Abitavamo allora vicino alle antiche mura romane. C’erano palazzi costruiti in serie dopo la guerra, alti dieci piani, di un colore tra il giallo e l’arancio, squadrati, con le terrazze sopra e le facciate scandite dalle persiane verdi che furono il soggetto di tutto un mio periodo di disegni, intorno ai sette anni. Sui fogli bianchi si vedono tanti rettangoli che sono le finestre allineate e le persiane con tutte le strisce. Solo rettangoli. Vedevo, al di là del cortile, una cucina appena illuminata, con il cassone grigio dell’acqua sospeso sopra al lavandino. Sognai una volta che un bambino vi affondava dentro lentamente. Spesso mi svegliavo di notte per un brutto sogno, questo lo associai definitivamente a una canzone che ci veniva cantata per scherzo e con tono drammatico in cui una bambina con gli occhi pieni di lacrime chiede alla madre perché non le compri i giocattoli. Un sogno in cui l’incubo tuttora risuona. Dove stava affondando quel bambino?
Eravamo in cinque, i miei genitori e noi tre, mio fratello, io e mia sorella, ancora non era nata la più piccola. Nella stanza dei miei genitori c’era una toletta con alto specchio e cassetti, e il pianoforte di mia madre, che di sera lo suonava a lungo. Certe musiche mi provocavano un sentimento come fossi ammalata e inguaribile.
Una casa di tre stanze, coi pavimenti di graniglia, la stanza dei nostri genitori, la stanza da pranzo e quella nostra, una cucina, un bagno. Mio padre, era stato un ufficiale di marina, dopo la guerra aveva cominciato l’università, si stava ora laureando per diventare poi avvocato e nel frattempo faceva lavori provvisori, all’alba andava a scaricare cassette ai mercati generali. Era magro, l’ulcera lo affliggeva, una volta di notte sentii i suoi gemiti, lo portarono in ospedale, fu operato allo stomaco. Rimase poi il ricordo di quel lamento nella notte e la lunga cicatrice, come la ferita di un eroe.
Mia madre era di una famiglia ricca, evitava se poteva di farsi aiutare. Suo padre aveva tenuto un attento computo su registri di quanto spendeva per ciascuno dei figli e anni dopo, essendosi sposata a diciott’anni mentre i fratelli erano stati mantenuti all’università, la risarcì di quanto lei non aveva avuto regalandole una grande casa col giardino dove andammo ad abitare dopo questa. Mia madre diceva sempre che le sarebbe piaciuto studiare medicina, ma aveva incontrato durante una villeggiatura al mare quell’ufficiale vestito di bianco, aveva quindici anni e mia nonna che era una donna passionale aveva favorito quel grande amore così la sua vita era andata altrimenti.
Mia sorella, nei miei primi ricordi in quella casa del dopoguerra, la vedo sempre in braccio a mia madre. Mio fratello era, si diceva, dispettoso. Doveva essere geloso di quelle due sorelle più piccole, ma lui non se ne ricorda.
Una via contornata di palazzi, parallelepipedi grigi, all’interno cortili con la ghiaia e molte scale tutte uguali. Negli androni, con cerimoniale di processione, furono collocate a un certo punto piccole edicole con la Madonna coronata di stelle illuminate.
Lungo le facciate dei parallelepipedi, i negozi. Disegnavo anche quelli, saracinesche abbassate o aperte. Pacchi di disegni si accumulavano, se me ne piaceva uno lo copiavo e ricopiavo così da raggiungere la perfezione.
Il negozio che preferivo era quello della merciaia che rammagliava le calze. Tirava ben bene la calza su una sorta di telaietto di metallo, il viso dai pesanti occhiali a pochi centimetri dalla smagliatura, poi faceva andare a tutta velocità un ago elettrico, il tessuto si ricomponeva, restava solo un segno.
Mi piaceva anche il lattaio, che vendeva i blocchi di ghiaccio per le ghiacciaie. Mio padre amava molto l’acqua fresca e ci mandava a prenderne alla fontanella, io portavo il fiasco verde con una intelaiatura di metallo a molle, mio fratello il sacchetto di juta con dentro il parallelepipedo iridescente e gelato.
