Accade che la sala buia di un cinema, il senso di raccoglimento e di sospensione che ne deriva aiutino a traversare il fuori/dopo con un passo più preciso, a volte rendendo il piede quasi alato, solo in principio malfermo nella sua partenza timida e perplessa. E sono proprio i passi, i passi coi quali misuro la densità dello spazio appena fuori l’immersione cinematografica, la prima misura della visione cui ho partecipato, se tale è stata. L’impressione, tanto improvvisa quanto intensa, non è di avere assistito a qualcosa di inedito o modernissimo, bensì di essermi imbattuta fortunosamente in qualcosa di inattuale, direi persino di remoto. Una sensazione così strana e pervasiva da coinvolgere anche lo sguardo, ora aguzzato e più mobile, quasi in sentore di richiamo, mentre i contorni singolarmente nitidi e pungenti dell’esterno rendono manifesto come tutto sia ancora da rivedere, o meglio risentire. Si tratta di una specie di rincorsa, che solo dalla compressione all’indietro può guadagnare la spinta necessaria ad ipotizzare ciò che le sta davanti.
Mi accorgo di avere descritto il mio stato di spettatrice come uno stato attivo, e tale è davvero, seppure il corpo per paradosso sia rimasto per due ore immobile o quasi, negli accomodamenti variabili di una poltroncina imbottita in sesta fila. Anche nella percezione abita una potenza che può essere attivata, talvolta addirittura scatenata, da immagini in movimento evocative oltre se stesse, oltre il loro tempo storico. Massimo Rizzante in suo libro sottolinea come la qualità estetica di un’opera d’arte risieda anzitutto nel suo “coefficiente d’attrito” rispetto alla materia, alle sue forme specifiche, ma pure rispetto al momento in cui viene prodotta. E la vis che io riconosco a talune pellicole cinematografiche, siano esse mute o a colori, è tale da sollevarle intatte sopra i fumi e le angustie dell’attualità, del quotidiano più detto e prevedibile, pur essendo il cinema un’arte “giovane” se paragonata al romanzo o alla pittura. Perché la loro temporalità è essenzialmente sospesa, e ciò non dipende né dall’epoca rappresentata, né dalla data d’uscita della pellicola; questo respiro più ampio permette che scatti ciò che definirei un meccanismo di riconoscimento, l’adagiarsi sul letto di un fiume più vasto, qualcosa di vicino all’intuizione per cui la nostra vita non è solo nostra, e risulta d’improvviso limitante percepirla come legata in tutto all’hic et nunc.
Questa sensazione a metà tra il rapimento e la meraviglia mi fa ripensare agli occhi sgranati con cui si assisteva nel XVIII secolo alle vedute ottiche del Mondo Nuovo, semplici cartoncini dipinti a mano e illuminati dal retro con una candela; anche lì, pur con meccanismo inverso rispetto alle sale odierne, una piccola luce dal buio svelava uno spazio inimmaginato, intravisto, o solo sognato. Se parte dell’ingenuità dell’epoca se ne è andata, o meglio è stata sostituita da forme apparentemente più sofisticate, “cieche” nell’essenza, ciò che resta di questo riconoscimento vorrebbe ispirare questa modesta rubrica, a partire dal suo titolo.
Déjà vu inteso dunque non solo come volontà di riportare alla luce e all’attenzione pellicole ormai dimenticate, poco note o per nulla distribuite, ma come esperienza di una familiarità inaspettata con eventi e immagini che si presumono non vissuti personalmente. Questa familiarità prepotente, che si estende a tutte le parti del corpo e alla percezione stessa dell’esterno, viene giustificata dalla scienza come sensazione erronea, black outtemporaneo; eppure la vivezza di questi momenti svela nella visione qualcosa che dagli occhi discende alla coscienza, uno slittamento progressivo e magico, come se in virtù di un salto non del tutto razionale si potesse accedere ai nostri fondamenti mitici, accessibili solo per via immaginativa.
È questo terreno comune che il linguaggio cinematografico, nella sua realizzazione più potente, può portare alla luce, quasi fosse un gorgo, un’emergenza dal sottosuolo. Il “già visto” si svela allora racconto e forma dell’origine, e la riemersione da questo consapevole abbandono regala un’andatura “da esploratori”, ove nulla è scontato, come accade ai bambini.
Se mi citi il “coefficiente d’attrito” del Rizzante rapisci subito la mia attenzione!
Faccio un salto tra la folla, mi sbraccio, mi volto e grido: “Non siamo gli ultimi!” 🙂
Stefy, il nome della rubrica è fantastico! Avanti così!