Basta dare un’occhiata ai titoli riportati in cima alle top-ten dei libri più venduti per rendersi conto di quale sia l’accezione dominante a cui sembra essere ridotta, ormai, l’arte del saggio. Come un grande calderone, la sezione delle classifiche dedicata alla saggistica assembla opere di ogni tipo: per la maggior parte resoconti giornalistici (quando non vere e proprie rese dei conti) firmati da star del giornalismo televisivo oppure studi eruditi. Ma non solo: nella stessa sezione figurano anche guide di viaggio, libri di cucina (anche questi scritti da vedette del cinema o della televisione), messaggi di propaganda elettorale mascherati da parabole bibliche, autobiografie di calciatori, manuali di scrittura creativa ad uso dei pubblicitari (insieme ai calciatori, nuovi guru del nostro tempo)…
Nonostante il carattere di estrema varietà con cui si presenta l’insieme dei libri che l’industria editoriale tende ad annoverare nel genere saggistico, è comunque possibile riconoscervi alla base almeno un elemento ricorrente.
Essi appaiono tutti riuniti dall’intento di insegnare qualcosa; di dimostrare un’«opinione» o la propria «versione dei fatti», cercando di farla passare come oggettivamente valida e indiscutibile (ossia, superiore a quella degli altri).
Il che sottende anche, come presupposto implicito a questo genere di opere, che conseguano la finalità di veicolare contenuti in qualche modo utili, nel senso di materialmente spendibili. Elemento che, se davvero potesse essere assunto come tratto distintivo del saggio, basterebbe a porre quest’ultimo oltre i confini della letteratura, a meno di voler continuare a considerarla come un’arte e non piuttosto come un’appendice del giornalismo.
Questo modo di intendere il saggio come genere di discorso basato sulla dimostrazione di una tesi è però fuorviante e, in ogni caso, limitativo; lo stesso significato della parola «saggiare», a rifletterci su, presenta un’accezione più sperimentale che sistematica e sembra rimandare all’idea di un confronto diretto con l’oggetto da indagare; di un’analisi che, in ogni caso, resta esente dall’esigenza di pervenire ad una conclusione definitiva.
Il carattere a-sistematico del saggio risulta ancora più chiaramente se si prende in esame il corrispettivo francese del termine: «essai», ottenuto dal verbo «essayer», che significa letteralmente «tentare, mettere alla prova».
Se la consideriamo in questa prospettiva, sembra che il tratto specifico del saggio non sia rappresentato dalla ricerca di una verità, ma piuttosto dall’accettazione del dubbio, come componente irrinunciabile di una riflessione; a cominciare dalla curiosità iniziale che ne innesca l’avvio, fino alle sue ultime modulazioni.
Un dubbio, che nel caso del saggio – a differenza degli scritti più teorici – non è assunto come semplice artificio retorico o punto di partenza pretestuoso: non viene incluso nel discorso come problema da risolvere, elemento da estirpare; ma, al contrario, come risorsa che il saggista ha cura di coltivare, in quanto salvaguardia unica della stessa facoltà umana di pensare.
È in questo senso che il saggista essaye (saggia): egli sperimenta, prova; la sua attitudine è simile a quella di un esploratore, che procede in avanscoperta, senza fretta di arrivare alla fine del viaggio. Qualunque sia il tema in questione o lo spunto di partenza (una notizia giornalistica, la lettura di un libro, un aneddoto quotidiano, etc.), il saggista lo esamina attraverso le diverse ottiche possibili, badando in particolare a riconsiderarne le interpretazioni più convenzionali alla luce della sua esperienza. Il confronto che ne risulta ottiene l’effetto di relativizzare le prime, di mostrarle in prospettiva; in questo modo, esse appaiono liberate dall’aura di auctoritas che le aveva fatte percepire come indiscutibili.
Come osserva Petr Král, perlustratore d’eccellenza dell’arte del saggio, «saggiare» significa «ricondurre costantemente l’idea al concreto». Questa è la condotta assunta da Michel de Montaigne, forse il primo ad interessarsi al saggio come ad un regno di nuove possibilità da sondare, mostrando consapevolezza della sua natura di arte del dubbio.