In fondo alla strada c’era la chiesa delle suore che avevano il viso incorniciato da un grande ovale bianco pieghettato, parevano rigide maschere, Suore del Preziosissimo Sangue. Delle suore avevo paura, non sorridevano, osservavano tutto duramente e soprattutto avevano quelle mani così bianche. Tutti i pomeriggi giocavo con una bambina che abitava vicino a noi, mi domandava come in un interrogatorio che colore preferissi, il rosso o il celeste? Rosso. Ciò dunque significava che mi piaceva il colore delle fiamme dell’Inferno, mentre celeste è il manto della Madonna. Dicevo celeste. Ciò significava che lo preferivo al colore del sangue di Gesù? del Preziosissimo Sangue? Avevo sbagliato ancora.
Palazzi del dopoguerra, allineati. La casa, quando la rividi anni dopo, mi lasciò senza fiato. Il corridoio che mi sembrava infinito quando dovevo traversarlo al buio si percorreva con appena due passi. Nella vasca, in quella stretta vasca, facevamo la sera il bagno in tre, una piscina. Quanto piccoli dovevamo essere per arrivare a nasconderci in quel poco spazio, danzare tra piroette e salti in quella stanza da pranzo occupata quasi interamente dai mobili? E quanto dovevamo essere presi dalla nostra fantasia per non accorgerci dei limiti che quella casa aveva? Si dice che nel bambino la mente, i contatti con la realtà si strutturano modellandosi sullo spazio circostante che resta come un’impronta definitiva della psiche e dell’anima. Lo spazio materiale con la sua forma e gli oggetti può anche scomparire dalla memoria, resta però dentro come modello primario, perché là è avvenuto tutto l’inizio.
Il mio spazio primario non fu in realtà quella casa ma quella di campagna dove sono nata, anche se poi non la rividi mai, l’ho sempre sentita raccontare da mia madre. I miei genitori si erano rifugiati lì dai contadini, c’era la guerra, i tedeschi, mio padre si nascondeva nei fossati. C’era la stalla con gli animali, letti con materassi fatti di foglie di pannocchie, le colline e i larghi paesaggi delle Marche. E poi ci fu la casa dei nonni paterni, una casa molto grande, dove vivevano con loro a causa della guerra anche alcuni fratelli di mio padre. Li vedo che si aggirano in vestaglie strette in vita, fumando. Le porte delle stanze hanno vetri con ghirlande e figure. Passaggi ingombri di bauli e bagagli, una specie di caravanserraglio e un salottino stretto, di velluto verde, che ho sempre pensato fosse lo scompartimento di un treno..
La casa vicino alle mura romane cominciai subito a trasformarla: diventava un teatro, un giardino, una chiesa, un negozio, uno dei luoghi remoti ed esotici di cui nostro padre la sera ci leggeva le storie. Un salto ed ero parte di quei mondi. Le sorelle di mia nonna mi stavano intorno come tanti astrologi, mi facevano parlare, come era possibile che una bambina così piccola avesse tanta fantasia!
Prendevamo i grandi album quadrati, tiravamo fuori i dischi neri con l’etichetta in cui un cane sta seduto di fronte all’altoparlante a tromba di un giradischi, ascoltavamo le opere cantate o le sinfonie, soprattutto la Sesta di Beethoven, alle cui note danzavamo mollemente facendo lente movenze e girando su noi stessi. A volte, nel periodo di Carnevale, quando c’erano le stelle filanti di carta, mia sorella e io ne staccavamo lunghe strisce che incrociavamo accuratamente sul piede e lungo il polpaccio a imitare i lacci delle scarpette da ballo. Erano ora scarpette di raso rosa, con la punta appesantita dal gesso e i lunghi nastri lucidi, la gonna, che rincalzavamo tutta, era il gonnellino fatto di infiniti strati di tulle. Ci mettevamo sulla testa panni bianchi di cucina che ci arrivavano quasi alla vita, stretti alla nuca e tenuti fermi in cima alla fronte con le mollette, immaginavamo che fosse così sentire i capelli sciolti sulle spalle. Avrei voluto avere lunghe trecce nere invece di quei capelli corti di cui si prendeva implacabilmente cura nostra nonna che arrivava ogni tanto con l’autista e ci portava dal parrucchiere, ciuffi neri e castani cadevano per terra, “Siete un amore” diceva. Ci sentivamo infelici e la odiavamo. Perché i capelli delle donne non potevano che essere lunghi: poterli pettinare, farsi lunghe code di cavallo! Oppure avere boccoli settecenteschi fermati in cima alla testa e ricadenti, come la mia compagna Piccolomini, in terza elementare. Fu forse per quella aspirazione frustrata che una volta afferrai la bambola che aveva una lunga capigliatura bionda e le detti fuoco sul fornello acceso, correndo poi per casa con quella torcia infuocata.
