è venuto spontaneo dedicargli “dal Nord” (Modena) questa serie di scritti. Però rispetto alla casa editrice, che ha la sede legale a Verona, mi colloco “al sud” anch’io. Perlomeno, sud-ovest.
G.P. Come ti è venuta in mente l’idea di iniziare a scrivere una raccolta di testi così brevi, e per di più molto eterogenei? Non avevi il timore che sarebbe stato difficile trovare un editore disposto a pubblicare un’opera così anticonvenzionale?
G.M. Per me la scrittura è puro divertimento, quindi mentre procedevo nella stesura dei vari testi (a volte due o tre contemporaneamente, per rendere il gioco più interessante) non mi sono mai posto il problema del “dopo”. In effetti il problema esiste, ed è di duplice natura: parecchi editori ritengono il racconto un genere minore (e pertanto molto rischioso dal punto di vista puramente commerciale) – figuriamoci la perplessità che può suscitare una raccolta di racconti che spesso non raggiungono la lunghezza di una pagina… Inoltre, come hai giustamente sottolineato, l’opera non contiene solo racconti, ma anche atti unici, dialoghi, lettere, finti trattati, ecc. Devo dire che sono rimasto piacevolmente stupito dal fatto che l’opera sia stata accettata senza obiezioni, e anche molto rapidamente.
G.P. Questa assoluta commistione di generi e di registri non rischia di sconcertare il lettore?
G.M. È possibile che la prima reazione del lettore sia in effetti lo sconcerto, ma io spero che immediatamente subentri un sentimento di sorpresa, di divertita meraviglia. Da una pagina all’altra cambia tutto – ritmo, stile, atmosfera, genere letterario… insomma, una grande confusione, sì, ma “tonica”, che mette addosso una certa allegria e molta curiosità; almeno spero.
G.P. Non per niente Gisela Scerman , nella prefazione, dice che quest’opera sembra “il lavoro di un facchino che ha accatastato in un sol luogo il contenuto di due o tre soffitte da sgomberare”; ti sembra un paragone azzeccato?
G.M. Direi proprio di sì; la trovo una gran bella immagine, potente, che secondo me “funziona” benissimo a vari livelli di percezione. Inoltre rende alla perfezione l’idea fondamentale della “sorpresa” – quello che si trova nelle soffitte è sempre sorprendente, anche se non necessariamente “bello”. Ma quello che volevo evitare era proprio il pericolo del “bello” in sé e per sé, quel genere di “bello” che non solo è un po’ freddino, ma che raggela addirittura. Io questo tipo di bellezza la trovo innaturale, altera, artificiosa. Infatti non sposerei mai una top-model.
G.P. Che cosa ti ha “divertito” di più durante la stesura della raccolta?
G.M. Be’, diciamo che il motore che ha fatto progredire abbastanza velocemente l’intero progetto è stato il gusto della sperimentazione – anche a costo, talvolta, di rischiare di dar l’impressione di voler prendere in giro il lettore. Naturalmente questo proposito è del tutto assente dal mio lavoro – al massimo vi si può trovare qualche piccolo sberleffo a certe mode narrative. O forse sarebbe più preciso chiamarle genericamente “pose intellettuali”. L’altra cosa che mi ha appassionato molto è stato il montaggio dell’opera in concreto. Mi trovavo tra le mani una settantina di testi che, presi singolarmente, ritenevo validi – si trattava di assemblarli in modo convincente, non ripetitivo. Insomma, si trattava di non rovinare tutto. A qualcuno potrà sembrare un lavoraccio, io l’ho sempre considerato un aspetto del gioco. Alla fine ho anche scartato alcuni pezzi, che mi sono rimasti in mano come quando si cerca di riparare un elettrodomestico o un trenino elettrico.
G.P. Hai parlato di sperimentazione; c’è ancora qualcosa da sperimentare, in letteratura?
G.M. Onestamente credo proprio di no, è già stato fatto di tutto e di più, e spesso in maniera eccellente. Ma io personalmente certe forme non le avevo mai affrontate, e ho voluto constatare se ero in grado di fare alcune cose che secondo me sono molto difficili da scrivere in modo che stiano veramente in piedi. Poi, per raggiungere il massimo dell’incoerenza, ho inserito anche tre o quattro racconti per così dire “normali”, più convenzionali insomma. In questo modo credo però di aver creato anche un certo ritmo compositivo – sempre che il lettore decida di leggere il libro dall’inizio alla fine.
G.P. Pensi di continuare a “sperimentare”, in un prossimo volume?
G.M. A ben guardare si “sperimenta” sempre, scrivendo, perché si tratta ogni volta di una nuova avventura, di un nuovo inizio. Comunque ho intenzione di tornare a forme più tradizionali sia di genere che di stile. Ho un paio di romanzi da finire, la “voce” che li guida mi soddisfa e mi diverte abbastanza, ma devo trovare molto tempo libero per portarli a termine. Un romanzo è una cosa grossa: è un pachiderma, mentre i racconti brevi appartengono alla famiglia dei passeracei.
G.P. Nella grande varietà di stili, forme e registri che hai messo in mostra in “Brevi dal Nord”, a quali autori ti sei maggiormente ispirato?
G.M. Posso semplicemente dichiarare la mia ammirazione per alcuni maestri, poi non so fino a che punto ne sia stato influenzato a livello conscio o inconscio. Senza dubbio ho sempre tenuto presente la lezione di Ermanno Cavazzoni , Gianni Celati , Daniele Benati , Daniil Charms, Céline, Thomas Bernhard, Henri Michaux, Bohumil Hrabal, Robert Walser… e tantissimi altri che sarebbe troppo lungo citare, ma di cui ho grandissima stima.
G.P. Tutti autori che compaiono spesso nel tuo blog www.gianfrancomammi.it; Hrabal l’hai citato anche in esergo a “Brevi dal Nord”…
G.M. Sì, mi è tornata sott’occhio quella frase di un racconto tratto da “Inserzione per una casa in cui non voglio più abitare”, e mi è sembrata perfetta per chiarire fin da subito il mio approccio all’opera. Venga, vecchio, venga qui e ci racconti qualche puttanata è una frase leggera e semplicissima che in due secondi smonta quintali e quintali di menate intellettualistiche.