Nei suoi Saggi, lo scrittore francese parte dalla constatazione di un’esperienza, di un luogo comune o di un qualsiasi vizio o pregio tipico della natura umana eal rguardo si diverte a passare in rassegna una quantità di aneddoti, ricavati sia dalla sua esperienza personale, che dalla storia o dalla letteratura classica.
Come nel capitolo XVII del Secondo Libro, Della presunzione, in cui Montaigne si interroga su questa debolezza umana, premettendo di non esserne completamente esente e prendendo spunto da alcune leggende o frammenti di autori eminenti, come Platone o Orazio; rispetto alla messa a fuoco del problema, però, Montaigne non tiene i giudizi degli antichi maggiormente in conto dei propri, che comunque lui stesso non usa prendere troppo sul serio: «Ammiro la sicurezza e la fiducia che ciascuno ha in sé, laddove non c’è quasi niente che io sappia di sapere, né che osi esser sicuro di poter fare. Io non ho le mie facoltà catalogate e inventariate; e non ne ho conoscenza che dopo il risultato: dubbioso di me più che di ogni altra cosa».
La riconduzione dell’idea astratta al «concreto» dell’esperienza vissuta non produce chiarimenti definitivi, dal momento che la stessa natura umana è in perenne evoluzione e, per questo, non può rappresentare un parametro di valutazione stabile: «Se la mia anima potesse stabilizzarsi, non mi saggerei, mi risolverei – scrive Montaigne, in un altro capitolo dei Saggi -; essa è sempre in tirocinio e in prova». Per assicurarsi la possibilità di saggiare, ossia di continuare a pensare senza cadere nel baratro dell’astrazione, il saggista evita di costringere le sue riflessioni nella difesa di un’opinione; quest’ultima, per il fatto di presentarsi come un’affermazione, dunque una questione già risolta, rappresenterebbe un pensiero cristallizzato, inautentico. Così la vera attitudine del saggista pare essere piuttosto quella della negazione: «Una volta che ho avuto un’idea, devo negarla; è la mia maniera di saggiarla», spiega Alain.
Il saggista degno di tal nome raschia la patina del sapere convenzionale, per osservare quello che resta; si intuisce allora che la cosiddetta «saggezza», il tipo di comprensione a cui tende il saggio, non nasce dall’acquisizione di una sequela – sempre più numerosa – di informazioni, ma appare, piuttosto, l’esito di un esercizio di sottrazione.
Que sais-je ? La certezza socratica di non sapere, la propensione a coltivare il dubbio e l’ipotesi, il gusto per l’ironia e l’attenzione rivolta all’esperienza concreta sono tutti elementi che contraddistinguono la pratica del saggio intesa come occasione di sviluppare una meditazione personale; pratica inaugurata da Montaigne e arricchita, a distanza di secoli, dal Rousseau delle Rêveries, Diderot, Baudelaire, Alain, Cioran, oltre che da numerosi romanzieri del XX secolo (se, tra i migliori romanzieri di questo secolo, molti sono anche autori di saggi letterari, come Carlos Fuentes, Milan Kundera, J. M. Coetzee, Peter Handke, è anche vero che una caratteristica del romanzo del Novecento è stata quella di accogliere riflessioni prettamente saggistiche all’interno della struttura narrativa, dando luogo ad una nuova forma di romanzo in cui anche il saggio appare ricondotto alla sua natura primigenia di pensiero disinteressato).
