Se avessi partecipato agli incontri di Spazzavento, avrei parlato della lettura integrale del romanzo Cecità di Josè Saramago, che ho avviato quest’anno nella classe quarta del Liceo dove insegno, perché è l’occasione migliore che ho trovato per mantenere vivo il rapporto con la letteratura, per continuare ad avvertirne le possibilità. Il tema della “cecità” sarà oggetto di un approfondimento monografico nel corso dell’anno scolastico, ma il fulcro di tutte le attività sarà la lettura in classe, ad alta voce, del romanzo. Siamo ancora agli inizi, con poche osservazioni degne di nota, ma prevedo molte sorprese perché già dopo le prime pagine si è creta molta attesa tra i ragazzi. Il punto di arrivo di tutta la ricerca dovrebbe essere una riscrittura del romanzo a opera dei ragazzi stessi, e in parte anche mia, nella forma di un riassunto con aggiunte, note e commenti, derivanti da tutte le altre cose che leggeremo e studieremo – compresi, ad esempio, i resoconti di una visita al Museo di Capodimonte a Napoli, dove è esposta la famosa tela di Bruegel il Vecchio, La parabola (caduta) dei ciechi, gli appunti di filosofia sui ciechi di Giordano Bruno e altre cose. Dovrebbe venir fuori, nella mia idea, il racconto non solo della storia del libro, ma anche della nostra lettura e del nostro studio ruotante attorno a essa. Si dovrebbe vedere il libro, ma anche noi che vediamo il libro, quello che facciamo e sentiamo girando attorno al suo tema.
I ragazzi non hanno a disposizione una copia di Cecità. Possiedo il libro io soltanto, e le letture si svolgono estemporaneamente, ossia quando abbiamo del tempo che avanza dalle lezioni o quando nasce il desiderio in maniera spontanea, compatibilmente con quanto possa esserci di spontaneo in una classe scolastica. Qui, però, devo subito precisare che non è una classe scolastica qualsiasi quella che partecipa a questa ricerca, e questa non qualsiasità mi sembra un presupposto importante di tutta l’operazione che ho in mente. Sto parlando, infatti, della classe in cui ho insegnato fin dal primo anno di Liceo. Io e i ragazzi ci conosciamo da quattro anni, abbiamo una certa dimestichezza reciproca, loro sono abituati ai miei tic, io ai loro. C’è poco spazio per la furbizia, diciamo così, anche se la furbizia, in un’istituzione come la scuola, resta sempre l’arma migliore in mano agli studenti per mettere tutto in crisi o alla berlina in qualsiasi momento. Ma qualche rischio bisogna correrlo, se si ha voglia non tanto di sperimentare qualcosa di nuovo, quanto (per me) di mantenere vivo quel rapporto con la letteratura di cui sopra, oltre che (per tutti noi) di scappar fuori dalla burocrazia coatta a cui ci obbliga la pedagogia statalista.
I miei studenti, come quasi tutti i loro coetanei, nei libri sono abituati a leggere per lo più cose “di un certo effetto”, relative a temi eclatanti di attualità o a fantasticherie abnormi. È il famigerato mondo letterario consumistico, collegato alla tv e alle mode, che impone loro questa pratica sconsiderata della lettura. Loro hanno poca colpa, in tutta questa faccenda, sono soltanto gli utilizzatori finali di un processo che ha origine nel profitto e nella pubblicità, per cui si leggono libri e si consumano parole come patatine fritte: non conta il sapore, conta solo che non finiscano mai (le patatine, le parole, le pagine dei libri). Mettere in crisi questo meccanismo che va dal produttore al consumatore, e non dallo scrittore al lettore, è uno degli scopi che vorrei prefiggermi con la ricerca sulla “cecità” che ho pensato di realizzare sul campo vivo della quotidianità scolastica. Si può capire facilmente, a questo punto, anche un’altra cosa: il tema della “cecità” non è stato scelto a caso.
