Salve. C’è un uso corrente della parola «lanternino» che è quello al quale ho pensato nel concepire questa rubrica. Si dice «avanzare col lanternino» nelle situazioni senza via d’uscita o quasi, quando tutto intorno a noi pare oscuro e privo di risposte, oppure talmente saturo di disvalori, o quelli che a noi paiono tali, che incontrare un altro con cui condividere un qualche “sentimento del bene” ci appare la più remota delle eventualità. E si dice «avanzare col lanternino», mi pare, anche quando non si ha bene idea di dove si stia andando, perché tutto ciò che abbiamo è il terreno sotto i nostri piedi e la coscienza della strada che abbiamo percorso fino a questo momento; insomma, una versione un po’ più speranzosa e consapevole del procedere tastoni.
Mi piace pensare, del resto, che questo uso corrente della parola «lanternino» sia derivato, ben più che dall’immagine del folle nicciano in cerca di Dio (che egli sa morto) sulla piazza del mercato di prima mattina – un annuncio dirompente a suo tempo, ma del quale a dio piacendo abbiamo ormai accolto, fra una bancarella e l’altra, la verità –, alla cosiddetta «lanterninosofia» espressa dal personaggio di Anselmo nel Fu Mattia Pascal di Pirandello. E già questo potrebbe essere un segno: che ne è del mondo in cui un’opera letteraria dal valore unanimemente riconosciuto poteva farsi strada nel senso comune a tal punto da tradurre la visione del mondo del suo autore in forme colloquiali utilizzate da tutti? Non c’è più. Oggi a entrare nell’uso comune sono, nella migliore delle ipotesi, espressioni e formule coniate dal giornalismo, cioè dall’informazione – ma sono anch’esse una minoranza rispetto a tutto ciò che negli ultimi decenni il nostro linguaggio ha assorbito dalla pubblicità, cioè dal mercato (si veda questa pagina, dove gli slogan pubblicitari sono considerati «nostri ricordi», «memoria» collettiva).
Poiché tuttavia non sono affatto sicuro che l’uso della parola «lanternino» derivi dalla diffusione di massa del Fu Mattia Pascal e non piuttosto viceversa, ossia che già all’epoca di Pirandello se ne facesse un uso tale da fornire all’autore lo spunto per l’articolazione del pensiero di Anselmo, che dopotutto è un popolano, meglio che mi limiti all’uso che vorrei farne qui, io, personalmente: quello di un esercizio di coscienza in rapporto a ciò che mi è caro. Ma non è questa, dopotutto, l’accezione che vi dà proprio Pirandello nel discorso del suo personaggio?
«E questo sentimento della vita per il signor Anselmo era appunto come un lanternino che ciascuno di noi porta in sé acceso; un lanternino che ci fa vedere sperduti su la terra, e ci fa vedere il male e il bene; un lanternino che projetta tutt’intorno a noi un cerchio più o meno ampio di luce, di là dal quale è l’ombra nera, l’ombra paurosa che non esisterebbe, se il lanternino non fosse acceso in noi, ma che noi dobbiamo pur troppo creder vera, fintanto ch’esso si mantiene vivo in noi. Spento alla fine a un soffio, ci accoglierà la notte perpetua dopo il giorno fumoso della nostra illusione, o non rimarremo noi piuttosto alla mercé dell’Essere, che avrà soltanto rotto le vane forme della nostra ragione?»
Quanto all’«Essere» alla cui mercé potremmo rimanere una volta spento il lanternino, o alla «notte perpetua» che in fondo gli corrisponde, non so che reagire con le stesse parole con le quali mi rivolgo a chi ancora certe volte, con sfacciato anacronismo, mi viene a interpellare sull’esistenza di quel “Dio” che il folle di Nietzsche sapeva già morto: «Non sono affari miei,» dico – per rispetto, per non mettermi a ridere o incollerirmi di fronte all’altrui ignoranza. Quel che conta, infatti, è il «sentimento della vita», ossia appunto la coscienza, questo parolone, qualcosa che al tempo di Pirandello e Svevo, un secolo fa, veniva dato ancora per scontato e considerato come un baluardo estremo contro la crisi di valori dell’epoca (si veda il seguito del discorso di Anselmo sui «lanternoni») e che oggi, nella pluralità assoluta di valori e interpretazioni, è considerato per lo più nei suoi caduchi aspetti neurofisiologici.