Una passione, quella per i capelli. Una sorella di mia nonna ci aveva dato in consegna due grandi bambole di porcellana. Gli occhi di vetro, con le palpebre contornate di ciglia, si aprivano e si chiudevano, la bocca era rosa con dentini un po’ radi, e i vestiti lunghi, di seta, bambole alte quasi come mia sorella, di quattro anni più piccola di me. Non erano veri giocattoli, ma piuttosto manichini, ma avevano capelli veri, una biondi l’altra castani, che potevamo pettinare a piacere, fino a quando, con le chiome ormai tutte scapigliate per quel continuo lavorìo non venivano portate alla Casa della Bambola da dove dopo qualche giorno tornavano con i vestiti stirati e con acconciature rigide e a onde come signore compassate.
E c’era poi nella via di Monte d’Oro il bambino coi capelli lunghi di cui avevo paura. Il prato era in salita, un muro lo conteneva come a non farlo scivolare via. Alberi alti, oleandri con i grandi ciuffi di fiori. Il monte lo vedevo d’oro, anche se era immerso nell’ombra del fogliame. In un preciso punto, visione sempre attesa e temuta, stava il piccolo mostro, lunghissimi capelli biondi sparsi sulla schiena, pelle bianca come il grano sugli altari dei sepolcri la settimana santa. Da lontano sembrava un angelo di chiesa, un bambino di cera. Dicevano che per voto quei capelli che gli si avvoltolavano in lunghi riccioli non si potevano tagliare. Fino a quando? Non era dato sapere. Io immaginavo una donna triste e lacrimosa, sua madre, che da qualche parte soffriva.
Mio fratello aveva la fortuna di dormire in un armadio letto, mobile che, quando di sera veniva aperto, diventava la zattera in mare. Stavamo sul materasso a battagliare nella tempesta con chi ci attaccava, le onde si abbattevano su di noi, la zattera stava per affondare, cadevamo all’indietro gridando, ogni tanto uno moriva rimanendo lungamente stecchito ma c’era sempre come risorsa quella di rifugiarci dentro la ribalta interna che serviva per riporre il cuscino quando di giorno l’armadio si richiudeva, una tavola con cerniere sotto la quale ci si poteva perfettamente nascondere. Oppure il materasso su cui avevamo appena combattuto diventava il circo: schioccavamo fruste inesistenti per domare il leone, mio fratello, che ruggiva spaventosamente facendo smorfie terrificanti dovendo attraversare il cerchio di fuoco.
Appeso al muro, un piccolo tondo di ceramica, una madonnina, che da quando quella di Siracusa aveva cominciato a versare lacrime evitavo di guardare convinta che prima o poi avrebbe pianto anche lei. La voce maschile di sera tardi alla radio, in una trasmissione annunciata da una musica solenne, raccontava a puntate di quel prodigio. Un miracolo. E se fosse toccato anche a noi quel miracolo?
A volte andavamo a pranzo dai nonni. A tavola, obbligati al silenzio, ci vedevamo posare davanti il piatto coi grandi gamberi scarlatti immersi nel sugo da cui emanava l’odiato odore. Bisognava aprirne la corazza di celluloide con le dita, scostando le antenne e le zampine ad angolo retto. Gli occhi di mia sorella trasmettevano il disgusto di dover ingoiare quella sostanza che sapeva di varechina.
Mio nonno aveva l’abitudine di mangiare i mandarini usando le forbicine: tagliava la pelle dello spicchio là dove si congiunge nella parte interna, prendeva i due lembi e li apriva, la polpa arancione si squadernava come uno strano fiore che lui si portava alla bocca, la pelle la abbandonava sul piatto. Quando avevamo finito di mangiare chiedevamo il permesso di alzarci, a volte la risposta poteva anche tardare. Poi andavamo a deporre un bacio sulla guancia dei nonni.
