Così come l’uomo non resta mai lo stesso uomo, e un uomo dei tempi andati non è uguale all’uomo che siamo noi adesso, allo stesso modo anche l’anima che abbiamo dentro non è stata sempre uguale, e le anime dei tempi di Omero avevano una vita diversa, erano diverse esse stesse, erano quasi impaurite di esistere e incerte se esistessero veramente.
Al banchetto funebre di Patroclo, racconta Omero, il sangue degli animali uccisi scorreva attorno al cadavere così copiosamente che lo si poteva raccogliere con le coppe come da un fiume. Sulla pira vennero accatastate decine di pecore e di buoi, innumerevoli anfore di olio e di miele, quattro cavalli, due dei nove cani appartenuti al defunto e dodici giovani della migliore nobiltà troiana, sgozzati da Achille in persona. Il cadavere di Ettore venne lasciato in pasto alle cagne. Per tutta la notte il Pelide sedette insonne accanto al rogo e versò sulla terra vino nero, invocando tra le lacrime l’anima del morto, che era presente. Achille provò anche ad abbracciarla, ma quella sparì, crepitando nel buio.
Questa grandiosa cerimonia funebre, alla quale fecero seguito i famosi giochi, non va confusa con la pietà dettata da un amore smisurato. È piuttosto il segno del terrore che qualcosa di potente e di oscuro si fosse liberato dopo la morte da quel cadavere, e andasse placato in fretta e con ogni mezzo. Per Omero, l’anima, la psychè, è un parassita, un ospite non gradito del corpo che non ha niente a che fare con esso e che non è essenziale alla sua sopravvivenza. Sfrutta la materialità del soma per poter vivere ed esprimere se stessa, non possedendo alcuna forma né sostanza sua propria. In certi momenti, quando il corpo è più stanco e indifeso, l’anima acquisisce la sua forza e prende il sopravvento, ad esempio in punto di morte, nei deliqui o nei sogni notturni, che hanno dunque la stessa verità delle cose che si possono sentire, toccare e prendere, non essendo altro che i fatti della vita di questo essere che abita, nostro malgrado, dentro di noi. Alla morte di qualcuno, ci si prendeva molta cura affinché il fuoco distruggesse completamente il corpo e tutto ciò che avrebbe potuto offrire un nascondiglio e un riparo a questa anima, ancora desiderosa di aria e di luce. Solo così, attraversato l’Acheronte, si sarebbero chiuse alle sue spalle le pesanti porte dell’Ade, confine invalicabile tra il mondo dei vivi e il regno dei morti. Talvolta capitava che qualcuno con un permesso speciale scendesse a far visita a queste ombre ormai prive di coscienza e di volontà, vuoti eidola vaganti nel buio. Ulisse, per restituire loro la memoria del mondo e poterle interrogare, riempì di sangue ancora caldo una fossa nel terreno, attorno alla quale subito queste anime infelici si accalcarono e bevvero avide; ma fu un momento, e tornarono da lì a non molto alla loro demente eternità.
Qualche secolo dopo, con l’aiuto determinante di Platone, l’anima ebbe la propria rivincita, e da parassita del corpo si proclamò la vera essenza dell’uomo, seme divino imprigionato in un corpo mortale, scheggia di luce del cielo, come se non fosse lei ad aver bisogno di noi per vivere, ma anzi il contrario; e questa strana idea prese talmente piede che è così che ancora oggi noi moderni intimamente sentiamo, per il tramite di quella sorta di neoplatonismo un po’ rozzo e sconclusionato che è il cristianesimo. Ancora oggi, tutto ciò che facciamo e che diciamo è per nutrire, vezzeggiare e placare questa che ci hanno insegnato a considerare la parte più pura e più nobile di noi, e come servitori da commedia, un po’ vili e un po’ furfanti, la invochiamo ed evochiamo continuamente, e preghiamo perché essa sopravviva libera e rimanga tra noi in eterno, quasi che fosse un bene.
Ottimo scritto. Ma che fai, Dino, dipingi anche? 🙂
Che bell’articolo! Un ottimo viatico per questi tempi zuccherosisimi, tra l’altro. Anche il dipinto mi piace molto… è un senza titolo? In ogni caso: bentornato a Zibaldoni e bentrovato, davvero, allo Zibaldino!