C’erano stati gli esami di seconda elementare, la maestra di Dolcedo aveva dettato duepunti: pensierini duepunti: nominate la frutta che conoscete, e dopo un bel po’ era passata tra i banchi e aveva chiesto a Marino come mai non aveva scritto ancora niente. Il bambino aveva gonfiato le guance, gli occhi bassi. Allora la maestra s’era fermata nei pressi del banco di uno che di nomi di frutta aveva già riempito mezza pagina, e gli aveva chiesto:
“Vediamo un po’, tu cosa avresti messo per primo?”.
“La mela!” aveva detto quello.
“La mela” aveva ripetuto la maestra. “E tu?” aveva interpellato una bambina.
“Io per primo ho messo le ciliegie” aveva risposto la bambina.
Un bambino robustello, interrogato, aveva detto: “L’oliva!”
“L’oliva, ma certo,” fece la maestra.
“E va, bravi, l’oliva è un frutto?” protestò Marino.
Gregorio, il ripetente di borgo Clero, che tutti chiamavano Ostrica perché aveva poco collo, aveva ammesso: “Io l’oliva non l’ho scritta”.
Marino aveva preso forza. “Le olive frutta, che sono amare come il tossico?”.
Le olive che lasciano mani unte e viola, avrebbe voluto chiedere, è frutta? Gli sembrava una bestialità. Bestialità, sì. Il nome che usava Sagoma, il barbiere, quando si sedeva sul gradino all’ombra a metà carruggio, per dire di qualcosa di assurdo e insopportabile come il sole del primo pomeriggio d’estate. Una cosa bestiale. Non una cosa animale, perché gli animali erano calmi, forti, timidi, o noiosi, ma non erano bestie. L’asino e il bue che vivevano nelle stalle sotto le case, i conigli e le mosche attratte dal letame. Le bestie no, vivevano là di fronte al paese, nel buio, e uscivano la notte. Erano la bestialità, e ora a Marino non veniva in mente nient’altro per negare che l’oliva fosse frutta (un frutto, diceva la maestra, ma che differenza c’era tra frutta e frutto?). Una bestialità. “Un frutto, certo… ” disse la maestra.
Marino non capiva, una mela era femmina, anche una pera, persino un caco era femmina. Lui a casa parlava il dialetto, e anche in carruggio e al torrente, quando andava con Zia Nettina a sedersi sulle pietre bianche e la guardava lavare le lenzuola sullo scoglio, o in campagna con la madre, quando la guardava innaffiare. Le parole precise erano solo quelle in dialetto, e le cose che toglievano la sete erano frutta, non i frutti. Ma come si poteva spiegare una cosa del genere in italiano a questa maestra.
“Scrivi la mela allora”, disse la maestra come un ordine. Ma Marino rigonfiò le guance, si guardò attorno, e vide la bambina col grembiulino e le trecce, e Gregorio, che scriveva a testa bassa e incassata, con un pezzo di lingua di fuori, e il robustello che era alla seconda pagina e non la finiva più di scrivere nomi. No, uno avrebbe scritto nomi di frutta che non conosceva nessuno, i cachi dell’orto di Vallonello o Gilun, che sua madre portava nella cassetta e si salvavano fino a Natale. Le sorbe, nelle fasce incolte oltre la Crosa, che erano buone solo se cominciavano a marcire. Uno avrebbe scritto la sua di frutta. Altrimenti era come copiare dagli altri, elemosinare una decina di nomi dai fogli del robustello, che non conosceva ma aveva incontrato per la prima volta quel giorno a Dolcedo dove tutti i bambini di seconda elementare della valle, di Prelà e di Bellissimi forse o di Valloria, di paesi che conosceva per averli visti solo da lontano, s’erano radunati per l’esame. Così, tolta la data, Dolcedo, giugno, 1967, e il titolo dei pensierini, egli non scrisse altro. Forse non capì nemmeno quando a scuola dissero a sua madre che era stato rimandato in lingua italiana. Seppe poi che la madre l’avrebbe mandato a ripetizione da un signore anziano che viveva in cima al paese, in una vecchia casa che per raggiungere la porta bisognava passare sotto un pergolo metà glicine e metà uva fragolina. Anche la casa era nell’ombra, e dalla finestra della cucina, dove si sedevano, si vedeva un grande arancio, e l’aria odorava di cibarie, il gatto saliva sul tavolo.
L’uomo era paziente e dettava nomi di paesi, di frutta e di fiumi. Sul costone di là, che non si vedeva perché c’era l’arancio con la frutta ancora verde, ma dove Marino sapeva esserci il paese di Vasia, alle 16 suonava una campana e allora Marino sapeva che mancava poco.