C’era là come unico giocattolo una sorta di macchina a vapore di latta colorata che ogni tanto mio fratello poteva far funzionare mettendo un batuffolo di ovatta imbevuto di alcol all’interno e dandogli fuoco così che l’acqua contenuta nel serbatoio bolliva facendo girare una ruota e facendo uscire grandi sbuffi, bianchi come nuvole, dal comignolo. Ma a Natale gli zii facevano il presepio, un’intera piccola stanza, c’era un fiume di vera acqua che scorreva, specchi che erano laghetti, intere montagne di carta roccia e un cielo di carta blu con stelle argentate. Un mondo semplicemente meraviglioso e bastava un minimo scatto della mente per esserci dentro, tutto il resto scompariva: c’era il fuoco fatto con la carta velina rossa su una lucina, i pastori, le pecore tranquillamente accovacciate sul muschio.
Così come con una minima capriola posso entrare nel nostro teatrino dei burattini, sono nel palazzo coi tralci che si arrampicano lungo le colonne disegnate sul fondale di scena, ora sono proprio chi voglio, il vestito è tempestato di lustrini.
Mia madre aveva rivestito i burattini con abiti principeschi, splendidi colori di seta, tulle e raso, paillettes, leggeri veli che scendevano dalla capigliatura di gesso celeste della fata, un nobile signore in velluto nero con capelli bianchi e barba puntuta. Cuciva di sera quando dormivamo. Il teatrino ci occupò per anni, c’era perfino una lampada nel salotto di scena, con un paralume tutto pieghettato e la luce che si accendeva.
Grandi ritratti di donne sedute serie e malinconiche, coi visi lunghi. Ombre. Seguo la zia delle bambole di porcellana, sorella della nonna, che ha una chioma rossa, leggera e crespa come un tondo piumino intorno al viso. Apre una stanza e prende gli oggetti, la piccola bambola meccanica che suona il pianoforte nero viene poggiata sul tavolo, muove a scatti la testa, le dita si spostano sui tasti bianchi e neri producendo una musica di carillon. Posso guardarla per tutta la vita. Ma poi arriva la scatola delle perline.
Un lungo filo bianco, un ago, infilo le perline, una collanina. Una bambina seduta, intenta e silenziosa, la zia è contenta, non sa che la bambina è entrata in un altro luogo, altrove, il vetro rosso brilla leggermente, le perline sono, nella scatola, una luccicante materia semovente, basta toccarne una con la punta dell’ago e tutte le altre sembrano vibrare, qualcuna fugge, colore rosso come il rubino del tesoro della caverna, dietro molte porte.
È l’ora di pranzo in casa della zia. Oltre al marito e a due figli maschi, c’erano una serva asmatica e una cognata che si muoveva lentamente e silenziosamente come un insetto lungo il corridoio poggiandosi a due bastoni, piccola anche lei come una bambina. Aveva avuto la paralisi infantile, si diceva. La zia non le rivolge la parola da anni. Lei vive nella sua stanza, esce solo per raggiungere la sala da pranzo dove siede a tavola in disparte, i capelli nerissimi e la pelle molto bianca, somiglia a quelle donne serie dei ritratti, silenziosa da chissà quanto tempo. I bocconi stentano a scendermi in gola, lei mi guarda, sorride, io non oso, se la zia si arrabbia? La zia che pure ha quell’aureola rotonda di capelli e la scatola di perline. Che terribile silenzio. Ci sono molti misteri, ma dopo morta saprò tutto.
Con una sottogonna di mia madre, di cotone bianco coi pizzi, che infilo dalla testa tenendo l’elastico intorno al collo, mi vesto da prete e dico la messa. Il panchetto con sopra qualcosa di bianco è l’altare, ci mettiamo un libro, un bicchiere è il calice, mia sorella che si è infilata una camicia di nostro padre, è il chierichetto. Genuflessioni e parole, segni di croce, con le ostie che servono a prendere certe disgustose medicine in polvere si può fare la vera comunione. La bambina delle domande trabocchetto è la vecchia che sta inginocchiata con l’espressione rapita, le mani giunte, la testa coperta da un fazzoletto.
Questa bambina stava a scuola con me. Aveva ai nostri occhi la pecca di essere una figlia unica, e per questo, secondo noi, di immusonirsi spesso. Ma a causa del suo essere figlia unica godeva anche di molti privilegi, in primo luogo di avere una stanza da letto col tappeto e un libro la cui protagonista era una gallina bianca a pois rossi per il quale avrei dato in cambio molti dei miei giochi.