Rispetto a tutto questo, tuttavia, io qui volerò molto più basso: il sentiero sul quale cercherò di avanzare con il mio lanternino è quello della «scrittura creativa» – uso questa parola per la prima volta oggi, qui, in questo testo, non senza il terrore di essere frainteso. Ma la mia incertezza è tale che voglio indulgere anche in questo, nell’adozione di un’espressione che fino a un attimo fa aborrivo, legato com’ero (e sono) alla «letteratura» e alla «poesia». Del resto, come altrimenti chiamare quello che sto praticando in questo momento e che non ha pretese letterarie o saggistiche, ma semmai soltanto “poetiche” in senso lato, cioè orientate alla costruzione di una forma, all’articolazione di un pensiero? E poi, ha ancora senso usare il termine «letteratura»? E per distinguerla da che cosa, ormai? Quando leggo un buon racconto o una bella poesia su ebook reader o su tablet, sono ancora un lettore di letteratura? Che cosa cambia, della mia lettura, rispetto a quando leggo un articolo di giornale in formato digitale o un post di un blog? Sono ancora letture differenti, l’una contemplativa e l’altra no, come quando leggo un libro di carta o un giornale cartaceo? E se lo stesso racconto o la stessa poesia li leggo al computer, in internet, sono ancora un fruitore di letteratura o sono già un nuovo tipo di lettore? Se poi la guardo dal punto di vista di chi scrive, la faccenda mi appare ancora più complicata: ha senso scrivere, poetare e raccontare come si faceva una volta, prima di internet, degli ebook reader, dei tablet? E anche se non ci s’interroga sul senso dello scrivere oggi, si scrive nello stesso modo di una volta? E per un pubblico simile? O invece anche i lettori forti, gli amanti della letteratura, a partire dagli scrittori più sensibili, stanno mutando di brutto e per sempre?
Per dire: poco dopo aver iniziato a digitare questo testo, con un gesto automatico e spontaneo, “naturale”, ho cambiato l’impostazione di visualizzazione del file da “pagina” a “pagina web”, perché sapevo che era destinato alla rete e per qualche ragione volevo percepirlo fin da subito come un testo a scorrimento, un testo retroilluminato in cui si procede unicamente “a vista d’occhio”, davanti ciò che si sta leggendo, in mente ciò che si è già letto, sulla destra un’esile barra di scorrimento, ma nulla in mano, di concreto, che restituisca in ogni momento lo spessore di ciò che ci si è lasciati alle spalle e di quello che ancora ci aspetta, che permetta di farsi un’idea materiale di dove ci si trova nel testo. È come procedere con un super-lanternino, ma in assenza di gravità: non meglio o peggio di un normale lanternino per terrestri smarriti, ma diverso.
Un altro esempio: dei pochi libri che ho letto finora su ebook reader ho faticato dalla prima all’ultima pagina a percepire la forma, la composizione complessiva. Benché in questo caso le pagine in qualche modo esistessero, non mi bastava avere in basso il numero di pagina e potermi spostare con tasti e touch screen fino all’indice per acquisire la piena consapevolezza, ancora una volta, di dove mi trovavo nel testo. E anche adesso: devo continuare a muovere il mouse per ricostruirmi mentalmente la forma del testo che sto redigendo, perché in qualche modo non l’ho presente. Il fatto di non disporne materialmente e di non visualizzarlo in formato «pagina» me ne fa dimenticare di continuo, almeno in parte, la struttura. Da dov’ero partito? Come padroneggiarlo e far tornare i conti senza doverlo per forza stampare e rivedere a penna dieci volte, dal momento che comunque la sua fruizione sarà digitale e «webbica», quindi verrà letto a scorrimento, in fretta e molto probabilmente una sola volta? Quanto posso fare affidamento sulla memoria a breve termine del lettore? Come posso sollecitarla a fronte di una lettura a tal punto presentificata? Per non parlare dei link: quanti lettori di Zibaldoni avranno seguito immediatamente il primo dei due e si saranno fermati per qualche minuto a scorrere slogan pubblicitari degli ultimi vent’anni, distraendosi quanto basta da perdere la percezione complessiva, la “contemplazione” di questo testo una volta che hanno ripreso la lettura?
E di tutto questo non si dovrebbe forse tenere conto anche nella creazione, nella “scrittura creativa” di opere più ampie: romanzi, saggi, poemi? Se abbiamo a cuore le sorti della «letteratura» e non vogliamo assistere a breve alla sua estinzione paradossale nell’oceano della scrittura digitale, dell’informazione e dei social media, dovremmo forse adoperarci perché possa mutare, adattarsi, sopravvivere, senza per questo tradire la propria “natura” di arte verbale. In che modo? Io lo sto cercando con il lanternino.