Se fossi intervenuto agli incontri di Spazzavento, dunque, avrei potuto parlare del collegamento immediato che ho sentito tra questa nostra ricerca sulla “cecità” e due necessità: la prima, di “spazzare via questa faccenda del semplice leggere”; la seconda, di “discutere”, che è una “bellissima cosa”. Ed è proprio sulla “discussione” che vorrei puntare con questa ricerca sulla “cecità”. Non voglio fare un reading, e nemmeno uno spettacolo similmistico inter nos per venerare una Scrittura o un Autore. Non voglio neanche creare un’occasione per invogliare i ragazzi a leggere. Vorrei piuttosto inquinare la letteratura con la discussione, ossia con la parola (quasi sempre “sbagliata”!) che viene fuori dal riflesso condizionato dell’ascolto, che però attiva il pensiero e fa nascere idee improvvise da un’immagine ben tornita e vivida, che ancora non si sa dove può trasportare. Perché questa storia del “leggere” e del “come leggere” è cruciale, e noi dobbiamo ancora capire tutti i piccoli e grandi cambiamenti che si portano dietro nuove abitudini, comportamenti, scelte che fanno ormai giovani e vecchi lettori, nel bene e nel male. E per capire bisogna “discutere” molto innanzitutto con chi pratica la lettura diversamente da noi, utilizzando con fiducia l’arte antichissima della discussione, che, come dicevo, può condurre molto lontano proprio perché insufflata dall’errore e dalle parole sbagliate.
Invece l’altra necessità – “spazzare via questa faccenda del semplice leggere” – ha a che vedere, a mio avviso, con altre due questioni: con la critica a una certa (dominante) ideologia neutra dell’atto del leggere, per cui un libro vale l’altro, e tutte le vacche sono grigie nel buio che è calato sugli inconsolabili popoli occidentali; e con le querele periodiche che insorgono intorno alla lettura, che costituiscono il senso più profondo della pedagogia mortuaria che governa la scuola moderna: “i ragazzi non leggono”, “la politica emargina la cultura”, “la scuola non ha strumenti adeguati”, etc. Il “semplice leggere”, se uno ci pensa giusto un po’, è esattamente quello che si fa a scuola quando si analizzano i testi come se fossero oggetti. E se si tratta di oggetti, allora uno vale l’altro per fare le cosiddette “analisi del testo”, per cui alla fine è la letteratura, che invece implica sempre delle scelte critiche e affettive, che va a farsi friggere. È la medesima questione – questa della fine della letteratura come attività critica e affettiva per eccellenza – con cui si trova ad avere a che fare chiunque abbia oggi la sventura di fare lo scrittore. Tutto è degno di esser letto in quanto il “semplice leggere”, in una visione che sfiora il più bieco meccanicismo, basta e avanza a tenere la coscienza a posto, come capita spesso di dedurre dagli scritti di qualche critico o professore pronto a sorreggere con le proprie acuminate “analisi del testo” questa o quella tesi. Schiere di critici e di professionisti delle lettere sono ridotti a questo ormai: a stendere impeccabili, e retoricamente insulse, “analisi del testo” (in cui peraltro anche i miei studenti sono abbastanza bravi…), con le quali sono capaci di giustificare tutto, di dare dignità a ogni prodotto “artistico”, rendendolo vendibile e visibile sul mercato con il ricorso ad effetti speciali e abbaglianti. In una recensione di qualche tempo fa, un critico letterario molto in voga ha osannato, nello spazio di un cartella e mezza, il nuovo romanzo di una sua collega citando, con abilità oratoria sopraffina, tutta la letteratura europea, da Dante a Svevo a Céline. Faceva venire, in un colpo solo, la nausea per il romanzo in questione, per la letteratura e per la retorica (“uno strumento che si adopera solo negli Stati malati, come la medicina” – Montaigne).