Il tè che là ci viene portato di pomeriggio mi provoca malinconia e nostalgia della mia casa, tè zuccherato e col latte che mi disgusta, ma sul fondo della tazza, una volta che sono riuscita a berlo tutto, appaiono le dame, antiche dame con cuffie rinascimentali i cui occhi a mandorla con le fini sopracciglia unite mi guardano.
Sul soffice tappeto verde con le rose della casa della mia amica possiamo ballare facendo un gioco che solo qui riesce così bene, è il Risveglio della Primavera. Tutte raccolte su noi stesse per terra ci dobbiamo destare lentamente, i movimenti devono essere quasi impercettibili. E poi sempre lentamente ci solleviamo, siamo torpide e svagate come fossimo state colpite da un incantesimo, e infine siamo sveglie. Danziamo meravigliosamente, ne siamo convinte, sulle rose del tappeto. Ripetiamo il gioco più volte perché siamo perfette.
Tutti i pomeriggi uscivamo con la donna di servizio, una profuga istriana, che viveva da sempre nella casa della mia amica. Oltre che di misteri il mondo era allora popolato di queste presenze, esseri che ai miei occhi non avrebbero mai dovuto esistere e che invece dovevo incrociare e che mi provocavano paura e malinconia e quei sogni che mi facevano svegliare nel buio della notte: il bambino dai boccoli biondi lunghi fino alla vita, la serva asmatica che mi abbraccia troppo, la piccola cognata con i bastoni e le scarpe ortopediche a stivaletto nero come avesse piedi finti, l’uomo che abita nel quartiere e che ha il viso devastato dallo scoppio di una bomba (“ci sono ancora le schegge” aveva detto mia madre), il dignitoso colonnello che sta nel nostro stesso palazzo, privo di un braccio, con la manica della giacca ripiegata e tenuta ferma da una spilla da balia, la lavandaia che viene in casa a fare il bucato, possente come un uomo, i capelli raccolti in una treccina tenuta ferma da forcine, e che ha un terribile odore. La sua storia ci impressiona e chiediamo continuamente a nostra madre di raccontarcela: il piccolo marito, il padre dei suoi dieci figli, la picchia ogni giorno, lei una volta gli ha dato un colpo di accetta sulla testa ma purtroppo lui non è morto.
E c’era la cameriera della mia amica, quella Maria profuga istriana, piccola e troppo magra, che aveva mani con le dita fini, un po’ consumate e arrossate in punta, come evidentemente tutte le profughe dovevano avere, capelli inconsistenti e occhialini tondi, un’aria di pallida formica. Di lei non avevo paura, anzi le volevo un bene smisurato e la sua voce sembrava un suono screziato di violino. Ma perché doveva essere profuga? Non poteva semplicemente non esserlo?
Anche da noi veniva il venerdì a pranzo un profugo, un signore rumeno che faceva l’università con mio padre, fuggito dal suo paese lasciando la moglie molto amata di cui sempre parlava e che non avrebbe mai più rivisto. Scherzava con noi bambini e ci teneva in grande considerazione. Per la sua triste storia spesso lo odiavo come fosse giusto odiarlo, a volte invece lo amavo appassionatamente come stesse a me proteggerlo.
Andavamo ogni pomeriggio con la cameriera nella villa. Risalivamo la via delle mura. In primavera fiorivano in alto sui ruderi le piante di capperi, più tardi nel prato i papaveri. Se si colgono quelli chiusi e si spaccano pian piano con le dita si può vedere il futuro colore rosso che però è ancora rosa e i petali sono morbidi e tutti gualciti per essere stati stretti nella capsula vegetale del bocciolo. Papaveri e spighe verdine, che coglievamo facendone piccoli mazzi subito appassiti. Nella villa profumo intenso di bosso. Il sole veniva radente da sotto le chiome degli alberi.
