Il romanzo di ambientazione scolastica, che dalla seconda metà dell’Ottocento in poi si è conquistato uno spazio piuttosto ingombrante negli scaffali della nostra letteratura, è un genere particolarmente apprezzato dagli editori (ma anche dai produttori cinematografici) perché ha come target un segmento di mercato vasto e appetibile: circa un milione di insegnanti sufficientemente alfabetizzati (per l’80% donne mediamente cinquantenni) con stipendi non alti ma per ora al riparo della crisi; a questi poi, se si vuole allargare il cerchio, si aggiungono ca. 7,5 milioni di studenti e più o meno il doppio dei genitori. Quello della scuola è poi un tema che piace molto anche a un certo tipo di scrittori, soprattutto a quelli che mettono insieme impegno e umanità (umanità pelosa, viene da dire), perché permette di piazzarsi comodi in uno spazio mentale a metà fra il dentro e il fuori e da lì concionare sulle proprie personali concezioni pedagogiche, il proprio personale punto di vista sulla società e i giovani, il proprio personale giudizio sulle istituzioni. Cornia, almeno a giudicare da quello che ha scritto finora, tutto sembra fuorché rientrare in questa categoria; perciò, prendendo in mano Il professionale. Avventure scolastiche, uscito pochi giorni fa per Feltrinelli, dopo un primo moto di sconcerto non si può che riconoscere il suo coraggio nell’inoltrarsi spavaldamente in regioni così pericolose della letteratura, nelle quali abitano fra le peggiori nefandezze letterarie (peraltro da anni il genere della fiction scolastica è una specie di riserva della sinistra, in particolare di quella depressa e sfiatata, dalle lamentazioni senza costrutto). Del resto Cornia, pur essendo uno degli scrittori più colti della sua generazione, quando scrive sembra che non faccia mai conto di quello che è stato scritto prima di lui, con uno stile che non saprei dire quanto è personale in termini tecnici, ma che è indubbiamente suo. Anche questa escursione scolastica dunque è particolarmente originale, o perlomeno a me non viene in mente nessun altro esempio in cui il ruolo del professore, del quale si raccontano qui le avventure, è assunto dal peggiore e dal più crudele degli ex-studenti. Poco dopo l’uscita di Cuore Paolo Mantegazza pubblicò Testa, una specie di controcanto positivistico del romanzo di De Amicis, nel quale si racconta il seguito della storia di Enrico Bottini. Anche questo di Cornia potrebbe essere interpretato come una specie di sequel involontario di Cuore, solo che in questo caso si narrano le avventure del temibile Franti, che dopo aver faticosamente terminato gli studi è salito in cattedra e adesso può malversare in piena legalità gli studenti e i colleghi, come in una messa satanica in cui la liturgia è esattamente la stessa, ma rovesciata. Qui però è opportuno aprire una parentesi. Io non credo che Cornia sia veramente cattivo; perlomeno non è da questo romanzo che lo si può dire. La sua, piuttosto, è la cattiveria che è da sempre la compagna fedele della ricerca scientifica. L’idea che mi sono fatto è che quando Cornia incontra qualcuno di interessante, specialmente se c’è una certa differenza di età, viene preso da una smania incontenibile di stuzzicarlo fino a provocare una reazione di qualche tipo, su cui poi poter fare i suoi ragionamenti. Quando ad esempio un suo allievo con lo zaino gonfio di merendine chiede di poterne mangiare una prima della ricreazione canonica, il Cornia-professore lo autorizza, ma solo se riuscirà a farla fuori in un boccone e alla velocità della luce. Il ragazzo esegue, ma il buondì fa tappo, e il professore acconsente a mandarlo a bere solo dopo prolungati tentativi di deglutizione, con la classe in estasi allo spettacolo del soffocamento. Io sospetto che Cornia più che un professore si consideri uno scienziato pagato dallo stato per condurre sofisticati esperimenti sociali. Qual è il momento in cui gli allievi, da selvatici che sono in natura, cominciano a dare cenni di incivilimento? Quanto un comportamento destabilizzante del professore diminuisce oppure accresce la sua autorevolezza? Se fosse vissuto in un paese anglosassone, Cornia sarebbe probabilmente diventato uno di quei ricercatori universitari che esercitano il loro sadismo scientifico allestendo elaborati e costosissimi esperimenti di psicologia sociale, e adesso accanto all’esperimento carcerario di Stanford avremmo l’esperimento dell’IPSIA di San Felice sul Panaro, nel quale si indaga la reazione degli studenti allo scoppio di un petardo nel bel mezzo di un compito in classe decisivo (anche questo esperimento, che in Cornia è solo mentale, fa pensare a Mantegazza: un giorno, per studiare la reazione umana agli shock improvvisi, si avvicinò da dietro alla moglie che stava leggendo tranquillamente in poltrona e le sussurrò che era morto suo padre). Il sottofondo del libro dunque potrebbe essere questo: cosa succede se si sostituisce al modello di professore standard un precario dalla carriera studentesca disastrata, che ha sviluppato negli anni un profondo disgusto per l’istituzione scolastica fino a considerarla la causa di ogni cosa brutta che c’è nel mondo, che trova offensiva l’idea di alzarsi presto, che non ha nessuna idea positiva di tipo pedagogico e anzi si irrita al solo sentire parlare di didattica, ma che al tempo stesso crede che quello del professore è un lavoro come un altro, e che se uno per qualche motivo c’è capitato dentro tanto vale fare quello che si deve fare, senza tante storie? Cornia peraltro è abbastanza onesto da coinvolgere anche se stesso nell’indagine: un giorno ad esempio, preso da un improvviso raptus autodistruttivo dopo una sbandata in macchina, corre a scuola a licenziarsi, provocando il panico tra preside e segretari perché, essendo la prima volta che capita un fatto del genere, nessuno sa di preciso cosa fare. Qualche volta poi l’esperimento rischia di degenerare, come quando, a causa di una maglietta un po’ equivoca (“Made in jail”) viene sospettato di essere un ex carcerato, probabilmente per reato di omicidio; o quando racconta ai suoi alunni di aver perso la memoria e tutta la classe si mobilita per spiegargli chi è, dove abita, che macchina ha (gli viene trovata anche una moglie che non sapeva di avere). Ma al di là dei singoli episodi, questo libro si legge con gratitudine proprio per quello di cui altri sentiranno forse la mancanza: il totale disinteresse in merito all’onnipresente tema della “Scuola”, con tutte le sue paludose derive didattiche e sociopolitiche. Cornia racconta la sua scuola senza giudicare, e senza una particolare volontà di provocare un giudizio nel lettore; la racconta come se fosse un fenomeno naturale del quale non si può far altro che constatare l’esistenza, inevitabile come la pioggia, come una malattia per la quale non si è ancora trovata la cura, come qualcosa che si regge su un fondamento di insensatezza così totale che ogni progetto di riforma è, filosoficamente, non solo impossibile ma anche impensabile. E non si tratta di rassegnazione, ma di un invito implicito a godersi lo spettacolo; almeno quello.
Franti in cattedra
in: Circolari •