Questi aspetti, dunque, sembrano collocare il saggio nell’ambito artistico, sottraendolo all’egida della mentalità scientifica altrimenti dominante: «Ora, un saggio non fa parte della scienza – scrive Milan Kundera – ma della letteratura. Non lo si scrive in un’atmosfera apparentemente conviviale quale quella di un’équipe di ricercatori che lavora in laboratori sparsi nei cinque continenti. Lo si scrive in solitudine. Un saggio non segue un Metodo religiosamente venerato. Non perché desideri negarlo (così come una religione nega un’altra religione), ma perché non ha con esso nulla da spartire, perché è altrove». Ancora Kundera, nel suo personale dizionarietto poetico (incluso nel saggio sull’Arte del romanzo) aveva chiamato l’aforisma «forma poetica della definizione», sottolineando il carattere intuitivo e sistematico delle sue rivelazioni; fratello maggiore dell’aforisma – perché procede dallo stesso principio di illuminazione improvvisa, ma tende a svilupparlo -, il saggio può essere allora inteso così: come forma poetica della riflessione. Questa insistenza sul concetto di forma, come elemento indispensabile al saggio, mi sembra importante. L’obiettivo del saggio, infatti, non è banalmente informativo; ma, come sempre nel caso dell’arte, formativo in senso più ampio (la stessa etimologia di poesia, poiesis, rimanda al concetto di forma, di composizione): esso non consiste nel riempire uno schema preesistente di determinati contenuti, ma nell’invenzione di forme nuove, che permettono di cogliere in maniera diversa la realtà. «Metodo senza metodo», come lo definisce Robert Lane Kauffman, il saggio dunque si configura come una vera e propria arte, di dignità non inferiore alla poesia e al romanzo.
Come la prima, esso coltiva una preferenza per le forme brevi e per un’organizzazione del discorso che sembra procedere, piuttosto che sulla base di una logica lineare, dietro l’impulso della suggestione di immagini e di associazioni di idee. Diversamente dalla poesia e alla stessa maniera del romanzo, invece, il saggio si caratterizza per l’adozione di un linguaggio semplice e non ricercato e, soprattutto, per la scelta della prosa come strumento di relazione al mondo; giacché – osserva François Ricard – «La prosa non è soltanto una maniera di scrivere. È, più in generale, una maniera di essere nel mondo e di decifrarlo (…). Perché la prosaicità del saggio, come quella del romanzo, rappresenta la condizione stessa della sua esistenza e del suo valore. Aperto, ipotetico, ‘non serio’ (nel senso kunderiano), refrattario al pathos ma ebbro di complessità e di incertezza, il pensiero del saggio respira bene solo nell’aria contemporaneamente gioiosa e disincantata che hanno respirato, alla stessa maniera, sia Montaigne che Rabelais».
Constatazione che spinge anche Ricard a concludere che, in quest’epoca, la migliore possibilità che resti al saggio per conservare la sua originaria funzione prettamente “saggistica”, cioè sperimentale, è quella di trovare accoglienza all’interno dei romanzi; ossia, di universi in cui non possano esservi dubbi circa la natura completamente disinteressata delle riflessioni che vi vengono sviluppate.
Ciò vale nel caso di quei romanzi che è ancora possibile intendere come territorio dell’immaginazione. Questa necessità di riparo, infatti, dipende dal fatto che, nell’epoca attuale, l’essenza “saggistica” del saggio appare sempre più minacciata: il suo statuto poetico, relativo all’invenzione di una nuova forma del discorso in grado di sviluppare una diversa visione delle cose, oggi appare per lo più misconosciuto. È in generale la funzione immaginativa dei saggi e dei romanzi che oggi appare ridimensionata e ridotta a quella di presentare uno schema narrativo: che riguardi l’avventura di un personaggio, come nel caso dei romanzi, o un’avventura del pensiero, questo risponde ad un principio logico di causa-effetto, che conduce ad uno scioglimento finale in senso univoco.
Lo statuto fondamentalmente ipotetico e ironico che, fin dalle origini, caratterizzava le due arti del romanzo e del saggio, in molti casi, oggi, viene tradito e sostituito con un obiettivo meramente espositivo. Il saggio, ad esempio, non viene quasi più percepito come il luogo di una domanda ma, al contrario, come genere di discorso che fornisce una morale.
Ciò non può non provocare una ricaduta sul figlio di questi tempi, o meglio sulla salvaguardia della sua identità specifica. L’essenza dell’uomo ha la forma di una domanda, diceva Heidegger. Cosa resta, allora, di questa essenza, se anche la letteratura non arriva più a proporsi come sede in cui coltivare l’aspirazione al dubbio?