Poi andavamo in chiesa, a volte le passeggiate erano molto lunghe. Ad esempio nella parrocchia del quartiere era stato esposto il braccio di San Francesco Saverio, oggetto di devozione, un braccio tutto nero dentro uno sportello posto sull’altare. Oppure c’era la Beata Maria de Matteis delle Suore del Preziosissimo Sangue, nella grande bara di vetro, il viso di cera, il soggolo bianco, bruciavamo i nostri fioretti scritti su carta a quadretti in un fuoco acceso sul sagrato della chiesa e cantavamo guidate dalla voce del prete mentre i chierichetti dondolavano i turiboli con l’incenso. E ci fu anche Maria Goretti che veniva trasportata da una chiesa all’altra stesa su cuscini nella teca trasparente, anche lei tutta di cera e vestita di bianco, coi capelli castani sciolti sulle spalle, la chiesa tutta luccicante di mille candele in uno stordente profumo di gigli.
Arrivò una volta anche Santa Francesca Romana, che bisognò visitare perché aveva lo stesso nome di mia sorella. Stava sotto l’altare, una piccolissima mummia vestita da suora, con quelle che mi sembrarono pantofoline nere. Col più grande stupore mi accorsi che portava i pantaloni, uno strano mistero di cui non osai chiedere a nessuno la ragione. Solo dopo molti anni, ripensandoci, mi resi conto che il tessuto della veste, non sostenuto da un corpo in carne ed ossa, era sprofondato tra le gambe dello scheletro dando quell’effetto di abito maschile.
Ci fu anche il periodo della Scala Santa della Passione. Seguivamo le donne che la risalivano ginocchioni coi rosari in mano e biascicanti. Su ogni gradino, sotto un piccolo disco di vetro tutto opaco, si intravedeva una macchia color ruggine, il sangue di Gesù, che le donne baciavano. Fu solo dopo averla fatta anche io in ginocchio per molti pomeriggi che fui travolta dalla fede e, superato l’orrore di quel contatto, potei imprimere i miei baci sulle tracce della Passione di Nostro Signore.
Quando veniva Natale scrivevamo le letterine. La più importante era quella per la Befana , lettere rispettose, “Signora Befana”, per chiedere (se poteva, se voleva) i giocattoli, con molte precise indicazioni e promesse e ringraziamenti. La mettevamo in cucina la sera, la mattina dopo non c’era più. E c’erano poi le letterine per i genitori e per i nonni perché in occasione del Natale e del Nuovo Anno i genitori e i nonni si dovevano formalmente ringraziare di tutto il bene di cui godevamo. Un’afflizione scriverle. Anche se erano letterine che più belle non ne esistevano. Si compravano dal tabaccaio già con la busta, i bordi della carta traforati come merletti e sulla prima pagina una linguetta di carta che, tirandola verso il basso, apriva una semisfera come un minuscolo alveare di velina rosa o verdina o celeste, sovrastata da cieli notturni sparsi di porporina con stelle e angeli.
All’albero di Natale attaccavamo i mandarini e qualcosa di stagnola oltre alle palle di vetro colorato che a volte cadevano con grande nostro dolore frantumandosi in schegge che avevano l’interno come specchio.
E arrivavano i giocattoli.
Una volta fu il teatro dei burattini. Una volta fu un cane bianco di peluche che aveva le rotelle e si poteva portare proprio come un cane vero per strada tirandolo col suo guinzaglio rosso. Una volta fu un negozio di pasticceria con un bancone che aveva la vetrina per le torte, torte in miniatura, con le glasse e le ciliegie rosse, le alzatine di vetro per i pasticcini con la panna, barattoli per le caramelle e bottiglie leggerissime per i liquori con tappi che si potevano togliere e mettere. Il materiale di cui le torte e i pasticcini erano fatti aveva un odore strano che definivo dentro di me moderno. E un’altra volta furono le due bambole gemelle, tutte vestite e con mantelle impermeabili, il cui numeroso corredo era contenuto in valigette di fibra, una ciascuna. Mio fratello aveva avuto una volta il meccano con cui si potevano costruire tutti i paesaggi del futuro avvitando tra loro le piastre e le barrette colorate.
Il trenino delle Dolomiti traversa nella luce estiva delle prime ore del mattino i prati verdi. Per la prima volta andiamo in montagna, dove mia madre passava le sue vacanze da bambina. Il trenino ha l’ultima carrozza che finisce con un piccolo balcone, stiamo fuori, all’aria aperta, c’è il vento.
Una lunga sosta e arrivano stretti bicchieri di porcellana bianca colmi di latte che ha sopra una leggera schiuma e che hanno come piattino grandi fette quadrate di una torta come Pan di Spagna, la colazione per i viaggiatori. Il latte non mi piace ma questo voglio berlo, fa parte della novità. Alberi puntuti verde scuro, una piccola stazione.