Perciò io sono d’accordo con le intenzioni di Spazzavento, e spero che non rimangano lettera morta. Se avessi partecipato agli incontri lo avrei detto. Il “semplice leggere” (come il “semplice scrivere”, che è l’altra faccia della stessa medaglia) va spazzato via, provando a inserire nella letteratura, anche con azioni di chirurgia o alchimia azzardate, la sua anima perduta, se così posso dire, il suo spirito filosofeggiante e primitivo, secondo cui la scrittura e la lettura sono processi legati indissolubilmente, come la parola scritta e la parola parlata, ma anche come le immagini e le parole, o i suoni e le parole, e così via. Faccio un esempio. Dopo aver letto in classe alcune pagine di Cecità di Saramago, a parte la grande calma e rilassatezza che si è creata subito (vi invito a tener sempre presente il contesto particolare del quale sto parlando: non una classe qualsiasi, bensì questa mia classe), è venuta fuori, con molta naturalezza, una discussione a partire da una frase che qualcuno ha colto a volo, non so come, nel primo capitolo: “Vedo sempre lo stesso bianco, per me è come se la notte non ci fosse”. Io ne ho fatto notare un’altra: “E mi dice che è avvenuto all’improvviso, Sì, dottore, Come una luce si spegne, Più come una luce che si accende”. Dopo alcuni scambi sul paradosso della cecità come una luce che si accende, ho introdotto un discorso, per adesso vaghissimo, sugli Eroici furori di Bruno e sul quadro di Bruegel La parabola (caduta) dei ciechi, che ho consigliato di andare a vedere su internet. E così via…
In un primo momento, avevo pensato di leggere il romanzo ad alta voce da solo, ma poi, un giorno che mi era andata via la voce, ho chiamato una ragazza, G., a sostituirmi, e lei, che di solito ha un tono di voce cantato ed enfatico (lezioso), mi sono accorto che, leggendo leggendo, subiva come una metamorfosi. Leggeva la parte in cui il medico non riesce a spiegarsi che cosa stia succedendo al cieco che ha appena visitato, del quale proprio non arriva a definire la patologia. Mentre leggeva, guidata forse anche dallo stile particolare che usa Saramago in questo libro, di concatenazione senza soluzione di continuità tra discorsi diretti e voce narrante, mi sono accorto che G. andava progressivamente perdendo l’enfasi cantata della sua voce, adeguandosi in maniera meravigliosa e direi perfetta alle pagine del romanzo. Cambiava voce, ma chiaramente senza averci pensato prima. La sua voce dal tono solitamente cantante ed enfatico perdeva progressivamente la leziosità e cedeva al tono misterioso e suadente suggerito dalle parole del libro. È una cosa, questa, sulla quale non mi era mai capitato di riflettere, ma evidentemente ci sono delle parole, e dei testi, che hanno una immediata forza di attrazione e trasformazione. Ne deduco che ci sono anche le parole dei testi (che non ci appartengono) a condizionarci nella lettura, ragion per cui essere bravi lettori non ha quasi niente a che vedere con una tecnica teatrale, con la dizione, l’impostazione, etc. Questo potrebbe andare insieme a quanto dicevo sopra della presunta neutralità dell’atto del leggere. Comunque – per la cronaca – l’ultima frase del primo capitolo che a G. era toccato in sorte di leggere, faceva così: “Quella notte il cieco sognò di essere cieco”.
In seguito all’episodio della lettura di G., ho deciso che chiamerò a leggere anche altri, per vedere se capita qualche altro fenomeno analogo, ma non so ancora se discutere con i ragazzi del cambiamento improvviso del tono della voce della studentessa G., anche perché non so quale fondatezza non casuale abbia questo avvenimento. Intanto, ricordandomi di un analogo esperimento fatto da Tolstoj, ho deciso che annoterò in un diario tutte le volte che leggeremo qualche pagina del romanzo e tutte le discussioni che faremo in classe in merito alla ricerca sulla “cecità”, oltre naturalmente a tutte le uscite che ci capiterà di fare, ai momenti in cui scriveremo, etc.
Postilla sulle virtù della classe scolastica
Tutti, a maggior ragione oggi, possono dir male della scuola, è facilissimo, sia da giovani che da vecchi. Molto più difficile, invece, è riflettere su tutte le cose buone che si possono fare, e che si son sempre fatte nei secoli forse, in un’aula scolastica. Una di queste è senz’altro leggere con affetto condiviso. Quando si sceglie il testo giusto e il momento giusto, una classe diventa un luogo particolarmente amichevole, una specie di giardino, o un angolo felice di un luogo familiare. Leggere non dovrebbe mai essere un fatto solipsistico, esibizionistico, spettacolare. Se diciamo che leggere dovrebbe portare altrove, dobbiamo intendere che dovrebbe trasportare chi legge a non leggere, e dunque a tornare a desiderare la vita fino in fondo, per poi tornare a desiderare di leggere, e così via. La tendenza a estraniare la lettura da un tale ciclo naturale è la morte della lettura stessa. Ecco perché spazzare via la sacralità mercificata che si è creata intorno al “semplice leggere” è, più che un dovere civile, un atto di liberazione dalle catene. In una classe scolastica come quella che ho provato a evocare qui – la classe giusta al momento giusto – è possibile studiare e pensare in modo ideale, e la lettura condivisa, affettiva, diventa uno strumento, soltanto uno strumento del pensiero. Credo che intendesse questo Averroè quando sosteneva che il rapporto tra allievo e maestro non consiste affatto nell’indottrinamento, ma nel pensare la stessa cosa insieme e nel medesimo istante. Se è a comportamenti virtuosi che dovrebbe ispirarsi la società che non ci stanchiamo di sognare, forse in certe classi scolastiche, grazie alla lettura, si può sperimentare in nuce il modello – imperfetto e felice – di una comunità di pensiero dell’avvenire.