Quando qualcuno mi viene a trovare a Houston, la città dove vivo da dieci anni, c’è una prova alla quale sottopongo i miei ospiti senza che loro lo sappiano. Li porto a vedere la Rothko Chapel e osservo la loro reazione. La Rothko Chapel è costruita su una pianta ottagonale incrociata a una croce greca. Doveva servire da installazione permanente per una serie di pannelli di Mark Rothko, che partecipò anche al progetto architettonico ma ebbe da ridire sulle idee dell’architetto Philip Johnson, dipinse i pannelli finché, distrutto dalla depressione, si suicidò a New York nel 1970. La cappella, commissionata da una coppia di magnati dell’arte, John e Dominique de Menil, fu completata e inaugurata nel 1971.
È un luogo di meditazione e di preghiera non-denominational, non legato a nessuna religione. Si entra nel nudo edificio di mattoni rosa, senza ornamenti esteriori; si firma il registro, si può prendere in prestito il testo sacro di ciascuna delle maggiori religioni del mondo, e si è ammessi in un ottagono grigio, alle cui pareti stanno quattordici pannelli di un colore impossibile da definire. Neri, ma anche blu, viola, grigio scuro, verde scuro, a seconda delle variazioni di luce che filtrano dal soffitto. Un foro centrale, rotondo, al quale sottostà un diaframma che impedisce alla pioggia di entrare, lascia passare lateralmente una luce circolare e diffusa. L’effetto, una volta entrati, è quello di avere cambiato pianeta. Nessun rapporto tra l’interno e l’esterno. Nella vicinissima De Menil Collection, un museo costruito da Renzo Piano negli anni ottanta, a pochi passi dalla cappella, e dotato anch’esso di un soffitto che lascia filtrare la luce del giorno, la forte luminosità meridionale del Texas non viene affatto abolita, bensì accortamente usata. Non così nella Rothko Chapel, dove la luce stessa si fa grigia, sommessa, invisibile. Passa come un vento delicato sui pannelli monocromatici, alterandone la percezione, rendendoli ora morbidi, ora cupi; ora esaltando ogni singola pennellata, ora pietrificandoli nell’uniformità di un monolito alieno. Ci si può sedere su panchine o su cuscini, contemplando le lastre nere e cangianti alle pareti, o ci si può dimenticare di tutto, come se si fosse entrati in un modulo di trasporto spaziale dal quale non si uscirà più. Spesso, la sera, vi si danno concerti o conferenze. Ma senza la luce del giorno l’effetto è tombale, da cripta.
Se osservo il comportamento degli ospiti che porto a vedere la cappella non è per giudicare il loro grado di sintonia artistica, quanto per reimparare da loro la reazione della prima volta, che io non posso recuperare. Ma non c’è una regola, non si può prevedere chi e come reagirà allo spazio della cappella. Perché non c’è niente che le somigli, e dunque è possibile, come io ho visto, che persone di scarsissime frequentazioni artistiche affermino subito che vi si fermerebbero volentieri per ore, mentre un celebre scrittore e giornalista mi sorprese all’uscita quando, riferendosi al monocromatismo dei pannelli, si lasciò sfuggire un “Beh, non voglio dire una banalità come ‘lo saprebbero fare tutti’, però…”.
È vero, i pannelli sono delle grandi spatolate di nero di due metri per tre, ma è questo l’aspetto che bisogna guardare? È forse il “guardare” l’esperienza che la cappella richiede? E, se non è il guardare, forse non è nemmeno il sapere. Ad esempio sapere che l’opera rappresenta anche lo stadio terminale di una disperazione. Nell’ultima fase della sua vita Rothko giunge ad abolire non solo la forma ma anche il colore. Davanti alla catastrofe di tutti i codici di riferimento, una vera “fine del mondo” che è anche la fine di una percezione, la differenza tra interno ed esterno scompare; non c’è che interno, non c’è che la tremenda “cosa” di una striscia di colore che interrompe un campo di un altro colore. Ma anche nella devastazione che presiede a opere come Black on Grey, dove perfino il ricordo degli straordinari rossi, arancione e blu di tanti Untitled sembra cancellato, la soglia, il luogo o non-luogo della differenza che separa il nero dal grigio rimane a testimoniare che un margine resiste, che non tutto è stato inghiottito da un’assenza sconfinata, e che la “cosa” nera o grigia, nella quale possiamo leggere l’autismo, la follia, la depressione suicida, non ha invaso l’intero campo della realtà.
Nei pannelli della cappella di Houston, invece, accade che il margine tra il grigio e il nero, tra la realtà condivisa e la “cosa” ancora più reale che la minaccia (un reale assoluto, abissale), è stato cancellato. L’entità nera ora domina l’intero spazio della tela, pigra nebbia senza forma, quasi precedente la stessa creazione della materia, e ad essa materia certamente ostile. Come si può pensare di fermarsi a pregare, meditare, o semplicemente rilassarsi, dimenticare, in un luogo che sembra il trionfo della non-vita (non della morte, ma di uno stadio dell’essere che non accederà mai alla vita)? Come ignorare che l’intera cappella rappresenta la vittoria di un senza-nome al quale l’uomo Rothko poté sfuggire solo tagliandosi le vene?
Se non fosse per la luce che filtra dall’intercapedine tra il soffitto e il diaframma. Una luce che non crea nulla, e che pure “sta” per un sempre possibile inizio di creazione. “Sta” a rivelare, o piuttosto a suggerire sommessamente, senza il minimo rumore (anche la luce può fare rumore, ma non in questo caso) che perfino nella cosa nera risiede intatta la possibilità del blu, del viola e del verde. Il corpo di Rothko giaceva dissanguato sul pavimento di un appartamento di New York, ma la sua testimonianza, la sua anima, si era rifugiata nelle piccole onde di luce che quietamente avrebbero invaso la sua cappella, molto più che nelle voragini nere appese ai muri.
In un celebre passo della Noche oscura (Libro 2, cap. 8), San Giovanni della Croce afferma che, per quanto sembri incredibile, più luminosa e pura è la luce divina, più oscura è per l’anima. Ma questo accade perché la luce in se stessa è invisibile, e la si può vedere solo se colpisce un oggetto. Se un raggio di sole attraversasse una stanza assolutamente vuota, senza incontrare nemmeno una particella di polvere, la luce già presente non aumenterebbe. Anzi diminuirebbe, perché il raggio di sole farebbe apparire più scura l’altra luce. Poiché oltrepassa la luce naturale, la luce divina di conseguenza oscura l’anima, lasciando le facoltà naturali nell’oscurità e nel vuoto. Ma se incontra un oggetto (un granello di polvere, un’anima) sul quale splendere, proprio quando l’anima teme di avere raggiunto il fondo dell’oscurità, la luce divina gli permetterà di fare chiarezza intorno a sé, più che se si trovasse immersa nella luce naturale. Nella Rothko Chapel la luce che tocca i pannelli mostra la virtualità della creazione. Ma è nel suo tragitto invisibile, appena ha lasciato il foro nel soffitto e un millimetro prima che abbia raggiunto le tele, che abbandona la sua dimensione naturale per farsi sovrannaturale. Lo scopo della cappella non sta nel fornire uno spazio alle tele, quanto nell’illuminare, invisibilmente, chi entra a guardarle. Ed è questo che, senza abolire la disperazione, le concede la pace.