Di notte, sul treno che veniva da Roma, noi bambini avevamo dormito in alto sulle retine per i bagagli, anche ora quando viaggio in treno di notte subito comincio a fantasticare.
C’era con noi una zia che aveva sposato il fratello di nostra madre. Lo aveva sposato per ripicca e nonostante amasse un pilota, mi disse quando ero un po’ più grande, perché suo padre si riteneva maltrattato da mio nonno che era un alto funzionario della banca dove lui lavorava. Un matrimonio sontuoso. Era nata una bambina che ora aveva due anni e che noi detestavamo senza mezzi termini dal momento che era vestita sempre come una bambola, aveva tra i pochi capelli un cerchietto con piccoli fiori applicati, e soprattutto un occhio sempre un po’ chiuso, come se la luce la disturbasse.
O forse la detestavamo perché a quell’età c’è un sentimento di paura verso le vittime, non si ha ancora la forza di prenderne neppure dentro di sé le difese, il loro dramma non ha uno spazio per essere contenuto, diventano esse stesse responsabili della sofferenza che provocano. La zia infatti, che ha mani lunghe e fini con anelli preziosi e molti cerchietti d’oro al polso, dà spesso violenti schiaffi alla bambina, schiaffi che le lasciano un’impronta rosata sulle guance. Di notte, mia sorella e io dormiamo nella casa di montagna insieme a lei, nella sua stessa stanza. Ci svegliamo perché la bambina piange, si sente al buio quel suono degli schiaffi che la zia le dà perché dorma senza disturbare. Non lo diciamo a nessuno, è anche questo un segreto. Anche quando andiamo in chiesa la bambina a un certo punto si mette a correre, la zia esce sul sagrato, di nuovo schiaffi, e guai se solo versa una lacrima. La bambina va educata.
Mani fini che lavorano all’uncinetto, movimento a scatti del polso e la punta delle dita, con le unghie smaltate di rosso, si muove con rapidità e destrezza, il filo entra e esce, sopra e sotto, sopra e sotto. Nascono cappellini tutti tondi e con intarsi complicati che la zia fa per la bambina che li porta in alternativa al cerchietto. A volte la zia si accende una sigaretta, fuma.Ma non nel mese di maggio, che è dedicato alla Madonna.
C’era anche in quella villeggiatura nelle Dolomiti la fidanzata di uno zio, già, si può dire, una zia, anche se non lo diventò mai perché fu abbandonata per un’altra. Portava sandali con tacchi fini e una gonna larga di panno giallo con applicazioni colorate raffiguranti carte da gioco, una papalina sui capelli neri ricci.
La zia e la fidanzata hanno comprato una stessa tovaglia da ricamare, una ciascuna, uguali, pensano infatti che presto saranno cognate. Stessi fiori alpini sono stati stampati con la carta blu copiativa sul lino bianco. Stessi fili colorati. Siedono sul prato al sole e ricamano. La bambina raccoglie i fiori e li porta alla mamma. C’è una sua foto, l’occhio semichiuso, il cerchietto con le applicazioni di panno, due o tre margheritine in mano.
Noi, mia sorella e io, traversiamo il ruscello sulle pietre bianche, immergiamo i piedi nell’acqua gelata, andiamo nel folto profumato delle piante e restiamo lì dentro le storie che inventiamo fino a che l’ombra della sera non comincia a scendere e sale dai prati una lieve nebbiolina. Ci muoviamo in un mondo completamente a parte, e siamo noi che creiamo la realtà, i grandi non sanno che hanno già perso ogni potere. Quella in cui ci vedono muoverci ogni giorno accanto a loro, un bacio sulla guancia della nonna, gentili con le zie (“che bambine ubbidienti”), è semplicemente la nostra messa in scena. Nelle nostre teste passa infatti ben altro, nulla ci sfugge di quelle persone che ci circondano, non dobbiamo neppure parlarne tra noi, basta lanciarsi uno sguardo: abbiamo già a disposizione lo strumento per reggere il mondo, la curiosità unita all’ironia. Così sappiamo già tutto e siamo pronte a fare come ci pare e piace. Abbiamo al polso un braccialetto di piccoli dischi colorati di legno tenuti da un elastico rosso, ognuno con dipinto al centro un fiore di montagna.